Testo integrale con note e bibliografia

1. Donne, lavoro e gender gap: qualche considerazione introduttiva
Le recenti vicende relative alla composizione di alcune commissioni tecniche chiamate a svolgere un ruolo di consulenza scientifica a favore del Governo nella gestione dell’emergenza legata alla diffusione del Covid-19 ha evidenziato una volta di più – se mai ce ne fosse stato bisogno – il problema del persistente divario di genere nella valorizzazione della presenza e delle competenze femminili nelle carriere scientifiche. In prima battuta, infatti, in sede di nomina di tali organismi, tale presenza è stata del tutto trascurata e solo dopo le tempestive e puntuali critiche del movimento spontaneo “#Dateci voce”, di molte associazioni femminili, di un gruppo di senatrici e deputate e di molte donne attive in organismi operanti nell’ambito del contrasto alla discriminazione di genere nel lavoro (tra cui, in primis, le Consigliere di parità, a partire dal quella nazionale) è stata apportata una veloce (e un po’ maldestra) correzione di rotta , provvedendosi peraltro ad integrare con alcune esperte tali commissioni e non a sostituire, sia pure solo in parte, la componente maschile. Soluzione, quest’ultima, che non ha mancato di suscitare una certa irritazione, apparendo come una sorta di “toppa” (malriuscita) per una situazione che in effetti appariva non poco imbarazzante.
D’altra parte, emblematica resta l’affermazione del capo della Protezione civile che, interrogato dai media sull’iniziale assenza di una componente femminile in seno al Comitato tecnico scientifico nominato per supportare a livello consulenziale le attività di contrasto al coronavirus, ha risposto candidamente richiamando la sottorappresentazione femminile nei contesti dai quali erano stati scelti gli esperti, affermando che «se queste cariche fossero state ricoperte da donne avremmo avuto nel comitato tecnico scientifico una componente femminile adeguatamente rappresentata». Probabilmente del tutto involontariamente è stato così posto l’accento sul nocciolo della questione, che anche l’emergenza che stiamo vivendo ha puntualmente confermato: la presenza ancora limitata delle donne ai vertici delle strutture scientifiche (università, istituti di ricerca, associazioni scientifiche, ecc.), che si traduce in una persistente mancata considerazione del loro ruolo anche in settori nei quali – come quello della sanità – la loro presenza, guardando al complesso dei lavoratori impiegati, risulta ormai numericamente maggioritaria.
Dedicare alcune riflessioni alla questione del gender gap nelle carriere scientifiche ci sembra dunque quanto mai opportuno, anzi, doveroso, in questo difficile momento che il nostro Paese sta attraversando: se davvero si volesse cogliere l’occasione per ragionare seriamente su alcuni cambiamenti strutturali da porre in atto, un serio contrasto a queste persistenti forme di discriminazione dovrebbe avere un ruolo centrale nell’agenda del Governo; questi temi, peraltro, sono stati indicati anche tra gli obiettivi prioritari del Rapporto che la task force guidata da Vittorio Colao ha presentato alla Presidenza del Consiglio : la questione della parità di genere, infatti, assieme all’inclusione sociale, risulta essere uno dei tre assi fondamentali “di rafforzamento” (gli altri due sono, rispettivamente, la digitalizzazione ed innovazione e la rivoluzione verde) individuati per innescare una possibile (ed auspicabile) trasformazione/modernizzazione del nostro Paese.
Scendendo, sia pure sinteticamente, nel dettaglio, si segnala in particolare che, al punto 94 delle iniziative suggerite dal Rapporto elaborato dalla Commissione di esperti ed esperte sopra citata, con riguardo al tema della persistenza degli stereotipi di genere, si suggerisce di sviluppare un programma di azioni diversificate di contrasto sul piano culturale, spaziando dall’avvicinamento delle bambine alle materie STEM (scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche) ed all’educazione finanziaria, all’attenzione per il linguaggio e la rappresentazione dei generi nei libri di testo, nei media, nella pubblicità, fino alla realizzazione di rilevazioni statistiche ufficiali annuali su stereotipi e discriminazione – oggi, di fatto, sostanzialmente assenti – e che potrebbero certo contribuire ad una migliore conoscenza di tali fenomeni (e ad una più efficace reazione al perpetuarsi degli stessi). Quanto al lavoro, al punto 95 si evidenzia come il sostegno all’occupazione femminile debba passare anche attraverso un ripensamento dei ruoli di genere all’interno della famiglia, agendo su congedi parentali e di paternità ed incoraggiando una maggiore condivisione da parte maschile del lavoro di cura non retribuito. Quanto poi al tema che qui maggiormente interessa – e cioè l’empowerment femminile e l’aumento della presenza delle donne nelle posizioni lavorative apicali – il Rapporto Colao suggerisce espressamente l’adozione di strumenti ad hoc (con il possibile utilizzo anche delle quote di genere), oltre a programmi e linee guida per un riequilibrio della presenza femminile nei ruoli di vertice (ed in quelli consultivi), con l’obiettivo di massimizzare l’inclusione delle competenze femminili, oltre che di ridurre il divario retributivo di genere, ancora significativo nel nostro paese. Con riguardo infine al c.d. mainstreaming di genere – per riprendere la nota espressione divenuta, dopo la Conferenza di Pechino del 1995, una delle parole-chiave nella logica del contrasto al gender gap – al punto 96 si suggerisce la valutazione dell’impatto di genere (VIG) «quale metodologia di progettazione e analisi di ogni iniziativa legislativa, regolamentare e politica»: attività, questa, nel nostro Paese ancora del tutto carente e che invece sarebbe necessaria proprio per evitare scelte politiche e regolative che di fatto possano contribuire ad ampliare ulteriormente il già grave divario di genere. Ovviamente, un incoraggiamento all’adozione di linee guida per la VIG viene suggerito anche al sistema delle imprese private, essendo ancora molto poche quelle che integrano nello sviluppo della policy aziendale anche l’attenzione specifica per il bilancio di genere.
Molte sarebbero dunque le iniziative da mettere in campo e l’auspicio è che quest’occasione non venga sprecata; certo, i motivi per essere poco ottimisti non mancano (si pensi solo allo svarione, subito corretto, ma anche qui dopo le critiche avanzate dall’esterno, legato all’utilizzo dei più triti stereotipi di genere nella raffigurazione iniziale di uomini e donne nella app “Immuni”, promossa dal Governo come strumento utile per il controllo della diffusione del virus), ma va anche detto che la situazione di crisi (con il riconoscimento e la percezione da parte dell’opinione pubblica del ruolo importantissimo giocato da tantissime lavoratrici, in primis nel settore della sanità, ma non solo, nella fase più grave dell’emergenza) e la reazione pronta e massiccia registrata da parte di tante e tanti di fronte alla sottorappresentazione femminile nelle task forces governative sembrano aver segnato un punto di svolta.
In altri termini, forse non è azzardato ipotizzare che la percezione dell’ingiusta sottorappresentazione delle donne sia diventata più ampia e condivisa, così come la sensibilità collettiva in materia potrebbe essere cresciuta: fatte le debite proporzioni, il mutamento di percezione potrebbe essere simile a quello, in tema di molestie sessuali, originato dalle note vicende legate al movimento “MeToo”. I mesi che ci aspettano e le scelte che verranno messe in campo dal decisore politico ci diranno se in effetti una tale percezione corrisponda al vero; certo è che, per il nostro Paese, lo sforzo per superare l’arretratezza in termini di sottorappresentazione femminile in tanti settori e profili di carriera non è più procrastinabile, visti i numeri impietosi che ci collocano nelle posizioni di coda del Gender gap World Report 2020, pubblicato nel dicembre del 2019 dal World Economic Forum . L’Italia, infatti, si colloca al 76° posto su 153 Paesi, ma ben al 117° in relazione alla voce partecipazione economica ed opportunità occupazionali: non avrebbe peraltro potuto essere altrimenti, visto che, come segnala l’Istat, il divario occupazionale tra uomini e donne è pari al 18,7%, ed il tasso di occupazione delle madri tra 25 e 54 anni che si occupano di figli piccoli o di familiari non autosufficienti è del 57%, a fronte di oltre l’89,3% dei padri.
In questo contesto, preoccupano non poco le possibili conseguenze, che già si iniziano ad intravedere, della crisi economica indotta dall’emergenza della pandemia legata alla diffusione di Covid-19: i primi dati relativi alla recessione innescata dalla misure di contenimento del coronavirus dimostrano infatti che vi è stata una ricaduta particolarmente pesante proprio sull’occupazione femminile : i dati pubblicati dall’Istat all’inizio di giugno evidenziano che la perdita di posti di lavoro registrata ad aprile 2020 (rispetto all’aprile 2019) si traduce in una diminuzione dell’occupazione femminile pari al 2,9%, quasi il doppio di quanto registrato per gli uomini (-1,6%), ed è una contrazione dell’occupazione che si può immaginare purtroppo aumenterà ulteriormente nei prossimi mesi, quando verranno meno gli strumenti di supporto legati alla cassa integrazione in deroga. Come segnalato nelle prime analisi della dottrina, vi è anche un ulteriore aspetto da considerare: la parallela contrazione – oltre a quella degli occupati – anche dei soggetti che risultano disoccupati «suggerisce che per molti, e in misura decisamente maggiore per le donne, la difficoltà di trovare lavoro si è tradotta in scoraggiamento, quindi rinuncia alla ricerca di lavoro, andando a gonfiare la platea degli inattivi» ; che, aggiungiamo, potrebbe ulteriormente crescere laddove non vi fosse una ripresa regolare a settembre delle attività scolastiche, circostanza che potrebbe originare dei prevedibili e gravissimi problemi di conciliazione tra esigenze familiari ed attività professionali per molte lavoratrici, di fatto insuperabili, attesa la circostanza che le attività di cura dei figli e, più in generale, di caregiving (non solo per i bambini, ma anche per i familiari anziani, disabili, non autosufficienti), continuano in Italia a gravare, all’interno della famiglia, in modo assolutamente non equilibrato prevalentemente sulle donne.
Il tema del lavoro femminile resta quindi centrale laddove si ragioni in termini di rilancio del sistema Italia: a pena, in caso contrario, di un ulteriore passaggio di molte donne dalla partecipazione al mercato del lavoro all’inattività, con tutte le relative, inevitabili conseguenze in tema di impoverimento sia individuale che delle famiglie, oltre che di inaccettabile spreco di una risorsa preziosa per la tenuta economica del Paese.

2. Le donne e le carriere scientifiche: esiste ancora il “soffitto di cristallo”?
Se, dunque, in Italia persiste un problema generale relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro ed alla presenza delle stesse nei livelli apicali di carriera, tanto nel sistema delle imprese private quanto all’interno della pubblica amministrazione, tale questione si pone, se possibile, in termini ancora più rilevanti laddove si guardi ai percorsi lavorativi femminili nell’ambito del mondo accademico e della ricerca scientifica.
Un recente e denso Rapporto, pubblicato nel 2019 e curato da Sveva Avveduto per il CNR , evidenzia come i percorsi di carriera delle donne italiane, nelle università e nelle istituzioni scientifiche, siano ancora segnati da persistenti disparità; certo, un tanto si riscontra anche in altri Paesi europei e la stessa Commissione europea (v. il Rapporto She Figures 2018) non manca di rilevare come, nel contesto dell’Unione, all’aumento delle donne che intraprendono gli studi universitari non corrisponda ancora un proporzionale aumento in termini di accesso femminile alle carriere accademiche e di ricerca, ma tale circostanza certamente non è per noi di particolare conforto. Nello specifico, i dati europei evidenziano che, se di fatto una sostanziale parità è stata raggiunta nel rapporto tra studenti e studentesse universitari/e, laureati e laureate, dottorandi e dottorande e dottori e dottoresse di ricerca, nel successivo percorso relativo alle carriere accademiche la diseguaglianza cresce rapidamente al crescere del livello di inquadramento (per l’Italia: ricercatori/trici, associati/e, ordinari/e), con una forbice ancora più ampia per quanto attiene ai settori c.d. “STEM” (Science, Technology, Engineering, Mathematics) .
Se, dunque, siamo di fronte ad un problema che non riguarda esclusivamente il nostro Paese, deve anche segnalarsi che, con riguardo al caso italiano – che qui ci interessa – i dati appaiono particolarmente preoccupanti in quanto, negli ultimi anni, si è comunque registrata una riduzione ancora assai contenuta del divario. In un volume curato vent’anni addietro dall’Istat e dedicato proprio ai dati sulla presenza femminile nelle università italiane, infatti, si riportava come, nel 1999, l’incidenza femminile fosse del 39,7% tra i ricercatori (R), del 26,1% tra i professori associati (A) e dell’11,4% tra i professori ordinari (O) , con una presenza ancora più scarsa tra rettori, presidi di facoltà e direttori di dipartimento. Vent’anni dopo, stando ai dati diffusi dalla CRUI , mentre tra i ricercatori è stato raggiunto un sostanziale equilibrio di genere, tra i professori associati le donne sono il 37% e solo il 23% tra gli ordinari; quanto ai rettori, la presenza femminile incide per un risicato 7%.
Alla luce di questa situazione, e nell’ottica di una effettiva piena attuazione nel contesto accademico dei principi di cui all’art. 3 della Costituzione italiana, si pone con evidenza il tema della necessità di sostenere con maggiore impegno ed incisività il perseguimento dell’obiettivo di riequilibrio di genere, anche diffondendo all’interno delle università la pratica di alcuni strumenti operativi quale, ad esempio, il bilancio di genere (che si sta progressivamente diffondendo come buona prassi all’interno degli Atenei : nel 2019 circa una ventina erano quelli che lo avevano adottato), per meglio integrare il tema della correzione degli squilibri sopra evidenziati – che nel settore delle scienze c.d. “dure” risultano ancora più marcati – nella governance degli Atenei. Il bilancio di genere, peraltro, si presta a raggiungere due obiettivi, avendo una duplice funzione: «da un lato fotografia della distribuzione femminile delle carriere all’interno delle Università; dall’altro repertorio di tutte le politiche, le azioni e gli interventi messi a punto dagli atenei per favorire una più equa rappresentanza di genere nei percorsi di carriera.» .
Si tratta ovviamente, di delineare un quadro preciso ed aggiornato attraverso la valorizzazione di alcuni specifici indicatori, ma le esperienze in proposito ormai non mancano e l’auspicio non può che essere quello di una rapida diffusione di questo utile strumento, per l’indubbio valore conoscitivo e di stimolo verso l’adozione di buone prassi che lo stesso può assumere. Non deve peraltro trascurarsi anche il ruolo che, all’interno di questi processi, può essere giocato dai CUG (Comitati Unici di Garanzia) degli Atenei, quali soggetti che possono assumere un ruolo propositivo, presso gli organismi di governo degli Atenei, di azioni positive e best practices per il riequilibrio di genere.
Ragionamenti analoghi possono farsi, mutatis mutandis, anche in relazione alla presenza femminile in altre istituzioni legate alla ricerca scientifica. Interessanti, sotto questo profilo, sono i dati relativi al personale in servizio presso il CNR; alla fine del 2018 la presenza maschile risultava anche qui, sia pure di poco, prevalente (53% vs. 47%), evidenziandosi peraltro anche in questo contesto un profilo di segregazione “orizzontale”, con le ricercatrici presenti in maggioranza nei Dipartimenti di Scienze biomediche (67%) e bio-agroalimentari, e presso la sede centrale, e con una prevalenza maschile, invece, nei Dipartimenti di Ingegneria e tecnologie per l’energia e i trasporti, Scienze fisiche e Scienze del sistema terra e tecnologie per l’ambiente; una sostanziale parità si registrava invece nei Dipartimenti di Scienze chimiche e tecnologie di materiali ed in quello di Scienze umane e sociali .
Interessanti appaiono, sempre in relazione all’esperienza del CNR, anche i dati relativi alla fruizione dei congedi parentali, che evidenziano come anche tra i lavoratori e le lavoratrici impiegati nell’ambito della ricerca scientifica permanga una disparità nel riparto del lavoro di cura: infatti, dall’analisi dei i dati relativi al numero dei giorni fruiti per congedo di cura dai ricercatori si evince come questi istituti siano utilizzati soprattutto dalle donne, con un’evidenza particolare in tal senso per i periodi di congedo facoltativo non retribuito al 100%, laddove, invece, nell’ipotesi in cui il periodo di congedo non comporti una decurtazione della retribuzione, cresce la partecipazione maschile, che però non supera la soglia del 30% . Un tanto a riprova del fatto che, nel “contratto di genere” all’interno delle famiglie, laddove si tratti di rinunciare ad una parte dello stipendio per fruire dei congedi di cura, la scelta usualmente ricade, volente o nolente, in misura maggiore sulle madri lavoratrici piuttosto che sui padri, alla luce anche della retribuzione mediamente inferiore percepita dalle prime.
In definitiva, nel sistema della ricerca – accademica e non – i dati evidenziano il permanere di una “questione di genere” ancora irrisolta, e che richiederebbe una molteplicità di interventi, non solo sul piano operativo (adozione di azioni positive, fin dalla scelta dei percorsi di studio, per aumentare le presenze femminili, a tutti i livelli, nell’ambito dei percorsi accademici STEM; sostegno alla carriere ed al riequilibrio di genere nelle diverse fasce della docenza e nelle carriere apicali; misure a sostegno della condivisione tra uomini e donne delle responsabilità familiari e del lavoro di cura; valorizzazione di strumenti ed organismi per il contrasto al sessismo ed alle molestie sessuali, che talora possono ostacolare pesantemente i percorsi di carriera femminili), ma anche sul piano culturale, contrastando gli stereotipi, ancora assai diffusi, che vengono spesso trasmessi (ed introiettati) fin dall’infanzia dalle bambine: ad esempio, quelli relativi ad una loro presunta minore abilità nella matematica e nelle attività di carattere tecnico-scientifico.
In quest’ottica, un’utile strumento può individuarsi anche nello sviluppo di percorsi formativi volti ad approfondire, in seno alle istituzioni di ricerca, la capacità di individuare e contrastare possibili pratiche generatrici di distorsioni di genere nei modelli organizzativi e nell’attività lavorativa, così come necessario appare un attento monitoraggio del gender balance in tutte le diverse iniziative (di ricerca, di divulgazione scientifica, ecc.) adottate, per impedire che continuino a vedersi tavoli, panels e task forces declinati interamente al maschile; l’esperienza quotidiana ci mostra infatti come permanga in Italia un’inaccettabile disparità di genere nella partecipazione femminile a tutti quei “circoli” (si pensi, per fare solo un esempio, ai vertici delle società scientifiche – ma lo stesso potrebbe dirsi, ad esempio, anche per i vertici degli ordini professionali…) o a quei diversi organismi (tavoli tecnici, gruppi di esperti, organi consultivi, ecc.) che favoriscono la visibilità dei partecipanti, continuando di fatto a relegare in secondo piano i talenti e le competenze femminili, come le recenti vicende di cronaca, sopra già ricordate, hanno ancora una volta dimostrato.

3. Alcune (provvisorie) conclusioni

Che la disparità di genere che ancora si evidenzia nei percorsi di carriera delle donne in ambito scientifico sia legata anche ad un problema culturale è del tutto evidente ed è stato più volte sottolineato dalle studiose e dagli studiosi che si sono occupati di queste questioni. Si tratta, dunque, di agire (anche) per orientare un necessario cambio di mentalità, che non può non chiamare direttamente in causa pure gli uomini e che richiede una attenta riflessione sulle modalità con le quali continuano a generarsi i fenomeni di segregazione occupazionale orizzontale e verticale di cui si è detto:
«Nelle relazioni familiari, ma anche in quelle professioni in campo pedagogico, le funzioni di assistenza e cura sono tradizionalmente svolte dalle donne. Ci focalizziamo tendenzialmente sull’accesso femminile a carriere scientifiche nel campo delle STEM, più raramente sulla promozione della scelta da parte di giovani maschi di professioni o ambiti di studio relativi alla cura. Ma non c’è solo un ostacolo sociale che interdice l’accesso femminile alle carriere e agli ambiti disciplinari dell’area delle scienze “dure” o delle tecnologie. Esiste anche un’interdizione sociale alla cura maschile, una rappresentazione sociale che frena giovani uomini dall’ intraprendere percorsi di studio e dunque successive prospettive professionali nell’ambito pedagogico o della cura. Questa valutazione aggiunge alla denuncia “soffitto di cristallo” che ostacola l’accesso femminile alle carriere scientifiche, lo svelamento delle barriere invisibili che ostacolano la scelta di alcuni percorsi professionali e di studio da parte degli uomini e dunque una lettura della segregazione orizzontale e verticale tra i generi dovuta a rappresentazioni basate sulla complementarietà.»

È quindi necessario affrontare la questione della presenza femminile nell’ambito della ricerca scientifica non tanto in una logica di contrapposizione con gli uomini, quanto attraverso pratiche di analisi e di dialogo che valorizzino una prospettiva di condivisione degli obiettivi di riequilibrio e di ripensamento dei modelli di genere fino ad ora imperanti in tema di percorsi di carriera, organizzazione del lavoro e finanche di valutazione dei prodotti della ricerca . Non secondaria, in quest’ottica, appare la riflessione su modelli organizzativi costruiti ancora prevalentemente “al maschile”, che premiano spesso la presenza “fisica” (anche “fuori orario”) e penalizzano le assenze legate al lavoro di cura.
In fondo, quando si ragiona in termini di riequilibrio di genere, a tutti i livelli e dunque anche nell’ambito della ricerca e delle carriere scientifiche, non dobbiamo mai dimenticare che si si tratta (anche) di una questione di democrazia, senza trascurare la circostanza che il nostro Paese non può più permettersi di formare, e poi sprecare (o “regalare” alle istituzioni scientifiche di altri Paesi), tanti talenti femminili. D’altra parte, come è stato condivisibilmente osservato, anche gli uomini, nel ripensamento dei modelli di genere tradizionali, così come nell’innovazione di culture e linguaggi conseguenti, potrebbero trovare un’utile «occasione per ripensare il proprio rapporto col lavoro, per reinventare la propria esperienza nella cura e anche per aprire spazi ad una pluralità dei linguaggi e negli “stili” di ricerca che possano rappresentare per loro una opportunità.» Dunque, di fatto, si tratterebbe di una partita win-win, in cui tutti – e soprattutto il nostro Paese – potrebbero guadagnare qualcosa, sostenendo un cambiamento auspicabile anche alla luce degli obiettivi declinati nell’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile, che tra i diversi obiettivi da perseguire nei prossimi anni per garantire benessere e stabilità, non a caso sottolinea il rilievo del raggiungimento dell’eguaglianza di genere , da perseguire, tra l’altro, attraverso la valorizzazione delle competenze femminili e la garanzia di pari opportunità di leadership ad ogni livello decisionale.

 

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