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La recente sentenza del Tribunale di Roma dell’8 maggio 2019, in tema di conciliazioni sindacali, ha aperto una serie di questioni assai delicate sulle modalità attraverso le quali le organizzazioni sindacali assolvono al delicatissimo compito di conciliare le liti tra datori di lavoro e lavoratori, come previsto dal plesso normativo dettato dall’art. 2113 del codice civile e da alcune norme del codice di procedura civile, segnatamente l’art. 411 e l’art. 412-ter. E’ proprio a queste due ultime norme, infatti, che il dettato codicistico civile, al suo comma 4, fa riferimento allorquando assiste le conciliazioni effettuate in sede sindacale del particolare regime di inoppugnabilità delle stesse.
Il risalto che la stampa ha attribuito alla pronuncia - che si occupava di verbali sottoscritti da lavoratori nel passaggio da rapporti di collaborazione a contratti a tempo indeterminato (come previsto dal Jobs Act del 2015) - si è concentrato, principalmente, su due aspetti: il primo, definito “sostanziale”, è il concetto, tutt’altro che inedito, di effettività dell’assistenza sindacale.
Nel caso di specie, elementi quali la mancata menzione delle rivendicazioni avanzate dalla lavoratrice interessata, le modalità di organizzazione dell’incontro, compresa la scelta della sede (quella aziendale) e di un conciliatore, unilateralmente predisposta dal datore e, soprattutto, la mancanza di qualsiasi contatto o discussione fra sindacalista e lavoratrice prima della stipulazione, portavano il Giudice a ritenere “mancato un contegno concretamente protettivo nei confronti della lavoratrice...un comportamento cioè idoneo a renderla realmente consapevole della portata dell’atto che si accingeva a sottoscrivere”. Si tratta, com’è noto, di un principio tanto consolidato e condivisibile quanto quelli più generali dell’impossibilità di rinunciare/transigere diritti futuri, o quelli definiti in termini generici o comunque indisponibili alle parti. Sul punto dell’effettività (e della qualità) dell’assistenza sindacale torneremo in seguito.
Il passaggio innovativo della sentenza riguarda, invece, quello che il giudice romano definisce l’aspetto “formale”.
Secondo l’interpretazione del giudice, infatti, le conciliazioni sindacali inoppugnabili ai sensi del comma 4 dell’articolo 2113 c.c., sarebbero esclusivamente quelle previste dall’art. 412 ter c.p.c. ivi richiamato, ossia quelle realizzate in ossequio a termini e procedure definite, esplicitamente, in sede pattizia, dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative.
Nel caso trattato, il C.C.N.L. di riferimento non disciplinava la materia; quindi, secondo il Tribunale di Roma, l’unica conseguenza plausibile che ne discende è l’impossibilità, per l’accordo raggiunto, di beneficiare del regime di “non impugnabilità”, previsto dal predetto ultimo comma.
Come è stato osservato da alcuni primi commentatori, la sentenza opera ignorando precedenti approdi di legittimità (Cassazione Sez. Lavoro n. 4730 del 2002) e interpretazioni amministrative (INL nota n. 163 del 17 maggio 2018), negando, così, l’efficacia delle conciliazioni sindacali “libere” ovvero quelle previste dall’art. 411 c.p.c., avulse da predeterminate previsioni collettive.
A questo proposito occorre fare alcune considerazioni che, partendo dal precario coordinamento tra le norme, metta in risalto il profilo sostanziale a cui si faceva sopra riferimento, ossia l’effettività dell’assistenza sindacale (a cui, come vedremo, vanno aggiunte decisive precisazioni sul grado di rappresentatività delle organizzazioni sindacali che operano le conciliazioni).
Partendo dalle prime, è utile evidenziare il fatto che la riforma del cd “collegato lavoro” (Legge n. 183/2010), nell’abolire il tentativo obbligatorio di conciliazione e modificando l’art. 412-ter del codice di procedura civile, ha da una parte aperto l’istituto della conciliazione ad una vera e propria “liberalizzazione”, dall’altra ha irrigidito le modalità di svolgimento delle conciliazioni sindacali (altre modalità di conciliazione..) subordinandole, nell’individuazione delle sedi e nelle modalità di svolgimento, alle previsioni della contrattazione “maggiormente rappresentativa”.
E’ importante sottolineare la circostanza dell’abolizione del tentativo obbligatorio di conciliazione in ragione del fatto che, mentre durante la sua vigenza tutte le conciliazioni (comprese quelle sindacali di cui all’articolo 411, comma 3, c.p.c.) erano sottoposte al vaglio della (ex) DPL (con le garanzie procedurali e sostanziali che conosciamo), l’arretramento del presidio pubblico sulle conciliazioni, ha fatto sì che queste prendessero una strada “di mercato” praticamente obbligata.
In sostanza, l’articolo 412-ter si è trovato ad operare “in concorrenza” con le consolidate modalità conciliative sindacali preesistenti, non previste dall’autonomia collettiva. Queste ultime, che allo stato rappresentano oggi la grande maggioranza delle conciliazioni, sono quindi rimaste il quasi esclusivo strumento attraverso il quale le OOSS offrono assistenza nei confronti dei lavoratori per la risoluzione non giudiziale delle controversie. Accanto a ciò, è da rilevare come la contrattazione collettiva – anche quella storicamente “maggiormente rappresentativa” - abbia solo sporadicamente provveduto a disciplinare, ex art. 412-ter, le sedi e le modalità di conciliazione, evidentemente confidando nelle potenzialità delle procedure “informali” di cui all’articolo 411 c.p.c.
Alcuni contratti collettivi, infatti, prevedono la costituzione di Commissioni di conciliazione territoriali costituite, in alcuni casi presso Enti Bilaterali, composte da rappresentanti di associazioni sindacali e datoriali in pari numero, con una procedura particolare, seppure generalmente poco complessa.
La preferenza accordata, nei fatti, alle conciliazioni sindacali al di fuori della previsione dell’articolo 412-ter, continua a derivare dal fatto che l’effettiva assistenza al lavoratore può ben essere garantita con maggiore celerità in situazioni in cui, come capita frequentemente, i datori di lavoro che rispondono a una rivendicazione non lo facciano tramite un'associazione datoriale ma o direttamente (con un proprio Ufficio del Personale) o tramite un avvocato o consulente del lavoro. In questi casi, se non si vuole ricorrere alla ITL e si vuole guadagnare tempo, è decisamente più comodo conciliare con la categoria e/o l'UVL (Ufficio vertenze legali).
D’altra parte non crediamo sia superfluo rilevare il fatto che, nell’attuale sistema improntato al noto privatismo derivante dalla mancata adozione di una legge sulla verifica della rappresentatività sindacale, la proliferazione di sigle sindacali e di perimetri contrattuali non ha certo aiutato la contrattazione collettiva storicamente maggiormente rappresentativa nella necessaria opera di rappresentanza degli interessi dei lavoratori.
Se a ciò aggiungiamo il fatto che lo stesso problema ha ormai toccato il cuore della rappresentanza datoriale, siamo di fronte ad un quadro ampiamente disarticolato e disomogeneo, nei fatti destabilizzante: se, infatti, esiste un problema di genuinità - per carenza di rappresentatività - di organizzazioni sindacali dei lavoratori spesso operanti in concorrenza sleale di quelle realmente rappresentative, lo stesso è avvenuto sul versante dei datori di lavoro.
Di fronte a questo quadro, che non ha obiettivamente reso possibile un intervento dell’autonomia collettiva efficace nell’individuazione delle forme e dei modi delle conciliazioni, l’attenzione deve focalizzarsi sul secondo aspetto evidenziato dalla sentenza del Tribunale di Roma, ossia quello sostanziale dell’effettiva e qualificata assistenza del lavoratore da parte delle OOSS in sede conciliativa.
In tal senso, è utile richiamare Cass., n. 9255/16 che, pur se ad altro fine, ha sinteticamente delineato il ruolo e gli orientamenti attuali circa il “conciliatore sindacale” affermando che: «Il conciliatore sindacale non è un pubblico ufficiale ma un semplice terzo che, in sede sindacale e nel momento in cui le parti addivengono ad un determinato assetto di interessi, garantisce con la sua presenza l'assenza di uno stato di inferiorità o soggezione tra lavoratore e datore del lavoro che giustifica la previsione di cui all'art. 2113, co. 4, cod. proc. civ. e cioè l'immediata validità di tale conciliazione che non può essere impugnata nel termine di sei mesi ivi previsto, salvo il caso del mancato rispetto dei requisiti minimi di validità del contratto”.
Esemplificativo appare anche il caso affrontato da Cass. n. 4730/02, secondo cui: «Con riferimento alla conciliazione in sede sindacale ex art. 411, terzo comma, cod. proc. civ., al fine di verificare che l'accordo sia raggiunto con un'effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti della propria organizzazione sindacale occorre valutare se, in base alle concrete modalità di espletamento della conciliazione, sia stata correttamente attuata quella funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa”.
In definitiva, a nostro parere, ciò che effettivamente conta è dato dalla circostanza se il lavoratore abbia un concreto supporto e una effettiva assistenza sindacale in tutto l’iter che conduce all’individuazione della proposta/soluzione conciliativa, durante le trattative (ciò da consentirgli di acquisire piena consapevolezza dei contenuti oggetto di conciliazione/transazione nonché delle rinunce – irrevocabili – ai propri diritti), così come nel momento della sottoscrizione del verbale.
Ciò che rileva, ai fini di una valutazione delIa qualità dell’assistenza offerta al lavoratore dall’organizzazione sindacale, è il rapporto di fiducia che si instaura tra i due, che si costruisce attraverso la massima partecipazione del lavoratore a tutte le fasi che precedono la definizione della conciliazione. Solo così i presupposti di competenza e trasparenza che devono improntare ogni momento dell’azione di assistenza possono rappresentare la migliore garanzia a che il rapporto lavoratore/sindacato non si esaurisca in un semplice ed estemporaneo incontro che avviene, magari, pochi minuti prima della firma del verbale. E ciò al netto della sede entro la quale il verbale di conciliazione viene sottoscritto.
Una tutela in tal senso è data dalla previsione che i soggetti chiamati a partecipare all’attività conciliativa per conto delle OO.SS. siano individuati in via autonoma dagli ordinamenti delle singole associazioni e che le loro firme siano depositate presso le Direzioni Provinciali del Lavoro competenti per territorio.
Riteniamo certamente valido il verbale di conciliazione sottoscritto presso le Associazioni datoriali, purché vi sia la presenza, oltre che del rappresentante dell’associazione “ospitante”, anche di un rappresentante delle OO.SS. dei lavoratori: l’effettiva assistenza del dipendente può infatti essere offerta solo dagli esponenti di quell’organizzazione sindacale alla quale egli abbia ritenuto di affidarsi.
Il sindacalista può essere nominato anche al di fuori del rapporto di affiliazione del lavoratore al sindacato di categoria (ciò che, tuttavia, giustificherebbe l’insorgere di qualche ragionevole dubbio/perplessità sulla effettiva garanzia di qualità dell’ “assistenza” al lavoratore), in forza di mandato fiduciario ad hoc.
Ciò detto, occorre prendere atto del fatto che, in casi sempre più numerosi, ci troviamo di fronte a conciliatori senza scrupoli che avallano accordi al ribasso; conciliatori afferenti a sigle sindacali fantasma che non hanno alcun grado di rappresentatività, la cui unica e decisiva caratteristica è quella di fornire un “servizio” a quei datori di lavoro (e non già ai lavoratori!) che preferiscono abbattere i costi sbarazzandosi dei lavoratori con offerte conciliative a dir poco scandalose.
Occorre essere chiari sul punto: le Organizzazioni sindacali serie, come la CGIL, non hanno mai accettato di svolgere trattative con esponenti di tali sigle sindacali, che purtroppo proliferano in ragione di quella impostazione privatista del nostro sistema contrattuale.
Allora, a ben vedere, appare chiaro quale sia il vero nodo della questione (all’origine delle criticità introdotte nella presente nota e di parte delle valutazioni evidenziate in altro contributo già ospitato in questa pregevole rivista), ossia quello della verifica della rappresentatività di quelle sigle sindacali, intervenendo in apicibus sul tema di quali siano le forme più idonee per attuare quella verifica.
Sul tema si sono spesi fiumi d’inchiostro e in questa sede è chiaro che il problema non può essere affrontato, se non evidenziando come la CGIL, da tempo, abbia richiesto un intervento normativo di attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, proponendo alla Camera un disegno di legge di iniziativa popolare corredato da più di un milione di firme (il progetto, denominato “Carta universale dei diritti”, è tuttora pendente in Parlamento).
Sta quindi alla politica, al legislatore, affrontare questo annoso nodo delle relazioni sindacali, tenendo presente che il contenuto dell’intero Titolo II della Carta dei diritti proposta dalla CGIL, trasponendo in gran parte il contenuto degli accordi interconfederali del “Testo Unico sulla rappresentanza”, mira a dare attuazione a quel fondamentale principio di democrazia che permea il nostro sistema costituzionale.
In attesa di questo intervento, la contrattazione collettiva maggiormente rappresentativa fa il massimo per ottenere strumenti di verifica della rappresentatività sindacale, ma ciò non basta, come è evidente se si osserva il drammatico e incontrollato proliferare di contratti collettivi pirata siglati (ciò anche grazie alla complicità di soggetti datoriali compiacenti) in funzione di concorrenza sleale tra OOSS dei lavoratori.
Il sistema delineato dall’articolo 412-ter c.p.c. è certamente un presidio importante per poter garantire un’effettiva tutela dei lavoratori nelle sedi di conciliazione “sindacale”, ma allo stato non può essere l’unico, per le ragioni sopra esposte, purché sia comunque realizzata la funzione di garanzia effettiva di tutela e patrocinio dei diritti dei lavoratori attualmente svolta dalle organizzazioni sindacali effettivamente rappresentative. Posto che l’aspetto della “effettiva assistenza” svolta dal rappresentante sindacale è per la CGIL fondamentale, potrebbe essere un’ipotesi interessante quella di richiamare esplicitamente nel verbale di conciliazione - quale parte integrante dello stesso - tutti i passaggi che hanno condotto alla definizione dell’intesa.
Infine, nelle more dell’auspicato intervento normativo contenuto nella Carta dei diritti della CGIL, pur con tutti i limiti di una formulazione pattizia (e quindi priva di efficacia erga omnes nei confronti delle associazioni non stipulanti), potrebbe in ogni caso essere d’aiuto la stipulazione di un Accordo-quadro Interconfederale a livello nazionale (declinabile territorialmente) che recepisca, magari semplificandolo, il dettato dell’articolo 412-ter c.p.c., così da fornire un quadro di regole condivise per la gestione delle conciliazioni sindacali.

 

 

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