Testo integrale con note e bibliografia

1. Sport e contratto di lavoro
Il campo dello sport ha costituito e continua a rappresentare un significativo banco di prova per verificare la tenuta di principi e istituti propri del diritto del lavoro . Si tratta di un terreno elettivo per il giurista del lavoro, atteso che l’essenza dello sport praticato a livello non amatoriale è una attività di facere che, quando è svolta “a favore di altri” e in cambio di un corrispettivo, e non dunque per mere finalità ricreative o di salute, può dirsi propriamente un lavoro .
La questione del contratto di lavoro sportivo deve inoltre essere osservata attraverso il prisma dei rapporti complessi tra ordinamento sportivo e ordinamento generale, espressamente disciplinati dall’art. 1 del d.l. 220 del 2003, convertito in l. 280 del 2003, norma che acquisisce un fondamentale rilievo sistematico . Sul tema dei rapporti inter-ordinamentali non è concesso dilungarsi in questa sede . In coerenza con la piena autonomia tributata allo sport, accanto al riconoscimento di una funzione sociale, culturale e in tempi recenti persino “preventivo-sanitaria”, la legge n. 91 del 1981 «in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti» sancisce all’art. 1 che «l'esercizio dell'attività sportiva, sia essa svolta in forma individuale o collettiva, sia in forma professionistica o dilettantistica, è libero» . Il singolo dunque, come si desume anche dalla Carta olimpica, non può essere limitato nell’esercizio della pratica sportiva in quanto facendo sport realizza la propria personalità . L’organizzazione dello sport e dei suoi protagonisti (CIO, CONI, federazioni etc. ) è invece sottoposta a regole multilivello , che hanno fonte nell’ordinamento sportivo (statuti, regolamenti, accordi collettivi), ovvero sono di matrice statuale ogniqualvolta emergano «casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo» (cfr. art. 1 comma 2 del d.l. 220 citato). Il lavoro sportivo professionistico rientra tra questi “casi” .
È dirompente in questo campo l’impatto della legislazione e della giurisprudenza europea come i casi Bosman e Bernard, solo per citare quelli più noti, dimostrano.
Oggetto del contributo è la figura specifica dell’atleta nel gioco del calcio. Dacché, come vedremo, il calciatore – al pari degli atleti degli altri sport – è un lavoratore subordinato ex art. 3 della l. 91 del 1981 solamente se professionista, l’esame della disciplina del contratto di lavoro sportivo professionistico presuppone un chiarimento sul binomio tra professionismo e dilettantismo.

2. I requisiti del professionismo ex art. 2 l. 91 del 1981
L’art. 2 della l. 91 del 1981 qualifica come sportivi professionisti «gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell'ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l'osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica». La definizione legale di professionismo assomma diversi requisiti che devono congiuntamente sussistere e sui quali è utile soffermarsi.
Innanzitutto, l’articolo in esame propone con tono perentorio un elenco tassativo di figure professionali , non integrabile né dalle federazioni né facendo ricorso alla analogia legis. Le figure contemplate, tra le quali spicca l’atleta, rivestono diverse funzioni nel contesto della squadra o del team sociale, ma tutte indispensabili per il buon funzionamento del sodalizio sportivo e quindi per la migliore resa delle performances atletiche.
Dalla norma citata si evince poi che è professionista la persona fisica che esercita attività sportiva a «titolo oneroso», indipendentemente dalla costituzione di un rapporto di lavoro. Si pensi al giocatore professionista di golf (art. 1 comma 1, regolamento professionisti) pagato dallo sponsor. La legge sancisce quindi che non è mai professionistica l’attività eseguita a titolo gratuito, in omaggio all’idea del dilettantismo quale attività non onerosa .
Il professionismo sportivo presuppone altresì, sempre a norma dell’art. 2 citato, la “continuità” dell’attività sportiva. L’espressione rimarca il carattere non occasionale dell’impegno sportivo nel tempo, identificando così non, come accade ad esempio nell’art. 409 n. c.p.c., la necessaria soddisfazione di un interesse durevole della controparte, bensì la prevalenza o l’esclusività della prestazione sportiva. Del resto, per alcune tipologie di atleti, solo in tal senso il criterio può ragionevolmente acquisire rilievo discretivo tra professionismo e dilettantismo .
Accanto a requisiti di cui si apprezza un certo realismo, il legislatore introduce un requisito formale del tutto sganciato dalle caratteristiche o dalle modalità dell’esercizio dell’attività sportiva. L’attività è professionistica se rientra tra le discipline regolamentate dal CONI (art. 1 e 2, d.lgs. 220 del 2003; e art. 1, d.lgs. 242 del 1999) ovvero sia qualificata come tale dalle federazioni sportive nazionali (art. 15, d.lgs. 242 del 1999) in conformità agli indicatori forniti dal CONI stesso . All’autonomia statutaria di ciascuna federazione, capace di una complessa valutazione di interessi di fondo, è dunque affidato il potere dirimente di definire il campo di applicazione soggettivo della legge n. 91 . Il CONI si è ad oggi astenuto da un intervento direttivo in materia. Unico riferimento si riscontra all’art. 13 dei «Principi fondamentali degli statuti delle federazioni nazionali e delle discipline sportive associate», laddove si assumono quali criteri la «notevole rilevanza economica del fenomeno» e «la circostanza per cui l’attività in questione sia ammessa dalla rispettiva Federazione Internazionale» ovverosia sia riconosciuta come professionistica. Il CONI valorizza pertanto il peso economico dello sport in questione, secondo comprensibili e ragionevoli istanze di sostenibilità economica del “professionismo continuativo” che comporta l’instaurazione di costosi rapporti, generalmente di lavoro subordinato (cfr. art. 3, l. 91 del 1981).
Le Federazioni che, ad oggi, riconoscono il lavoro professionistico – e non per tutti i settori – si contano sulle dita di una mano . Figura tra queste la Federazione Italiana Giuoco Calcio o F.I.G.C. sulla cui organizzazione interna si dirà brevemente oltre.
A completamento di quanto osservato si aggiunga che la legge impone una limitazione soggettiva dal lato datoriale . L’art. 10 comma 1, l. 91 del 1981, stabilisce che possono stipulare contratti con «atleti professionisti» solo «società sportive costituite nella forma di società per azioni o di società a responsabilità limitata», affiliate a federazioni sportive nazionali riconosciute dal CONI .

3. La questione del “professionismo di fatto”
A differenza del professionista, la figura dello sportivo dilettante non è compiutamente definita dal legislatore . Fanno eccezione norme settoriali poco significative .
Il “non professionista” è definito in negativo. È infatti tale in quanto non possiede i requisiti dell’art. 2 della l. 91 del 1981 e, per la stessa ragione, è estromesso automaticamente dalla categoria dei “lavoratori sportivi” . Si ha quindi la sensazione di una netta spaccatura del mondo dello sport.
Il requisito della preventiva qualificazione federale, da anni oggetto di aspre e condivisibili critiche, evidenzia «sul piano delle conseguenze giuridiche, tutta la sua inadeguatezza» , innanzitutto perché – come avrò modo di dimostrare – detta suddivisione non corrisponde alla realtà odierna dei rapporti sportivi .
Infatti, i requisiti ancorati a dati di realtà come la continuità e l’onerosità, aventi carattere sostanziale, ricorrono spesso anche in molteplici ipotesi rientranti nell’area residuale del dilettantismo. E in questo caso la figura del dilettante tende a sovrapporsi, nei fatti, a quella del professionista, tanto che si utilizza l’espressione anfibia “professionismo di fatto”. Tale condizione riguarda un numero per nulla marginale di atleti attivi . La mera assenza del presupposto formale della “qualificazione federale” o della natura di società di capitali del datore di lavoro sportivo finisce per essere l’unico criterio significativo. In tal modo le non trascurabili ragioni di sostenibilità economica rischiano di tradursi in arbitrio e incidere negativamente sulla condizione giuridica dello sportivo .
La qualificazione federale è infatti la “cruna dell’ago” attraverso la quale sono costretti a transitare gli atleti che invocano le tutele della subordinazione sportiva. Si avalla così un’impostazione formalistica che parrebbe incompatibile con le logiche su cui si è evoluto e si regge il diritto del lavoro .
Per evitare disparità ingiustificate tra professionisti “qualificati” e professionisti di fatto, una parte minoritaria della dottrina ammette l’applicabilità della l. 91, in via diretta o analogica, ai professionisti di fatto privi di qualificazione federale . Sembra tuttavia più convincente – ancorché meno auspicabile negli esiti – la tesi più rigorosa che, sulla base di interpretazione letterale, conferma l’indefettibilità della qualificazione ad opera delle federazioni quale presupposto applicativo della disciplina speciale .
Anche la giurisprudenza propende per tale ricostruzione e nega correttamente l’applicazione in via analogica atteso che la disciplina del lavoro sportivo ha carattere eccezionale (art. 14 prel. c.c.) . D’altra parte, la giurisprudenza ha chiarito che negare la qualificazione professionistica impedisce allo sportivo di stipulare contratti di lavoro regolati dagli articoli 4 e seguenti della l. 91, ma non può impedire il riscontro di un rapporto di lavoro (subordinato o autonomo) regolato dalla disciplina generale . E anche per tale motivo è da escludere che la l. 91 violi il principio di indisponibilità del tipo legale .
Da ciò deriva però un’ulteriore aporia nel trattamento normativo degli sportivi dacché al professionista subordinato s’applicano le vistose deroghe della legge n. 91 e al “dilettante” che vince la causa, invece, l’intera disciplina. Una conseguenza, questa, dettata da una logica interpretativa rigorosa ma paradossale, atteso che la legge n. 91 nasce proprio con l’intento di “adattare” le protezioni al particolare contesto del lavoro sportivo che è lo stesso ambiente dove prolifera il “falso dilettantismo” .
La giurisprudenza europea della Corte di Giustizia, depotenziando l’impermeabilità dell’ordinamento sportivo , ha considerato in diverse pronunce l’attività sportiva oggetto di un contratto di lavoro (con conseguente applicabilità degli art. 49 ss. o 56 ss. TFUE) se resa in cambio di un corrispettivo . E al contempo ha dichiarato l’irrilevanza della qualificazione di “dilettante” affibbiata dalle federazioni nazionali , offrendo una importante sponda agli sportivi in cerca di protezione. Sulla medesima rotta si pone l’art. 2 del regolamento FIFA su status e trasferimento dei calciatori.
Le pronunce nazionali e quelle europee non hanno fornito una soluzione definitiva al problema atteso che il sistema si regge ancora sul fragile equilibrio garantito dall’art. 2 della l. 91 del 1981. La maggioranza delle Federazioni ritiene, ad oggi, finanziariamente insostenibile il riconoscimento di settori professionistici ed è questa la vera ragione dello stato di cose descritto: senza dilettantismo a basso costo interi settori non potrebbero risultare competitivi .
Le norme organizzative interne della FIGC (NOIF) offrono una articolata distinzione tra i tesserati (art. 27), al fine di attribuire differenti regimi e con importanti riflessi applicativi sull’art. 2 della l. 91 del 1981. L’art. 28 qualifica in particolare i professionisti come i «calciatori che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità, tesserati per società associate nella Lega Nazionale Professionisti o nella Lega Professionisti Serie C». A costoro s’applica la l. 91 e infatti «il rapporto di prestazione da “professionista” … si costituisce mediante assunzione diretta e con la stipulazione» di un contratto di lavoro subordinato tra il calciatore e la società (art. 28.2 NOIF e cfr. oltre).
I dilettanti, invece, sono calciatori tesserati che svolgono attività sportiva per società associate nella Lega Nazionale Dilettanti , che giocano il “Calcio a Cinque”, che svolgono attività ricreativa (art. 30 delle NOIF), nonché le calciatrici partecipanti ai campionati di Calcio femminile.
L’art. 29.2 delle NOIF sancisce, in linea di principio, che «per tutti i “non professionisti” è esclusa ogni forma di lavoro, sia autonomo che subordinato». La disposizione si spiega sia in funzione delle specificità dell’ordinamento sportivo, nel senso che nel (vero) dilettantismo l’impegno dell’atleta non deve tradursi in un obbligo di lavorare, sia per la ratio oeconomica sopra esposta. Limitare il professionismo risponde allora alla precisa volontà “privatistica” delle federazioni di arginare la vis exspansiva del diritto del lavoro . Ma, è bene sottolineare ancora, la norma federale non può impedire che il rapporto sportivo del dilettante sia riqualificabile in rapporto di lavoro subordinato, ché altrimenti sarebbe assai dubbia la compatibilità della legge sia rispetto agli artt. 3 e 35 Cost., sia rispetto all’art. 24 Cost. .

3.1. La disciplina della relazione sportiva tra società e “dilettante” e in particolare gli accordi economici.
Il rapporto giuridico tra atleta dilettante e sodalizio sportivo presuppone il tesseramento federale – come per il professionista – ma dipende dal “vincolo di appartenenza” o “vincolo sportivo”, istituto progressivamente abolito nell’area del professionismo come programmato dall’art. 16 della l. 91 del 1981 . Invece, nell’area del dilettantismo, la cancellazione del vincolo ha riguardato solamente la forma a tempo indeterminato , mentre costituisce ancora un caposaldo il vincolo a termine.
La disciplina è rimessa alle federazioni che si adeguano alla delibera del 24 marzo 2004 con cui il CONI ha richiesto di prevedere espressamente la temporaneità del vincolo, la sua durata e la disciplina delle modalità di svincolo . Il vincolo consiste in buona sostanza nel diritto della società sportiva di utilizzare in via esclusiva le prestazioni dell’atleta, nel potere di cederlo senza il suo consenso e nel divieto di recesso unilaterale. Perciò detto vincolo determina forti condizionamenti della libertà contrattuale dei dilettanti e, nell’ambito dei trasferimenti, “reifica” la persona dello sportivo che diviene oggetto dello scambio tra società . Situazione questa che si presta ad abusi delle società, cui gli atleti in alcune realtà risultano particolarmente esposti .
Il vincolo esprime la compartecipazione agli obiettivi agonistici della squadra e quindi è fonte di un rapporto associativo lato sensu . A meri fini esplicativi, sembra possibile una cauta assimilazione alla figura del familiare ex art. 230 bis effettua una prestazione di fare atipica, senza che si costituisca alcun rapporto di lavoro o associativo in senso stretto (cfr. art. 230 bis comma 1 c.c.). Ciò in quanto quella prestazione risposa su un piano giuridico separato che è il contesto produttivo dell’impresa familiare. Allo stesso modo la relazione giuridica del dilettante non emerge sul piano dell’ordinamento generale poiché resta attratta nell’area dell’ordinamento sportivo (se e in quanto non possa dirsi “lavoro” dal momento in cui la logica corrispettiva sopravanza quella “partecipativa”).
È bene chiarire che i veri dilettanti, in assenza di un rapporto di lavoro, non ricevono formalmente né una retribuzione ex art. 2099 c.c. né un compenso ex art. 2225 c.c. Infatti, l’affiliazione sportiva esclude la controprestazione onerosa , nonché la sussistenza di un rapporto lavorativo.
Nella prassi, tuttavia, molti dilettanti sono destinatari di forme di compensazione, offerte più spesso sotto le (mentite?) spoglie di un “rimborso spese” o di un contributo di sostegno o di generiche indennità di trasferta fiscalmente agevolate . In sport come la pallavolo delle massime serie il dilettantismo è l’unica forma riconosciuta, ma gli atleti della massima serie sono tutti, di fatto, stipendiati . È opportuno chiarire che, al di là della qualificazione formale delle dazioni economiche delle società, resta possibile un’indagine sulla effettiva natura di tali emolumenti, tale da far emergere quantomeno il requisito dell’onerosità.
Per quanto riguarda il calcio, al centro di questa analisi, si è assistito in tempi recenti a una piccola rivoluzione che non ha scardinato i pilastri del sistema, ma ha significativamente migliorato de facto la condizione giuridica dei dilettanti . Le regole federali riconoscono una serie di prerogative modellate sui diritti dei professionisti e la LND garantisce almeno una copertura assicurativa in caso di morte o infortuni (sottoscritta su delega dagli atleti rilasciata con il tesseramento).
Per quanto concerne i compensi, fermo il divieto di accordi “in contrasto” con la legge o con l’ordinamento sportivo e la corresponsione di somme superiori a quelle effettivamente pattuite (art. 94), è fatta salva la possibilità per le società sportive di erogare “somme”, con diversi titoli, a coloro che partecipano ai campionati nazionali della Lega Nazionale Dilettanti (94 ter) e alla Divisione Calcio Femminile (art. 94 quinquies e art. 94 sexies).
La regolazione degli accordi economici – simile per uomini e donne – è ispirata da un’esigenza di controllo finanziario. Si prevedono infatti, accanto all’obbligo di deposito degli accordi, tetti massimi, sia per le indennità e i premi, sia per le somme lorde annuali dell’art. 94-ter, comma 6; anche se il comma 7 dell’art. 94-ter – e specularmente i commi 2 e 8 dell’art. 94 quinquies – consente non senza ipocrisia di riconoscere, a fronte di accordi pluriennali di massimo tre stagioni, «una ulteriore indennità, per la durata pluriennale dell’accordo, a favore del calciatore/calciatrice», senza fissare alcun tetto.
È evidente perciò che gli accordi economici ammettono l’erogazione di somme a titolo di compensi per le prestazioni sportive da rendere, ben distinte da ulteriori somme a copertura delle spese (trasferta o altri rimborsi) o a carattere premiale. E che la effettiva fissazione di tali compensi è rimessa alle parti, libere di quantificare il valore della prestazione sportiva . Quindi, almeno seguendo gli insegnamenti della Corte di Giustizia, è difficile negare che il dilettante percettore di simili somme “giochi per lavorare” e “lavori per vivere” e quindi sia, in una parola, un lavoratore.
Ciononostante, ad oggi, l’automatica qualificazione del dilettantismo impedisce «l’emersione e l’adeguata tutela, nell’ordinamento generale, di diritti patrimoniali e non» .
Il legislatore, fino a poco tempo fa, non sembrava volersi fare carico della questione. La legge delega n. 86 del 2019 accende inaspettatamente un faro su un tema che merita soluzioni di respiro sistematico (cfr. par. finale).

4. Autonomia e subordinazione nello sport: la qualificazione della prestazione dell’atleta prima della l. 91
Una volta circoscritta l’area del professionismo e quindi il campo di applicazione della l. 81 del 1981, si pone l’esigenza di distinguere ulteriormente tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Anche in ambito sportivo la prestazione di lavoro potrebbe astrattamente ricondursi ai due estremi dell’arco delle tipologie di contratti di lavoro, a seconda delle concrete modalità di svolgimento del rapporto. E ciò vale in particolar modo per l’atleta, capace di grande autodeterminazione durante la prestazione, ma soggetto a regole stringenti di disciplina sportiva in senso ampio (presenza alle sedute di allenamento e ai cosiddetti “ritiri”, obbligo di seguire le indicazioni tecniche dell’allenatore) che ne condizionano fortemente la libertà organizzativa.
La qualificazione del rapporto di lavoro sportivo è questione risalente. Si tratta di una vicenda interpretativa i cui momenti salienti meriterebbero di essere ripercorsi con particolare attenzione . E tuttavia lo spazio a disposizione non concede una simile licenza.
Basti dire che, sotto l’egida del vincolo sportivo , la dottrina aveva tentato di enucleare la natura del rapporto giuridico tra atleti e società o associazioni sportive , con risultati differenti in quanto inevitabilmente influenzati dalle differenti concezioni dei rapporti inter-ordinamentali. Una parte riteneva che il lavoro sportivo avesse “natura associativa” nel senso che l’atleta si affiliava al sodalizio sportivo fonte dell’obbligo prestazionale . Secondo altre ricostruzioni, il lavoro sportivo sarebbe stato oggetto di un contratto innominato . Altre tesi ancora sostenevano la riconducibilità a un “contratto di ingaggio” avente ad oggetto lavoro autonomo , poiché «l’attività sportiva è un’espressione individualistica, frutto d’iniziativa personale» .
La tesi maggioritaria ipotizzava che si potesse trattare di lavoro subordinato , dacché la collaborazione col sodalizio sportivo presuppone interessi almeno in parte contrapposti ma si risolve nella soggezione dell’atleta sia a direttive di ordine tecnico sia al potere disciplinare, con intensità e rigidità persino maggiori rispetto ad altre forme di lavoro subordinato . V’erano però profondi dubbi e incertezze sulla disciplina applicabile .
Il calciatore professionista ha costituito il prototipo di atleta intorno al quale si discorreva del corretto inquadramento e delle eventuali prospettive di riforma. E, grazie all’attivismo dell’AIC (Associazione italiana calciatori), i calciatori furono i primi atleti a ottenere diritti prima dell’entrata in vigore della l. 91 del 1981 (riposo settimanale, svincolo per morosità, abolizione del tetto stipendiale e diritto di rifiutare il trasferimento).

5. La norma sulla subordinazione dell’atleta professionista nella l. 91.
Il dibattito descritto è all’origine dell’approvazione di una norma, l’art. 3 della l. 91 del 1981, che, con esclusivo riferimento all’atleta professionista , ha introdotto una nozione di lavoro subordinato “alternativa” a quella dell’art. 2094 c.c.
L’art. 3 comma 1 stabilisce che «la prestazione a titolo oneroso dell'atleta costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato, regolato dalle norme contenute nella presente legge» . Il secondo comma sancisce poi che la prestazione sportiva dell’atleta è oggetto di un contratto di lavoro autonomo «quando ricorra almeno uno dei seguenti requisiti : a) l’attività sia svolta nell'ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo; b) l'atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione od allenamento; c) la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni anno».
La norma si caratterizza per un costrutto sintattico peculiare (e diverso dall’art. 1 comma 2 della l. n. 877/1973, mod. dalla l. 858 del 1980 sul lavoro a domicilio, che pure propone una nozione diversa di subordinazione. Perciò merita un più attento esame). L’ampiezza della subordinazione, al contrario di quanto accade nel codice civile laddove l’assenza del vincolo di subordinazione caratterizza il contratto d’opera ex art. 2222 c.c., è desunta a contrario dallo spazio riservato espressamente al lavoro autonomo che ricorre in tre casi espressamente previsti.
Al di là della qualificazione della norma come “presunzione” o come fattispecie alternativa a quella dell’art. 2094 c.c. , sembra che la norma intenda declinare la nozione di subordinazione nel contesto speciale della prestazione atletica e così sgravare l’interprete di una complessa opera di adattamento ermeneutico alla nozione dell’art. 2094 c.c.
Solamente l’esame del secondo comma può consentire un chiarimento a tal proposito. Il comma 2 dell’art. 3 ricorre infatti a tre indici fattuali dell’autonomia che configurano altrettante ipotesi tassative di stampo casistico, ciascuno dei quali è considerato di per sé idoneo a escludere la subordinazione dell’atleta e la cui contemporanea assenza impedisce la qualificazione come lavoro autonomo.
I tre indici attengono a specifici profili oggettivi del rapporto di lavoro dell’atleta, ossia l’utilità della prestazione in base al suo contesto (lett. a), i vincoli di presenza al di là della fase della performance (lett. b), la durata in senso materiale della prestazione oggetto del contratto (lett. c). Ciascun indice esige un separato esame.
Il primo dei tre indici attiene a caratteristiche della prestazione che evocano la figura del contratto d’opera , in cui la prestazione resa nell’unica manifestazione sportiva o nelle manifestazioni sportive collegate entro un breve periodo di tempo è il servizio (opus) eventualmente ripetuto. Difetta in questa ipotesi l’interesse durevole del soggetto a favore del quale la prestazione di lavoro sportivo è resa.
Il secondo indice (lett. b) ricalca una circostanza di fatto utile al riscontro della soggezione personale dell’atleta (cfr. art. 4 comma 4, l. 91 del 1981). Si tratta però di una circostanza ambigua atteso che analoghi obblighi derivano anche dal vincolo sportivo cui è astretto il dilettante. È bene chiarire che l’uso dell’avverbio «contrattualmente» sembra richiamare il contenuto di una “clausola negoziale” , ma a ben vedere un obbligo contrattuale può desumersi anche dal comportamento successivo delle parti (art. 1362 comma 2 c.c.) e, quindi, l’avverbio non impedisce una indagine sul concretarsi del rapporto.
Il terzo indice riguarda ipotesi in cui la prestazione atletica è continuativa, ossia soddisfa l’interesse durevole del sodalizio sportivo, ma per una durata ben delimitata (8 ore a settimana, 5 giorni al mese o 30 giorni all’anno). Al di là di come si debbano calcolare detti periodi , è utile sottolineare che l’indice del tempo della prestazione inteso in senso materiale ha rilievo solo quantitativo e, quindi, di per sé non sarebbe affatto significativo della natura del rapporto di lavoro .
La tecnica avallata dal legislatore, che dà la precedenza a circostanze fattuali, dati formali o elementi quantitativi meramente indiziari, appare invertita rispetto a quella tradizionale. Ebbene, vi sono rapporti che, al di fuori del professionismo, potrebbero considerarsi di lavoro subordinato pur in presenza dei «requisiti» (o meglio indici) del comma 2 e, viceversa, rapporti che potrebbero qualificarsi come di lavoro autonomo, pur in assenza degli anzidetti indici.
Ne segue che la norma in esame scardina dall’interno il binomio tradizionale, creando una subordinazione “a misura di atleta” e quindi alternativa al modello codicistico che pure l’art. 3 comma 1 implicitamente richiama . E allora non può porsi alcuna questione di indisponibilità del tipo, anche perché la norma non ha tanto l’effetto di considerare autonomi lavoratori effettivamente subordinati ex art. 2094 c.c., ma di far confluire nel lavoro subordinato rapporti di lavoro genuinamente autonomo.
È bene sottolineare come, in concreto, la disposizione abbia un peso applicativo molto limitato, per via delle interferenze con l’art. 2 e con l’area del professionismo. Infatti, le federazioni non solo stabiliscono quando l’atleta è o non è professionista, ma non lasciano neppure la scelta alle società affiliate se assumere con contratti di lavoro autonomo o subordinato. La FIGC, ad esempio, ammette solo contratti di lavoro subordinato tramite il rinvio al contratto-tipo conforme all’art. 4, per i calciatori professionisti delle serie A, B e Lega-Pro. Mentre – anche per via del normale concretarsi della relazione giuridica tra società e giocatori negli sport di squadra – non esiste il calciatore professionista lavoratore autonomo .

6. Il contratto di lavoro del calciatore tra legge, contratto collettivo e norme statutarie e regolamentari dell’ordinamento sportivo

Prima di entrare nel dettaglio della disciplina prevista dalla l. 91 del 1981, è utile chiarire che il contratto di lavoro subordinato sportivo professionistico ha carattere “speciale” nel senso che il legislatore modula per tutte le figure dell’art. 2 della l. 91 la disciplina applicabile (art. 4 ss., l. 91 del 1981) realizzando il necessario adattamento alle peculiari caratteristiche del contesto in cui la prestazione si esegue .
Le deroghe, ai sensi dei commi 8-10 dell’art. 4, riguardano gli articoli 33 e 34 St. lav. sul collocamento, abrogati poi dal d.lgs. 297 del 2002, in quanto incompatibili con l’obbligo di assunzione diretta (v. oltre); l’art. 4 St. lav., in materia di controlli a distanza, poiché crea una limitazione insensata per lavoratori esposti per mestiere alle telecamere e al pubblico; l’art. 5 sugli accertamenti sanitari, in quanto la norma statutaria non contempla l’interesse meritevole di tutela della società a conoscere continuativamente lo stato di salute del lavoratore ai fini agonistici; l’art. 2103 c.c. (art. 13, St. lav.), poiché almeno con riferimento all’atleta, la disposizione sullo ius variandi pone limiti che non collimano con le caratteristiche della prestazione sportiva, né con riferimento al luogo di lavoro né con riferimento all’oggetto del contratto di lavoro; la disciplina limitativa del contratto a termine (la norma in esame cita la l. 230 del 1962, ma il rinvio è da intendersi oggi anche agli artt. 19 ss. del d.lgs. 81 del 2015 che ha sostituito a sua volta il d.lgs. 368 del 2001); la legge 604 del 1966 sui licenziamenti individuali, con l’eccezione dell’art. 4 sulla nullità del licenziamento discriminatorio; l’art. 18 St. lav. e quindi anche il d.lgs. 23 del 2015, il cui campo di applicazione fa peraltro riferimento alle categorie dell’art. 2095 c.c. – quadri, impiegati e operai – che non esistono nell’ambito sportivo (al recesso discriminatorio ex art. 4 l. 604 del 1966 e 15 St. lav. può conseguire quindi la sola tutela reale di diritto comune); l’art. 7 St. lav. quando la sanzione disciplinare è irrogata dalle federazioni sportive nazionali (indicazione pleonastica atteso che la norma in questione, come del resto l’art. 2106 c.c., regola l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro che è sempre la società sportiva e non la federazione; ovviamente è necessario seguirne i dettami quando è la società a irrogare la sanzione disciplinare).
È fatta salva l’applicazione delle altre norme sulla subordinazione non oggetto di deroga e, quindi, le norme del codice che attribuiscono poteri o impongono obblighi alle parti, le norme a tutela dell’integrità psico-fisica del calciatore , etc.
È bene sottolineare inoltre che nella regolazione del lavoro sportivo professionistico dei calciatori rivestono un ruolo centrale sia le disposizioni nazionali e internazionali dell’ordinamento sportivo (CIO, FIFA, UEFA, CONI, FIGC, Lega, etc. ) sia il contratto collettivo espressamente richiamato dall’art. 4 comma 1 della l. 91 del 1981 e siglato dalla Federazione o dalle Leghe con le organizzazioni rappresentative degli sportivi . Al contratto collettivo è rimessa, solo per nominare alcuni istituti, la regolazione del procedimento disciplinare (cfr. anche art. 11 delle NOIF), della retribuzione (art. 4 ss. ), delle ferie (art. 18.2), dei riposi settimanali – in genere goduti nei primi due giorni della settimana (art. 18.1) – e della malattia e dell’infortunio a integrazione dell’art. 2110 c.c. (art. 15 e 16).

7. La disciplina speciale (forma del contratto, contratto-tipo, deposito, clausole necessarie e altre tutele)
Gli art. 4, 5, 7, 8 e 9 della l. 91 del 1981 formano quello che potremmo definire lo “statuto differenziale” del lavoratore sportivo.
Un numeroso gruppo di norme è dedicato al lavoratore sportivo subordinato, mentre il lavoratore autonomo identificato dal secondo comma dell’art. 3 è destinatario di poche norme e nessuna attinente al rapporto di lavoro . Merita dunque un esame più dettagliato la disciplina del lavoro subordinato sportivo.
L’art. 4 dedica i primi due commi alla costituzione del rapporto, alla forma del contratto e alle clausole-tipo e detta, al comma 2, un obbligo di deposito .
Il primo comma sancisce innanzitutto che «il rapporto di prestazione sportiva a titolo oneroso si costituisce mediante assunzione diretta», con conseguente esclusione – significativa all’epoca dell’entrata in vigore della l. 91 – delle norme sul collocamento , salvo quanto previsto dall’art. 9 del regolamento degli Agenti dei calciatori del 2010. È ammessa invece l’intermediazione .
In merito alla capacità di lavoro vale la disciplina generale, integrata a volte dalle regole dell’ordinamento sportivo .
La legge impone, a differenza che in altri contratti di lavoro subordinato, la forma scritta a pena di nullità ex art. 1325 n. 4 c.c. e art. 1418, comma 2, c.c., obbligo questo contemplato sia dalle NOIF sia dall’art. 3 del contratto collettivo (nel calcio è siglato dall’AIC che è l’unica associazione rappresentativa del settore), che fissa regole di dettaglio per il deposito, sia infine dall’accordo collettivo europeo per i calciatori professionisti.
Il primo comma dell’art. 4 richiede altresì la rispondenza del contratto sottoscritto al modello (contratto-tipo) che ogni triennio è approvato dalla Federazione e dai rappresentanti di categoria (Lega di riferimento e AIC nel calcio, per il contratto-tipo dei calciatori). Ancora una volta si affida alle Federazioni un rilevante potere di intervento che si esplica attraverso la predisposizione, concertata con le rappresentanze degli sportivi, di un contratto-tipo vincolante per tutte le società affiliate. La legge attribuisce al contratto-tipo lo stesso valore di un contratto collettivo: l’art. 4 comma 3 sancisce infatti, con norma che ricorda l’art. 2077 c.c., che «le eventuali clausole contenenti deroghe peggiorative sono sostituite di diritto da quelle del contratto tipo». L’obiettivo è, quindi, di tutela della parte debole.
Non si può non notare come, per il tramite della legge e delle regole federali che vi rinviano, il contratto collettivo siglato da Lega e AIC si imponga erga omnes, ciò che potrebbe alimentare dubbi di costituzionalità ex art. 39 Cost. E tuttavia, come è stato notato, la questione non ha alcuna rilevanza pratica. L’AIC è l’unica associazione rappresentativa e il pluralismo sindacale «è rimasto di fatto sconosciuto» .
Il contratto-tipo realizza però anche l’obiettivo di blindare l’assetto di interessi fatto proprio dalla legge senza consentire “equilibri anomali” – si pensi a un’atleta più libero dei compagni di squadra nella frequenza agli allenamenti – e di soddisfare quindi esigenze di uniformità regolativa funzionali a dare prevalenza agli scopi agonistici.
Tali obiettivi sono perseguiti anche attraverso l’imposizione di clausole-tipo di fonte legale. La legge impone l’inserimento espresso nel contratto dell’obbligo dello sportivo di rispettare le istruzioni tecniche e le prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici (art. 4 comma 4) e il divieto – che prefigura una deroga all’art. 2125 c.c. coerente con le esigenze del mercato del lavoro sportivo – di introdurre clausole di non concorrenza o, comunque, limitative della libertà professionale dello sportivo per il periodo successivo alla risoluzione del contratto stesso (art. 4, comma 6). L’art. 2.2 del contratto collettivo del calcio ammette però «i patti di opzione a favore sia della Società sia del Calciatore, alla duplice condizione che sia previsto un corrispettivo specifico a favore di chi concede l’opzione e che il limite di durata complessiva del contratto … non superi la durata massima prevista dalla legge» e vieta invece i patti di prelazione.
Il comma 5 dell’art. 4 facoltizza poi le parti a concordare una clausola compromissoria (cfr. art. 806, comma 2, e 808 c.p.c.) indicando già gli arbitri ovvero il loro numero e il modo di nominarli.
I vincoli esaminati si spiegano non solo alla luce del principio di certezza e di favor per il lavoratore, ma soprattutto in quanto funzionali a consentire il controllo sulla conformità dell’accordo all’ordinamento sportivo . La società datrice ha infatti l'obbligo di «depositare il contratto presso la federazione sportiva nazionale per l'approvazione » per consentire alla Federazione una puntuale verifica del rispetto di canoni ispirati a rigore e ortodossia finanziaria indispensabili per assicurare il regolare e trasparente esercizio dell'attività sportiva e lo svolgimento continuativo dei campionati . Il tempestivo deposito non è una formalità mera , ma una indefettibile condicio iuris per l’utilizzo delle prestazioni dell’atleta in manifestazione sportive autorizzate .
Se la mancata approvazione dipenda da causa non imputabile al calciatore, questi può domandare alla società un indennizzo stabilito in via arbitrale (art. 3.6 CCL).
La sanzione della nullità parrebbe riferita letteralmente solo all’ipotesi in cui difetti la forma scritta . Si deve però ritenere, in conseguenza della connessione interna tra i primi due commi dell’art. 4, che la medesima conseguenza giuridica discenda anche dal riscontro della non-conformità del contratto individuale al modello federale .
Trova applicazione in tutti i casi di nullità esaminati l’art. 2126 c.c. , e sembrerebbe plausibile che, in conseguenza della nullità, torni ad applicarsi la disciplina generale del lavoro subordinato .
Le parti sono libere di concordare nel contratto clausole ulteriori non previste e più favorevoli, salvi i divieti di legge – non potrebbe prevedersi la dispensa dagli allenamenti perché contraria alla clausola-tipo imposta dal comma 4 dell’art. 4 – e gli altri limiti inderogabili anche in melius di fonte collettiva (ad. es. tetti stipendiali). L’elevato potere negoziale degli atleti professionisti, e soprattutto dei calciatori , purché dette pattuizioni, anche se successive all’assunzione, rivestano la medesima forma. L’art 93.4 delle NOIF sancisce però, a tutela del calciatore, che la validità del contratto non può mai essere condizionata all’esito di esami medici o al rilascio di un permesso di lavoro.
Si segnalano poi anche alcune disposizioni in materia di tutela sanitaria e previdenziale che si iscrivono rispettivamente nel firmamento degli articoli 32 e 38 Cost. . Tra queste merita particolare menzione l’art. 7 che prevede una tutela sanitaria avanzata per l’atleta professionista . Al centro del sistema di protezione v’è l’istituzione di una scheda sanitaria in continuo aggiornamento. L'istituzione e l'aggiornamento della scheda sanitaria costituiscono condizione per l'autorizzazione da parte delle singole federazioni allo svolgimento dell’attività degli sportivi professionisti .

8. Segue. Vicende del contratto di lavoro sportivo professionistico del calciatore
L’articolo 5, comma terzo, della l. 91 regola un istituto centrale nelle dinamiche economico-giuridiche dello sport, ossia la cessione del contratto.
Il contratto può essere ceduto prima dello spirare del termine «purché vi consenta l'altra parte e siano osservate le modalità fissate dalle federazioni sportive nazionali». Rileva quindi il consenso dell’atleta, a differenza di quanto accade sotto l’egida del vincolo sportivo (cfr. sul “trasferimento” dei dilettanti artt. 100 e 101 delle NOIF).
La cessione del contratto (art. 1406 c.c., norma posta dal legislatore a presidio dell’efficienza delle vicende circolatorie dei negozi) realizza una modificazione soggettiva definitiva (cfr. art. 102 ss. delle NOIF) o temporanea (cfr. art. 103 delle NOIF). Non deve pertanto essere confusa con il distacco ex art. 30, d.lgs. 276 del 2003, che, oltre ad essere necessariamente temporaneo, non comporta alcuna modificazione soggettiva.
In occasione della cessione, le parti possono modificare la disciplina negoziale stabilendo ad esempio un nuovo termine di durata .
Non s’applicano all’accordo di cessione le norme su forme e obblighi di deposito (art. 4 e dall’art. 12 della l. 91 del 1981). L’art. 95 delle NOIF impone – peraltro anche per il trasferimento dei dilettanti – la forma scritta (che potrebbe considerarsi una forma convenzionale ex art. 1352 c.c.) e l’utilizzo di moduli federali; e fissa altresì il numero massimo di società per cui ci si può tesserare e il numero massimo di società per cui si può giocare in una stagione . Ciò, al fine di assicurare piena trasparenza . Il comma 11 è perentorio nello stabilire che «sono nulle ad ogni effetto le clausole comunque in contrasto con le norme federali relative ai trasferimenti dei calciatori ed alle cessioni di contratto». E la giurisprudenza conferma che simili inosservanze «non possono non riflettersi sulla validità di un contratto concluso tra soggetti assoggettati alle regole del detto ordinamento» che appare inidoneo a realizzare un interesse meritevole di tutela ex art. 1322 comma 2 c.c. .
La disciplina speciale della durata del contratto di lavoro sportivo professionistico è contenuta all’interno di due semplici regole (art. 5, commi 1 e 2, della l. 91 del 1981) ed è il frutto della progressiva abolizione del vincolo sportivo nell’area del professionismo (art. 16 l. 91 del 1981) . Ai sensi del comma 1, il contratto di lavoro sportivo «può contenere l'apposizione di un termine risolutivo, non superiore a cinque anni dalla data di inizio del rapporto». Il comma 2 ammette poi «la successione di contratto a termine fra gli stessi soggetti». Questa scarna disciplina si integra con altre norme della l. 91, con le regole federali e con la disciplina ordinaria applicabile se non derogata . L’art. 28.2. delle NOIF vieta contratti di durata superiore alle cinque stagioni sportive, se il calciatore è maggiorenne, e alle tre stagioni, se minorenne. Ciò sempre nel rispetto delle forme e delle modalità previste dalla legge, dalle norme federali e dagli accordi collettivi stipulati dalle associazioni di categoria (cfr. supra).
È lecita in astratto la stipulazione di contratti di lavoro sportivo a tempo indeterminato dai quali è possibile recedere con preavviso ai sensi dell’art. 2118 c.c. Non s’applicano infatti le norme limitative della l. 604 del 1966, con la sola eccezione dell’art. 4. Il contratto a tempo indeterminato è però l’eccezione nello sport per via dell’interesse dell’atleta alla temporaneità del rapporto all’interno di un assetto d’interessi che appare, almeno da questo punto di vista, ribaltato rispetto alla maggioranza degli altri rapporti di lavoro (cfr. art. 1 comma 1, d.lgs. 81 del 2015).
Il recesso dal contratto a termine è ammesso solo per giusta causa ex art. 2119 c.c. . La nozione di giusta causa calibrata sul particolare contesto sportivo si desume da una pluralità di “fonti”. Si ammette infatti quale giusta causa di recesso del calciatore la morosità eccessiva della società (cfr. art. 13 CCL AIC) o l’esclusione ingiustificata dalla rosa (art. 12.2 e 12.3, CCL AIC) o l’utilizzo del giocatore “affermato” in meno del 10% delle gare ufficiali (art. 15 regolamento FIFA cit.). In ogni caso il recesso non ha effetto prima del termine della stagione per via della preminenza delle esigenze agonistiche. L’assenza di giusta causa comporta inoltre l’adozione di sanzioni sportive.
In merito al regolamento FIFA (art. 13 ss.), può essere utile chiarire che la disciplina della giusta causa di recesso nasceva nel contesto del contrasto tra l’UE e la FIFA sui trasferimenti internazionali in corso di rapporto, situazioni in cui si percepisce una obiettiva difficoltà di bilanciare tutti gli interessi in gioco (la libera circolazione, la libertà di concorrenza, la conservazione del patrimonio umano delle società, etc.). A tal fine il regolamento, in ultimo aggiornato nel 2018, consente, dopo un “periodo riservato” di tre anni o di due anni, a seconda che il calciatore abbia ventotto o meno anni ovvero più di ventotto anni, sia possibile recedere ad nutum senza subire sanzioni ma limitandosi a versare un’indennità alla società cedente. L’indennità è però di incerta entità poiché rimessa alla discrezionalità dell’organo giudicante . Se il trasferimento è tra società della medesima federazione, il regolamento in questione non trova applicazione.
La risoluzione consensuale è, come è ovvio, sempre ammessa ma deve essere formalizzata in via telematica, ai sensi del d.lgs. 151/2015, e il relativo atto deve essere altresì depositato presso la Lega di appartenenza della società entro 5 giorni lavorativi dalla data di sottoscrizione.
Infine, si segnala una disposizione collocata all’interno dell’appendice delle NOIF che riconosce al professionista il cui rapporto di lavoro sia cessato una indennità mensile di «mancata occupazione» dovuta dalla società e pari a un dodicesimo del minimo stipendiale annuale fissato a livello federale, a copertura di un massimo di due stagioni.

9. Postille: a) Il caso del calcio femminile
Negli sport in cui la federazione di riferimento non riconosce il professionismo, il settore femminile e quello maschile ricevono identica qualificazione. Si tratta, in entrambi i casi, di dilettanti. Invece nel calcio (e nel basket limitatamente alla serie A) le massime serie sono professionistiche solo se maschili, mentre la Divisione Calcio Femminile (art. 25 delle NOIF) è per definizione dilettantistica. Ne consegue che la differenza di trattamento tra professionisti e dilettanti si declina anche nel genere .
I recenti successi della nazionale di calcio femminile hanno fatto da cassa di risonanza delle giuste istanze di cui si fanno portatrici alcune atlete divenute un simbolo di una condizione giuridica da modificare . Il mancato riconoscimento del professionismo comporta infatti la privazione di basilari tutele – v. supra – alcune delle quali fondamentali in specie per la donna. Si pensi all’assistenza sanitaria o alle garanzie previste in caso di gravidanza e puerperio. Le sportive dilettanti subiscono forse più dei colleghi uomini la sotto-protezione sociale che caratterizza il loro status . È vero poi che le calciatrici possono ottenere la qualificazione giuslavoristica del rapporto in giudizio, ma una simile azione le espone al rischio di essere estromesse di fatto dal sistema . Infatti, nei settori dilettantistici, “essere un lavoratore sportivo” contrasta con la politica federale (v. supra).
V’è da chiedersi se l’attuale configurazione del sistema possa risolversi in una discriminazione per ragioni di sesso. A mio sommesso avviso, la configurazione di una discriminazione per ragioni di sesso presuppone che la caratteristica sessuale sia il fondamento del trattamento dispari. Ebbene, ponendosi dall’ottica della FIGC e del CONI, nel caso delle calciatrici della serie A ricorrono le condizioni formali (mancata qualificazione federale) ed economiche (insostenibilità finanziaria del professionismo per un movimento sportivo in crescita, ma ancora a ridotto impatto) che fanno rassomigliare la loro condizione non a quella dei colleghi maschi della seria A, B o C, bensì a quella dei dilettanti maschi delle serie inferiori (settori il cui giro d’affari è peraltro ben più consistente di quello del calcio femminile della massima serie). Se il fondamento della disparità di trattamento non è il sesso, se ne deve dedurre che la discriminazione non è, nel caso che ci occupa, richiamata a proposito.
Al di là della necessità di scardinare il sistema binario che divide artificiosamente in due il mondo dello sport tra professionisti e dilettanti (cfr. infra), non si può ignorare l’esigenza di promuovere una cultura della parità nella pratica sportiva. In questa direzione va, ad esempio, l’iniziativa della FIGC di spingere le società militanti nella serie C maschile a istituire squadre femminili giovanili o di tesserare un numero minimo di atlete, quale condizione per l’iscrizione al campionato . È poi lodevole l’iniziativa dell’istituzione di un fondo di sostegno dedicato anche alle dilettanti in maternità prive di altri supporti . Del resto, solo un concreto sostegno economico e la necessaria promozione consentiranno nel tempo la maturazione e la crescita di un movimento sportivo che sarà in futuro, auspicabilmente, capace di rispondere agli effetti bisogni delle atlete.
Nel frattempo, nulla impedisce di immaginare ponderate forme di intervento, che nel rispetto dei delicati equilibri interni dell’ordinamento sportivo, riconoscano la debolezza dei dilettanti e, in specie, delle dilettanti, e spingano il CONI a promuovere (o anche a imporre) l’adozione di misure protettive.

10. b) Le prospettive del lavoro sportivo de jure condendo
L’inattuale distinzione tra pro e non-pro è oramai incancrenita e diviene talvolta gravemente arbitraria. Nel caso del calcio, si può dire per certo che in serie D o nel campionato di serie A della Divisione calcio femminile “giocano dei lavoratori”, non solo giovanissimi, chiamati a un impegno costante nel tempo ai fini degli allenamenti e delle partite di campionato e di coppa. Insomma, quei campionati sono popolati da “professionisti”, pagati con somme a cadenza fissa (v. supra), che tuttavia non possono essere chiamati “lavoratori” per ragioni formali e di tenuta economica del sistema. Perciò la distinzione merita un ripensamento più ampio, anche in riferimento ai settori femminili, soprattutto in quegli sport di squadra in cui il “professionismo debole” si riscontra nei fatti con maggiore evidenza.
Da tempo si levano voci che suggeriscono, sulla scorta del superamento della pregiudiziale olimpica del CIO, la rivisitazione della differenza tra professionista e dilettante per tracciare la linea distintiva tra professionisti e non con maggiore “sincerità” ancorandola prevalentemente a dati di realtà e non ad arbitrarie qualificazioni federali o persino la sua cancellazione . Altre tesi propongono di andare oltre l’inquadramento giuslavoristico del rapporto sportivo, per valorizzare invece i profili ludici e dare vita a una fattispecie terza retta da poche regole sul piano dell’ordinamento civile, opportunamente integrate dalle discipline delle singole Federazioni e Leghe .
Secondo altre ricostruzioni sarebbe opportuno slegare le tutele dal riscontro di un rapporto di lavoro e applicarle all’atleta in quanto tale se prevalentemente impegnato in attività sportiva. Questa strada sarebbe perseguibile anche “a bocce ferme”. Si rifletta sul fatto che i falsi dilettanti, pur percependo di fatto compensi, sono esclusi persino dalla previdenza sociale . Autorevole dottrina rileva un contrasto con l’art. 38 Cost. , negato da un’altra tesi in quanto il dilettante sarebbe un “non-lavoratore” . E tuttavia, soprattutto dall’ottica della previdenza sociale, la persona che “lavora” può essere protetta a prescindere dalla qualificazione del proprio lavoro come autonomo o subordinato. Si pensi all’amministratore di società , al socio d’opera nella s.r.l. o nella s.r.l.s. o all’artigiano e al commerciante, tutti destinatari di obblighi contributivi a fini pensionistici e non solo. Perciò, la prestazione atletica del dilettante resa a favore di altri ben potrebbe rientrare nell’ampia nozione del “lavoro da tutelare” ex art. 35 e 38 Cost. Sta di fatto che, a differenza di quanto accaduto con i familiari dell’art. 230 bis c.c. o con le figure sopra citate, il legislatore non si è mai interessato alla prestazione del dilettante, essenzialmente per ragioni di deferenza verso l’ordinamento sportivo, cioè al fine di non alterare equilibri economico-organizzativi fragilissimi. Si crea così uno «spazio vuoto di diritto» , all’interno di una bolla – la cui tensione superficiale dipende dai requisiti meramente formali dell’art. 2 e dell’art. 10 comma 1 della l. 91 del 1981 – che ottunde le effettive esigenze di protezione di chi si trova al suo interno.
Alcuni disegni di legge recenti hanno tentato, anche con specifico riferimento alla “questione femminile”, di rompere il muro di silenzi, senza riuscire tuttavia a intaccare una legge, quella del 1981, tanto aspramente criticata, quanto incredibilmente resistente nel tempo.
In più di una tra queste direzioni sembra andare l’art. 5 della legge delega n. 86 del 2019, che al comma 1, lett. c), ha ambiziosamente demandato al Governo la «individuazione, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e fermo restando quanto previsto dal comma 4, nell'ambito della specificità di cui alla lettera b) del presente comma, della figura del lavoratore sportivo, ivi compresa la figura del direttore di gara, senza alcuna distinzione di genere, indipendentemente dalla natura dilettantistica o professionistica dell'attività sportiva svolta, e definizione della relativa disciplina in materia assicurativa, previdenziale e fiscale e delle regole di gestione del relativo fondo di previdenza».
L’obiettivo del legislatore è ambizioso. È necessario però avvertire che una riforma che s’affidi ancora una volta solo a un sistema classificatorio astratto delle professioni sportive, fondato su distinzioni di carattere meramente nominalistico, senza concepire la varietà e la specificità delle esigenze di ciascuno sport e soprattutto senza affrontare il nocciolo problematico della sostenibilità economica del sistema, rischia di fallire sul nascere. Sarebbe infatti destinata a scontrarsi con il principio di autonomia dell’ordinamento sportivo.

 

 

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