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È veramente difficile calcolare, con numeri affidabili, la quantità di donne che lavorano nella Chiesa e per la Chiesa, operazione comunque che si rivela complessa anche per gli uomini. Il lavoro nel mondo delle istituzioni cattoliche è infatti sempre molto vicino alla missione, e di conseguenza scivola facilmente nella gratuità per entrambi i sessi. Del resto, anche quando sono previsti dei salari, sono in genere molto più bassi di quelli che normalmente vengono pagati nella società laica, perché si dà per scontato che chi lavora appartiene a un ordine religioso ed è dunque fornito di alloggio e di vitto, e comunque anche il suo salario – e questo vale soprattutto per le donne – deve essere direttamente consegnato alla superiora o al superiore.
Questo sistema regge non solo perché lavorare per la Chiesa deve essere considerato in primo luogo “missione”, cioè non ha prezzo, ma anche perché prevede implicitamente altre forme di compenso, come la protezione del singolo e dell’ordine a cui appartiene da parte dell’istituzione per cui lavora. Protezione vuol dire accesso ad assistenza sanitaria e legale privilegiata, ad esempio, ma anche possibilità di accedere a forme di favoritismo clientelare come trovare un posto di lavoro a un disoccupato o una casa a un affitto favorevole.
Data questa situazione di base, è difficile farsi un’idea precisa dei lavoratori che dipendono dalla Chiesa. Anche se si sa che in Italia, per esempio, l’istituzione ecclesiastica paga ogni mese tre milioni e mezzo di euro in stipendi, una cifra che non è certo di poco conto.
Comunque nel mondo cattolico le donne lavorano, e lavorano molto, probabilmente più degli uomini, e soprattutto svolgono i lavori più bassi.
Ci sono le forme di lavoro volontario: nelle parrocchie chi pulisce la chiesa, la abbellisce con i fiori, la tiene sotto controllo fra una cerimonia e l’altra, oggi è quasi sempre una donna, che normalmente considera questo lavoro come un servizio al Signore, e non tanto al parroco, che pure ne usufruisce direttamente. Ed è un servizio che ovviamente non ha un orario preciso, ma che deve garantire dei risultati accettabili.
Gratuito è anche il contributo delle catechiste, che in genere prima hanno frequentato un corso di preparazione e sono comunque sottoposte al controllo del parroco. Questi lavori si avvicinano alla missione, anzi con la missione si confondono e dunque non solo non vengono pagati, ma possono anzi richiedere un esborso da parte delle donne coinvolte, per l’acquisto di fiori, di libri, di carta. E tuttavia non si può negare che si tratti di lavori, sia pure prestati volontariamente e gratuitamente, i quali prevedono orari precisi, e richiedono prestazioni professionali specialistiche vere e proprie.
Anche queste forme di intervento che stanno a metà fra professione e missione prevedono un trattamento diverso per uomini e per donne: le catechiste – al 98 per cento sono infatti donne – non sono retribuite, mentre se in parrocchia viene a tenere una conferenza un sacerdote (oppure un missionario, o magari un vescovo, se non addirittura un cardinale) gli viene allungata una busta con una somma di denaro sotto forma di “offerta”. In qualche modo, il suo intervento viene così equiparato a una prestazione professionale, legata alla sua preparazione sacerdotale. Anche se ovviamente la sua prestazione non viene contrattata prima, e il compenso figura come offerta spontanea per non pregiudicare l’opportuna confusione fra lavoro e missione.
Confusione che purtroppo impera soprattutto nel lavoro femminile, e soprattutto nell’impegno delle donne religiose nei lavori domestici presso sacerdoti o presso istituzioni maschili come i seminari. In questi casi le suore – che di fatto lavorano senza orario né ferie – ricevono una paga poco più che simbolica, che va direttamente al loro ordine. Il sacerdote che usufruisce dei loro servizi è poi tacitamente obbligato a svolgere un ruolo di protezione e di tramite con le istituzioni ecclesiastiche, risolvendo problemi che possono nascere e prendendo le loro difese, anche se non è scontato che questo avvenga sempre. La confusione fra lavoro e missione è del resto alimentata dal fatto che spesso queste suore fanno parte di congregazioni religiose, fondate da sacerdoti, finalizzate proprio al servizio del clero. E anche se la natura di questo servizio non è in genere specificata, la si interpreta sempre, trattandosi di donne, come lavoro domestico.
Per alcune religiose poi la via del servizio domestico è l’unica che permette loro di continuare gli studi a Roma nelle università pontificie. Naturalmente questo significa che il loro percorso di studi sarà più lungo di quello degli uomini, e comporta soprattutto il fatto che a questa doppia fatica resistono solo le suore più dotate e più determinate. Infatti per le religiose sono previste solamente borse di studio di breve durata, che permettono la frequenza a corsi inferiori, e per questo, se vogliono seguire corsi superiori, e se la loro congregazione non le può sostenere, come molto di frequente accade, non hanno altra soluzione che lavorare come serve. Molte delle docenti migliori che attualmente insegnano nelle università ecclesiastiche romane sono riuscite ad arrivare a questo obiettivo dopo anni e anni di servizio domestico.
La preparazione intellettuale del clero maschile è invece coltivata e sostenuta in varie forme, con borse di studio e la possibilità di risiedere in collegi. Si capisce quindi come questa situazione non faccia che replicare e mantenere la condizione di subalternità delle donne nella Chiesa, condizione che sembra giustificata dal dislivello culturale.
Naturalmente il lavoro delle donne in Vaticano costituisce un esempio particolarmente significativo e interessante di come la Chiesa affronti questo problema. Non ammesse per molto tempo nella sede del pontefice, le donne hanno cominciato a far parte della schiera dei lavoratori vaticani verso la metà del XX secolo, e il loro numero è a poco a poco aumentato. Oggi costituiscono un po’ meno del 20 per cento del totale dei lavoratori, sono cioè circa 750 su un totale approssimativo di 4800 persone (quasi 2900 dipendenti della Santa Sede, ai quali bisogna aggiungere circa 1900 dipendenti del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano).
Negli organismi centrali della Chiesa attualmente soltanto un numero molto ristretto di donne occupano posti apicali: la sottosegretaria della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica Carmen Ros Nortes, le due sottosegretarie del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita Gabriella Gambino e Linda Ghisoni, la direttrice dei musei Barbara Jatta e la presidente dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù (che appartiene alla Santa Sede ma non è propriamente un organismo vaticano) Mariella Enoc. Per il resto sono donne impegnate nei livelli medi – soprattutto nelle istituzioni culturali storicamente legate alla Santa Sede, come i musei, l’archivio e la biblioteca – e in quelli medio-bassi. Queste ultime lavorano come funzionarie in Segreteria di Stato e nei dicasteri, come traduttrici e redattrici nei media vaticani, come telefoniste, come addette ai paramenti liturgici, come cassiere nel supermercato e venditrici nel grande magazzino del Governatorato, come cameriere nelle case di cardinali e vescovi o prelati, come cuoche e addette all’accoglienza a Santa Marta, dove vivono papa Francesco e decine di curiali.
Ma i loro più diversi impieghi hanno tutti un aspetto comune: si tratta di lavori a livelli medi, medio-bassi o soprattutto bassi, perché il soffitto di cristallo in Vaticano è doppio: nei ruoli non solo gli uomini superano sempre le donne, ma gli ecclesiastici superano i laici e soprattutto le laiche, che quindi si fermano ai livelli più bassi di stipendio, che si aggirano intorno ai 1200 euro mensili mentre gli uomini, e molto più spesso gli ecclesiastici, possono arrivare facilmente al doppio. Sono dunque stipendi al di sotto della media italiana per gli stessi lavori, ma bisogna ricordare che una buona parte dei lavoratori, in quanto religiosi o comunque consacrati, vive in strutture comunitarie. Inoltre, gli stipendi vaticani sono esenti da ogni tipo di tassazione e accompagnati da benefici, come per esempio la possibilità di acquistare a prezzi favorevoli alcuni beni di consumo, tra cui i carburanti.
Negli uffici vi sono spesso impiegate di grande competenza e capacità, non di rado anche superiori a quelle del loro capufficio maschio e quasi sempre prete, il cui valore non viene riconosciuto. Anzi, spesso un prete si appropria del loro lavoro per fare carriera, come se si trattasse del fatto più normale del mondo. Le donne non devono forse obbedire e accettare umilmente le condizioni imposte? Nessuna di loro infatti – di solito si tratta di religiose o di laiche consacrate che hanno fatto dell’umiltà e dell’obbedienza una ragione di vita – osa protestare, e nemmeno farsi avanti. Parrebbe loro di venire meno alla loro vocazione al servizio, che non chiede ricompensa terrena. Va però ricordato che pure la vocazione sacerdotale è volta al servizio, anche se sembra che siano veramente pochi i sacerdoti che se lo ricordano. Negli organismi della Santa Sede la carriera è infatti un obiettivo che molti ecclesiastici perseguono con tenacia e talvolta con spregiudicatezza.
Posso raccontare in proposito un episodio che ritengo significativo. Alcuni anni fa, quando dirigevo “donne chiesa mondo”, l’unica testata vaticana dedicata alle donne, mi è stato suggerito da Peter Wells, un ecclesiastico statunitense ora nunzio apostolico ma che allora ricopriva in Segreteria di Stato il ruolo di assessore (grosso modo corrispondente in Italia alla carica di sottosegretario agli Interni), di dedicare un articolo alle cinquanta donne che lavoravano nei diversi uffici della Segreteria di Stato. Avremmo anche avuto a disposizione una foto in cui le impiegate festeggiavano intorno a una grande torta con le candeline appunto la cinquantesima assunzione femminile.
Benché introdotta dall’assessore stesso, che mi aveva affidato come guida una delle sue più strette collaboratrici, il tentativo di intervista fallì miseramente. Anche se le domande che cercavo di rivolgere alle donne incontrate erano semplici e inoffensive – chiedevo per esempio di raccontarmi come erano arrivate a lavorare lì, se erano sposate o consacrate, che tipo di lavoro facevano – e certo non sollecitavo alcun discorso critico, tutte si rifiutarono di rispondermi. Ho provato a capire il motivo di tanta reticenza, e una me lo ha rivelato: qualunque cosa avessero detto, il fatto stesso di parlarmi sarebbe stato interpretato dal loro rispettivo superiore come un atto di ribellione, come un alzare la testa, come un protagonismo indebito. Niente come questa reazione è sintomo dello stato di sudditanza e di timore in cui queste donne lavorano.
Da cinque anni è nata un’associazione, Donne in Vaticano, che raccoglie queste lavoratrici. Di taglio religioso-culturale, l’associazione spesso organizza cene, aperitivi, visite guidate in luoghi di culto di valore storico-artistico che certo in Vaticano non mancano, e fin dal primo momento ha assicurato di non avere alcuno scopo sindacale, a parte la timida richiesta di asili nido per i figli delle lavoratrici, subito dimenticata.
Donne spesso intimidite, umiliate, impedite di sviluppare le proprie attitudini professionali, talvolta sfruttate o addirittura derubate delle loro capacità: questa è di frequente la situazione delle donne in Vaticano, ma anche negli uffici della Conferenza episcopale italiana. Ben diversa è invece la presenza femminile, che è arrivata anche a ruoli apicali soprattutto in compiti amministrativi, negli organismi della Chiesa cattolica in altri paesi europei, dove la diminuzione del numero dei sacerdoti ha portato a valorizzare, e con buoni risultati, risorse femminili.
In ogni caso, poiché le donne che lavorano per la Chiesa sono per lo più consacrate, e quindi votate alla castità, la differenza di trattamento fra donne e uomini nella maggioranza dei casi non ha niente a che fare con la maternità. Questa invece, nel mondo laico, penalizza fortemente, come si sa, il lavoro femminile.
Il numero complessivo delle religiose, nonostante la progressiva diminuzione, continua comunque a restare molto superiore a quello dei sacerdoti, diocesani e appartenenti a ordini religiosi: secondo i dati del 2017, sono 648.910 le suore a fronte di 413.582 preti.
Le religiose per fortuna hanno anche la possibilità di realizzare le loro risorse in ambiti autonomi, al di fuori del raggio di autorità diretta del clero. Anche se oggi gli spazi tradizionali in cui le suore hanno lavorato, le scuole e gli ospedali, in genere sono in crisi e dove comunque sono affiancate da molti laici, la creatività delle religiose ha fatto nascere nuovi progetti assistenziali, organizzati con cura e intelligenza, con ottimi risultati.
Uno dei più interessanti è la rete che combatte la tratta di esseri umani Talitha Kum. Attiva da dieci anni e presente in 92 paesi con 44 reti nazionali nei cinque continenti (9 in Africa, 11 in Asia, 15 in America, 7 in Europa, 2 in Oceania), Talitha Kum contrasta con successo un fenomeno che oggi coinvolge almeno 40 milioni di persone, per il 70 per cento donne e bambini. Le religiose, osservando lo svolgersi della tratta sul territorio, hanno raccolto e messo in comune importanti informazioni su come si presenta questo fenomeno e sui modi per contrastarlo, ottenendo risultati molto positivi.
Talitha Kum è un esempio riuscito di organizzazione assistenziale su scala mondiale, tutta concepita e gestita da donne, finanziata dalle congregazioni che ne fanno parte e dall’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg). Naturalmente il costo di queste attività è contenuto perché le religiose non ricevono salario per il lavoro che svolgono, ma solo vitto e alloggio, in condizioni modeste.
Lo stesso si può dire delle religiose che nel mondo hanno fondato e dirigono missioni, dove svolgono attività mediche e scolastiche, spesso intervengono anche nella vita dei villaggi suggerendo coltivazioni più redditizie, facendo scavare pozzi, insegnando nuovi lavori. Anche qui, con un minimo di finanziamento ottengono grandi risultati, rivelando una mentalità pratica e concreta, e dimostrando una vivacità creativa che quasi sempre manca ai missionari maschi.
Questi però non si possono definire lavori in senso proprio, perché non vengono pagati, e quindi rientrano nella specie della missione, anche se richiedono grandi capacità professionali, intelligenza e preparazione. Così come nella missione rientra pure l’amministrazione delle congregazioni femminili, dalle più piccole, legate solo a iniziative locali, fino alle più grandi, cioè quelle di dimensioni internazionali che comprendono opere e iniziative molto importanti. Amministrare queste ultime è come dirigere una multinazionale, per la quale occorre prevedere anche finanziamenti, investimenti, ampliamenti. Queste religiose quindi conoscono il mondo, la situazione politica dei paesi in cui operano e dove tengono vivi mille contatti, sanno fare bilanci e preparare progetti oculati ma al tempo stesso coraggiosi. Nessuno le inserisce nel numero delle poche imprenditrici di peso internazionale, ma sarebbe giusto farlo, perché sarebbe opportuno riconoscere le loro qualità e il loro ruolo. Ho conosciuto superiore generali di questo calibro, capaci di risparmiare per l’acquisto di un vassoio e poi, al tempo stesso, di investire due milioni di euro per un ospedale senza batter ciglio, abituate a viaggiare continuamente per il mondo, a incontrare leader politici e finanziari come interlocutori rispettati. Solo quando vanno in Vaticano vengono trattate senza tanto rispetto, come “povere suorine”.
Del resto la storia insegna che le prime imprenditrici sono state proprio le suore, nel XIX secolo, quando in Italia alle donne non era stata ancora riconosciuta la capacità giuridica di amministrare il loro patrimonio. In genere di famiglia borghese, figlie di imprenditori e commercianti, le fondatrici di congregazioni di vita attiva, che non potevano più contare su una proprietà ecclesiastica per il loro sostentamento, hanno cominciato ad accumulare denaro affiancando all’attività di insegnamento per i poveri quella per i ceti medi che potevano pagare e comportandosi allo stesso modo per l’assistenza ai malati, e hanno capito che potevano moltiplicare il loro ricavo se investivano immediatamente in altri istituti.
Forti di una manodopera a costo zero, cioè le suore, queste congregazioni hanno accumulato rapidamente solide fortune, impegnate poi in missioni, in nuove iniziative, come la prima scuola per infermiere o i primi istituti per ragazzi ciechi o sordomuti. E hanno anche cominciato a investire nell’acquisizione di nuovo prestigio attraverso il finanziamento del lungo e costoso processo di beatificazione e poi di canonizzazione delle loro fondatrici, come dimostra il fatto che, a partire dalla fine del XIX secolo, è più che raddoppiato il numero delle sante, fino a quel momento sensibilmente inferiore a quello dei santi.
La necessità di far riconoscere il valore legale del loro insegnamento ha spinto le congregazioni che avevano aperto delle scuole a far studiare le religiose, che sono state infatti tra le prime donne a frequentare l’università, vestite modestamente ma allo stesso modo delle loro compagne laiche, nelle poche sedi universitarie che alla fine del secolo XIX ammettevano le donne.
La spinta propulsiva della vita religiosa per l’emancipazione delle donne è stata quindi netta fino ai primi decenni del XX secolo: facendosi suora una donna aveva la possibilità di studiare, di svolgere un lavoro riconosciuto e rispettato, e di fare carriera come fondatrice di una sede locale, direttrice di scuole o di ospedali, amministratrice della sua congregazione, tutte esperienze che non avrebbe potuto fare come semplice laica. Una spinta propulsiva che è venuta meno quando le donne hanno imboccato la strada dell’emancipazione nella società civile, almeno in occidente, mentre questa spinta funziona ancora per i paesi del terzo mondo.
Anche le monache che vivono in monastero e le suore di clausura lavorano per sostentare la loro vita comune, per pagare bollette e riscaldamento. Quasi sempre hanno un orto, un frutteto, e consumano i loro prodotti, una parte dei quali viene trasformata e venduta. A questa produzione di marmellate, miele, talvolta olio, spesso erbe per tisane, le monache talvolta affiancano altri lavori artigianali, realizzando candele, ricami, pizzi, icone. Nella loro vita quotidiana infatti le ore di preghiera si affiancano a quelle di lavoro, che occupa buona parte della giornata, e questo si aggiunge naturalmente alle attività domestiche e all’assistenza delle consorelle anziane o malate, proprio quei lavori che gli ecclesiastici delegano alle religiose.
I prodotti da loro preparati e commercializzati in genere sono venduti nel monastero stesso, che quasi sempre possiede un negozio, anche piccolo, ma anche in rete, e talvolta sono distribuiti a livello nazionale.
Nel complesso, il lavoro delle religiose, che occupa una parte importante del loro tempo, non è pagato, o è retribuito pochissimo, perché fa parte dello sforzo comunitario della missione, e si presenta quindi diviso in due grandi scomparti: da una parte, le suore che lavorano per i sacerdoti, in genere sfruttate e non valorizzate, prive di possibilità di carriera e di ogni riconoscimento; dall’altra, le religiose che si organizzano le attività lavorative in un ambito separato, dove sono solo loro a decidere. Qui trovano possibilità di carriera, di riconoscimento e soprattutto di espressione creativa delle loro capacità. Anche più liberamente delle donne che lavorano nel mondo laico.
Sarebbe opportuno che le donne, e soprattutto le religiose, cominciassero a rivendicare l’importanza e la decisiva consistenza del loro apporto lavorativo alla vita della Chiesa, come base per un riconoscimento più complessivo del loro ruolo all’interno dell’istituzi

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