TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una vera rivoluzione terminologica ma pure ad un sostanziale mutamento nell’approccio ai temi del lavoro nelle nostre amministrazioni; tutti cambiamenti strettamente correlati all’abbandono della logica neoliberale dell’efficienza ad ogni costo. Se si volesse trovare un filo rosso in grado di riannodare i momenti significativi di questo processo evolutivo, potrebbe essere con tutta evidenza ravvisato nell’investimento autentico sulla persona del lavoratore pubblico. Basti a questo fine osservare come, sotto l’egida del Governo che ci lasciamo alle spalle, sono state divulgate le linee programmatiche per le nostre PA, è stato firmato il Patto con le parti sociali ed è stato pure adottato un PNRR: tutti documenti che hanno posto al centro la persona come risorsa strategica per il progresso amministrativo. Ed in effetti è parso sorprendente leggere nelle linee programmatiche appena menzionate e nel PNRR che «sulle persone si gioca […] il successo non solo del PNRR, ma di qualsiasi politica pubblica indirizzata a cittadini e imprese» e nel Patto che «la costruzione della nuova Pubblica Amministrazione si fonda […] sulla valorizzazione delle persone nel lavoro» .
Difficile, in retrospettiva, individuare un periodo connotato da altrettanto fermento umanistico . A trent’anni dalla privatizzazione del lavoro pubblico è possibile affermare che, rispetto al momento genetico di quella riforma epocale, il cambiamento in atto non possegga più come tratto distintivo il perseguimento del risanamento dei costi , bensì, e molto più propriamente, si è proposto con le fattezze di un vero “piano di investimento sulle persone” . Traiettoria, questa appena indicata, che trova piena conferma in uno degli ultimi interventi normativi, in ordine di tempo, destinato a introiettare nei nostri apparati la cultura della progettazione. Si intende fare riferimento al dl 80/2021 e alla previsione del Piano integrato di attività e organizzazione (PIAO) come misura per il rafforzamento della capacità amministrativa dei nostri apparati pubblici. Proprio a fronte di quest’ultima normativa e della destinazione di tutta la progettazione alla creazione di “valore pubblico” si può dire che siamo entrati in una fase evolutiva che contempla un’idea alternativa di amministrazione, quale luogo in cui ci si prende sempre più cura del “fiorire” delle persone. E questo sia all’interno che all’esterno degli apparati. La persona non è più “mezzo” ma “fine”, in qualsiasi dimensione venga considerata .
In effetti, se il valore pubblico può essere inteso come il benessere dei cittadini (benessere equo), la precondizione per raggiungerlo è l’altra faccia di questo benessere, ovvero lo star bene dentro gli apparati. Nel tempo, si è irrobustito il ponte fra il dentro e il fuori delle amministrazioni, di modo che questi due poli paiono fra loro sempre più interconnessi, sempre più inseriti in un concetto di rete. Il primo non può prescindere dal secondo. Si co-implicano e l’uno si nutre delle virtù dell’altro.
Se si rincorre la soddisfazione dei consociati (l’interesse pubblico) non è, infatti, contestualmente possibile pretermettere la soddisfazione di chi lavora per loro. Il benessere negli apparati appare in modo viepiù crescente quale precondizione imprescindibile per la migliore azione pubblica e cioè quella satisfattiva delle attese e pretese della collettività degli utenti.
Questo connubio fra interno ed esterno risale all’ormai lontano 1990, al momento dell’apertura della black box delle PA, iniziata con la legge sul procedimento amministrativo, e cioè la l. 241/1990, che ha inaugurato la stagione del diritto di accesso (al procedimento amministrativo) e si è evoluta sino al punto di approdare alla riforma Brunetta, rimaneggiata poi dalla riforma Madia, e alla possibilità dei cittadini di dialogare con gli stessi OIV .
Con la riforma Brunetta bis è entrata prepotentemente nel sistema - complice anche il fenomeno pandemico - l’attenzione per il capitale umano, per le persone.
Siamo, pertanto, a pieno titolo transitati in una fase sistemica in cui si intende creare valore pubblico (fuori degli apparati) dando valore alle persone (che lavorano negli apparati).
Si prende coscienza del fatto che tutta la complicata e faticosa attività programmatoria nelle PA, che appunto è stata rilanciata dalla normativa di ultima generazione, presuppone come baricentro la persona del lavoratore pubblico.
Ecco perché è quasi il mood del periodo l’attenzione alle persone e al loro benessere; e per benessere va intesa proprio, l’affermazione di sé, la soddisfazione veicolata dallo sviluppo della propria professionalità. Sembra quasi possibile aggiungere una quinta “E” a quelle che tradizionalmente hanno connotato l’azione nelle nostre amministrazioni: efficienza, efficacia, economicità, etica e infine, quale ultimo approdo, eudaimonìa nel senso proprio dell’appagamento nei luoghi di lavoro pubblici .
Questo perché dall’appagamento deriva infine, e come si proverà a dimostrare, l’interesse per un certo luogo di lavoro. Il buon clima organizzativo, la fiducia che in un determinato contesto sia possibile fare carriera sulla base di criteri oggettivi e di merito , sulle competenze effettivamente possedute e dimostrate, la consapevolezza che un certo ambito sia caratterizzato da armonia e relazioni lavorative virtuose e solidali, sono tutti elementi che rendono desiderabile appartenere ad una certa amministrazione. Al contempo è pianamente intuibile che un ambiente di lavoro siffatto possa divenire il sostrato necessario perché attecchisca il nuovo approccio promosso dalla normativa di ultima generazione: l’employer branding .
Si tratta di quel percorso destinato a rendere appetibile un ambito lavorativo pubblico, tanto da procurare desiderio di rimanervi, neutralizzando il bisogno di fuga verso luoghi che, nell’immaginario collettivo, sembrano più accattivanti sotto tutti i profili prima evidenziati. Del resto le cronache hanno diffuso la notizia relativa alle sempre più frequenti rinunce di contratti lavorativi correlati al PNRR .
Va osservato, infatti, come il nuovo bisogno di questi anni post pandemici che viviamo sia proprio quello di rendere attrattive le PA, e questo per catturare e fidelizzare i talenti qui presenti e non disperderli, ma pure, e contestualmente, per attrarne di nuovi. Tutto questo in perfetta sintonia con il trend del periodo che è appunto la “sostenibilità”, intesa come vocazione a capitalizzare dell’esistente.
Da qui la necessità di rilanciare le capacità e le competenze dirigenziali/manageriali nella costruzione di strategie gestionali e micro organizzative in grado di raggiungere questi risultati .
Insomma soddisfare per fidelizzare parrebbe il nuovo spot da veicolare per esprimere un approccio moderno e favorente l’appeal nei nostri apparati.

2. Gli obiettivi appena descritti presuppongono una diversa modalità di perseguimento che si deduce dalle più recenti disposizioni in materia. Per costruire, infatti, strategie vincenti di rilancio della professionalità , e quindi di appagamento di chi lavora negli apparati, non si può prescindere dal nuovo strumentario su cui il legislatore sembra voler scommettere con convinzione. Nel dl n. 80 del 2021 appare, infatti, ben strutturata una nuova endiadi: programmazione e professionalità. Endiadi che esprime l’asse intorno al quale ruotano i diversi interventi disposti in materia. La professionalità programmata, volendo proprio ricongiungere i lemmi di cui si compone la figura retorica, presuppone, nell’attuale disegno normativo, logiche in parte lontane da quelle che tradizionalmente hanno accompagnato la carriera dei dipendenti pubblici. E infatti l’art 6 del dl 80/2021 dispone che il PIAO viene aggiornato annualmente e definisce “la strategia di gestione del capitale umano e di sviluppo organizzativo, […], e gli obiettivi formativi annuali e pluriennali, finalizzati ai processi di pianificazione secondo le logiche del project management (PM n.d.r.), al raggiungimento della completa alfabetizzazione digitale, allo sviluppo delle conoscenze tecniche e delle competenze trasversali e manageriali e all’accrescimento culturale e dei titoli di studio del personale, correlati all’ambito d’impiego e alla progressione di carriera del personale[…]”. Insomma per la prima volta, sul piano della gestione del personale in senso stretto, si fa ricorso alla progettazione di evidente connotazione ingegneristica, basata su logiche più dinamiche tese a superare le vecchie impostazioni gerarchiche e a ricorrere piuttosto al modello dei processi proiettati al raggiungimento di output ma con attenzione agli impatti attesi (outcome). Secondo questa impostazione, un processo è giusto un insieme di attività correlate o interagenti che trasformano elementi in ingresso (input) in elementi in uscita (output). In processi logicamente sequenziati, generalmente, gli output di un processo corrispondono agli input del processo successivo. Prendendo a prestito gli studi di ingegneria gestionale è possibile evidenziare che il processo ha proprio la caratteristica di “successione di fenomeni legati fra loro” e di “metodo da seguire per ottenere un determinato scopo” . Il processo, cioè, invera il progetto che diventa il luogo in cui si esprime e consolida la competenza dei project manager e specialmente di quelli occasionali, anzi “accidentali” . Con quest’ultima locuzione si intende fare riferimento a tutti coloro che, nelle amministrazioni, pur non possedendo in modo specifico le competenze tipiche dei project manager, sono lo stesso chiamati, e in modo viepiù crescente, a realizzare progetti alla maniera di questi ultimi, e cioè cimentandosi nella programmazione, nel coordinamento e nel monitoraggio degli esiti a valle del complessivo percorso.
Ed è proprio questo cambio di pelle che sempre più appare auspicabile, e forse necessario, nei nostri apparati e di seguito si proverà a spiegarne il perché.

3. L’esercizio dei poteri dirigenziali si dispiega entro il perimetro tracciato dall’art. 5 comma 2 del d.lgs 165/2001 e cioè l’ambito in cui si invera la gestione e la micro organizzazione amministrativa. Ai sensi di questa norma, su cui si regge in buona parte la privatizzazione del lavoro pubblico , le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti la gestione del personale sono assunte con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro. Nel tempo, pur conservando la sostanza giusprivatistica, i poteri micro organizzativi e gestionali hanno dovuto adattarsi ai mutati contesti e, negli ultimi anni, pure alle nuove finalità richieste dalle più recenti riforme, spingendosi sino ad abbracciare funzioni sempre più evocative del management del settore privato.
Questo è il luogo in cui il dirigente può assumere la decisione autonoma migliore, quella in grado di fare la differenza e segnare una vera trasformazione nello stile . Questo è il livello in cui è forse possibile dar valore alle persone, prendersi cura del capitale umano (osservando la prospettiva interna alle amministrazioni) ma al contempo lasciandosi orientare dall’interesse situato nei cittadini (osservando il fuori delle amministrazioni). Qui può trovare attuazione la nuova finalità dell’ultimo ciclo di riforma che si dispiega sotto i nostri occhi: ovvero l’implementazione di un vero e proprio piano di investimenti sulle persone.
Il cuore pulsante di tutte le riforme che si sono susseguite nel tempo va ravvisato nella continua ricerca del delicato equilibrio fra l’ambito delle scelte discrezionali, ovvero la macro organizzazione e quello appena descritto della micro organizzazione e gestione, viceversa dominato dagli atti di diritto privato di modo che si misura con posizioni giuridiche piene di diritto soggettivo. La gestione che si dispiega sul piano del diritto dei privati, tracciata dall’art. 5 comma 2, prima citato, non brilla infatti di luce propria. Presuppone un ambito decisionale macro organizzativo robusto, consapevole e ben progettato, basato su buone decisioni politiche, dal quale possano poi discendere buone decisioni attuative. Che poi è la rappresentazione dell’equilibrato dosaggio di fonti consacrato dalla nota pronuncia della Corte Costituzionale n. 313/1996. Equilibrio, cioè, fra luoghi in cui l’azione è direttamente funzionalizzata al raggiungimento dell’interesse pubblico - e quindi dominati dagli atti d’imperio discrezionali - e luoghi in cui l’azione è meramente finalizzata al raggiungimento di questo interesse. Secondo la nozione sintetica di funzionalizzazione introdotta da Andrea Orsi Battaglini e rilanciata da Massimo D’Antona in occasione della seconda privatizzazione del lavoro pubblico della quale quest’anno si celebra il trentennale . La dirigenza adotta atti gestionali svincolati dal raggiungimento di un preciso vincolo di scopo, seppure ne tenga egualmente conto, guardando in lontananza l’interesse dei consociati, cui ha consapevolezza che sia comunque diretta l’azione derivante dalla propria strategia gestionale. Orienta la sua scelta non dimenticando che la propria decisione/azione precipita infine sulla collettività degli utenti.
Come si è più sopra accennato l’interesse pubblico è un contenitore aperto, suscettibile di arricchirsi di nuovi significati, tanto che negli ultimi anni ha superato la logica neoliberale dell’efficienza fine a se stessa spingendosi a lambire nuove finalità, in grado pure di contemplare le più recenti sfumature dell’agire pubblico.
Se il fine ultimo è oggi un piano di investimenti sulle persone è logico pensare che l’azione pubblica nei due livelli macro e micro debba essere orientata al conseguimento del medesimo. Questo certamente accade in modo immediato attraverso la funzionalizzazione della macro organizzazione, come nel caso della costruzione dei PIAO nelle diverse amministrazioni, nei quali deve brillare l’expertise organizzatoria delle nostre amministrazioni.
Ma accade pure per via indiretta, mediata: e cioè attraverso la finalizzazione della gestione dirigenziale, delle buone strategie di leadership. Ciò perché anche la gestione scevra da comportamenti vessatori, limitativi dell’affermazione di sé, privativi di quell’eudaimonia di cui si è detto, ha indubbie ricadute positive sul piano dell’efficienza amministrativa.
L’ambiente di lavoro tranquillizzante, il buon clima organizzativo, il benessere nei luoghi di lavoro, sempre più negli ultimi anni si sono mostrati utili arnesi per costruire l’azione pubblica eccellente, ovvero per neutralizzare quelle cause, talvolta poco visibili, di inefficienza, correlate alla scarsa motivazione, anzi alla frustrazione, nel (e sul) lavoro .
Qui si innesta l’ultimo approdo delle riforme strettamente correlato al bisogno di costruire efficienza disinnescando anche queste cause di immobilismo poco visibili e sino a qualche tempo fa ignorate o comunque non considerate rilevanti e rispetto alle quali, invece, ci si è resi progressivamente conto delle non trascurabili ricadute sull’efficienza dell’azione amministrativa se non addirittura sulla relativa economicità .
Le dirigenze sono, oggi più che mai, manager del progetto di costruzione della professionalità dei propri collaboratori perché anche questo percorso esprime una precisa strategia gestionale volta a creare efficienza e, come si è detto, a rendere assai più attrattivi i luoghi di lavoro.
Tutto dipende dal modo in cui ciascun dirigente, secondo le proprie abilità, si mostri in grado di interpretare un rinnovato e impegnativo compito/obbligo che richiede il ricorso alle tecniche del competency management.
Secondo il DM n. 22 del luglio 2022, proprio in ragione della graduale qualificazione della PA come organizzazioni ad alta intensità di lavoro qualificato (human capital intensive), processo sostenuto anche dalle innovazioni tecnologiche, occorre investire soprattutto sullo sviluppo delle competenze tecniche e trasversali del personale .
Ed ecco perché si legge ancora nella decreto che “considerata la rapida obsolescenza dei contenuti descrittivi statici delle professioni richieste per lo svolgimento delle attività necessarie al raggiungimento delle mission delle amministrazioni pubbliche, soggette a mutamenti nelle modalità di svolgimento e nella strumentazione a supporto, risulta necessario identificare – prima ancora dei nuovi profili professionali- le modalità stesse di analisi e descrizione di tali profili, in modo da intercettare una pluralità di dimensioni che vadano oltre quella delle sole conoscenze teoriche, del titolo di studio e dell’elencazione dei compiti da svolgere, per approdare, invece, all’identificazione di un sistema di “competenze” .
A fronte di queste riflessioni si auspica un vero e proprio cambio di paradigma che promuova il connubio fra “[…]la programmazione dei fabbisogni di personale con un modello organizzativo volto a non concludere la descrizione del profilo all’assolvimento delle mansioni previste dalla posizione di lavoro che i dipendenti ricoprono al momento di ingresso nel pubblico impiego, bensì a riconoscerne e accompagnarne l’evoluzione, verso una caratterizzazione fondata sulla specificità dei saperi, sulla qualità della prestazione e sulla motivazione al servizio, elementi centrali – questi – anche nel disegnare carriere dinamiche per i più meritevoli e accrescere l’attrattività del lavoro pubblico, in una logica di employer branding” .
Il competency management, ovvero la gestione per competenze, è destinata, quindi, a “[…]promuovere l’integrazione orizzontale di tutte le leve dello human resources management (programmazione strategica dei fabbisogni, attività di employer branding, procedure di reclutamento e selezione, sistemi di misurazione e valutazione, piani di formazione, percorsi di carriera) e l’allineamento verticale delle stesse con la strategia generale dell’amministrazione, grazie all’evoluzione del ruolo delle politiche di gestione del personale da adempimento di pratiche amministrative relative al rapporto di lavoro dei dipendenti a leva strategica di sviluppo degli individui e delle organizzazioni pubbliche” .

3.1 Va adesso verificato come possa essere declinato l’approccio manageriale tratteggiato dalla normativa sopra citata. Una prima indicazione si desume dall’art. 6 del dl 80/2021, comma 2, lett. b) di cui si è già detto. Qui si trovano descritte le caratteristiche del PIAO ovvero il documento che riconduce ad unità tutta la programmazione di lunga gittata riguardante i rapporti di lavoro nelle nostre amministrazioni. Si tratta, infatti, della fonte sub-primaria regolamentare preposta a racchiudere, riconducendo tutto a unità, il Piano delle performance, il Piano triennale dei fabbisogni del personale, il Piano anticorruzione e infine il POLA in materia di lavoro agile. È proprio qui che il legislatore prevede il ricorso ai processi di pianificazione e organizzazione secondo le metriche e tecniche del project management (PM).
Affermare che il PIAO definisce tutti questi aspetti secondo le logiche del PM , equivale ad affermare che tutte le strategie di gestione delle persone e di sviluppo organizzativo dovranno contemplare sequenze ordinate non fine a se stesse ma proiettate alla verifica dell’output finale, e infine del relativo impatto (outcome). Il ricorso agli arnesi del PM comporta, infatti, più attenzione per i risultati che un certo stile di leadership abbia prodotto in un dato contesto amministrativo.
Occorre così una feconda contaminazione della gestione e della micro organizzazione di cui all’art. 5 comma 2 del d.lgs 165/2001 con il ricorso a questi nuovi arnesi, e ciò in vista della creazione di valore pubblico.
Stessa logica emerge dalla lett. c ) del comma 2 dell’ art. 6 DL 80/2021, tramite un rinvio espresso al comma precedente, che può indurre ad affermare che il PIAO definisce gli strumenti per la valorizzazione delle risorse interne prevedendo la percentuale di posizioni disponibili destinate alle progressioni di carriera e le modalità di valorizzazione a tal fine dell’esperienza professionale maturata e dell’accrescimento culturale conseguito anche attraverso le attività di sviluppo previste con le logiche del PM.
La programmazione dello sviluppo delle carriere e quindi dell’affermazione di sé, pretende il ricorso a sequenze ordinate, che si chiudono con la verifica del raggiungimento di un certo prodotto e del relativo impatto. È evidente come il ricorso alle tecniche del management in funzione della valorizzazione delle competenze abbia come obiettivo principale il potenziamento delle persone attraverso lo sviluppo delle conoscenze, delle abilità trasversali e della motivazione.
Questo comporta che le dirigenze nella gestione della professionalità debbano sfoderare tutte le proprie doti manageriali per realizzare benessere e crescita dei collaboratori, ricorrendo a strategie incentivanti fondate su comportamenti rispettosi dei canoni della buona fede e correttezza comportamentale. Naturalmente, perché il modello abbia una chance di successo, occorrono strumenti di effettività sistemica. Strumenti ravvisabili all’interno del ciclo di gestione delle performance e cioè del processo gestionale preposto a premiare, oppure no, gli stili di leadership autenticamente attenti a valorizzare il capitale umano e il relativo empowerment.
Nel voler provare a dare concretezza a queste riflessioni, basti osservare alcuni ambiti e situazioni significative in cui è possibile cogliere ictu oculi evidenze empiriche sul punto:
A) L’esercizio dello ius variandi con riguardo alle nuove famiglie professionali .
Come si sa, all’interno dell’Area si ha equivalenza e fungibilità delle mansioni ed esigibilità delle stesse in relazione alle esigenze dell’organizzazione del lavoro.
Ai sensi dell’art. 52 del d.lgs n. 165/2001, ogni dipendente è tenuto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto e le mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento, fatte salve quelle per il cui espletamento siano richieste specifiche abilitazioni professionali. È di tutta evidenza il ruolo dirigenziale nel ricorso ad uno ius variandi fondato sulla buona fede e correttezza comportamentale. Scevro cioè da rimproveri di mobbing, straining o più in generale da condotte bloccanti, mortificanti se non addirittura discriminatorie . Perché sono proprio queste ultime che si riverberano sia sul buon clima organizzativo che sulla efficienza stessa di lavoratrici e lavoratori, finendo, a valle del sistema, per incrinare l’attrattività di una certa amministrazione e a compromettere la qualità dell’agire pubblico destinato agli utenti. Per non parlare degli eventuali danni erariali che potrebbero ricadere sulle amministrazioni interessate come la stessa Corte dei Conti ha rilevato nella sentenza del 22 novembre 2018, n. 267, più sopra citata.
B) La gestione delle progressioni con riguardo specifico alla condicio sine qua non relativa alla valutazione dei propri collaboratori. Nel rinviare alle riflessioni che si prospetteranno più avanti, qui basti considerare che proprio quest’ultima si presenta quale punto di snodo sistemico essenziale poiché dalla valutazione positiva deriva la possibilità per il personale di accedere alle progressioni.
Si tratta di leve motivazionali strategiche per la realizzazione della buona gestione, friendly come si è più sopra detto, del capitale umano. Dalla gestione con buona fede e correttezza comportamentale proprio in questo punto sistemico, deriva, come si vede, l’avanzamento professionale e la soddisfazione dei lavoratori. L’eudaimonìa di cui si è più sopra detto.
C) Il conferimento di posizioni organizzative rappresenta un altro momento di grande attrattività per il personale. Anche in questo caso vengono in rilievo momenti di avanzamento professionale che comportano la possibilità di espletare attività che, come si legge nella norma contrattuale, “richiedano lo svolgimento di compiti di maggiore responsabilità e professionalità, anche implicanti iscrizione ad albi professionali, per i quali è attribuita una specifica indennità di posizione organizzativa”.
Pure con riguardo alle aspettative di affermazione e avanzamento professionale alle dirigenze è riservato un compito gestionale di non poco momento. Le disposizioni negoziali prevedono, infatti, che “gli incarichi sono conferiti dai dirigenti con atto scritto e motivato, per un periodo non superiore a tre anni, tenendo conto dei requisiti culturali, delle attitudini e delle capacità professionali dei dipendenti in relazione alla natura ed alle caratteristiche degli incarichi affidati”.
È di immediata evidenza, quanto sia cruciale il ricorso a comportamenti corretti e improntati alla buona fede perché possa affermarsi quel clima organizzativo favorente l’attrattività di una certa amministrazione, nei termini pocanzi descritti.
Proseguendo nel ragionamento, in modo de tutto similare, è auspicabile che anche la valutazione dei responsabili di posizione organizzativa sia attuata secondo i principi di buona fede e correttezza comportamentale appena enunciati. Visto che in caso di valutazione negativa, ai sensi del comma 6 della norma de quo, è possibile procedere con la revoca dell’incarico medesimo .
D) Pure rispetto al conferimento degli incarichi delle elevate professionalità (d’ora in poi EP) - categoria di inquadramento di recente introduzione contrattuale - la gestione manageriale esprime un momento sistemico determinante per la buona riuscita del piano di investimento sulle persone voluto dalle norme di ultima generazione, di cui si è più sopra detto.
È stato il dl 80/2021 (convertito in l. 113/2021) ad introdurre il comma 1bis nell’art. 52 del d.lgs 165/2001 e a disporre che «la contrattazione collettiva individua un’ulteriore area per l’inquadramento del personale di elevata qualificazione…». Ai fini dell’accesso alla medesima, occorre il possesso dei requisiti previsti nella tabella A del contratto Ccnl ; dopo l’inquadramento, il dispiegarsi del rapporto di lavoro delle EP mima quello dirigenziale, ivi compresa la particolare dinamica correlata al conferimento degli incarichi «ad elevata autonomia e responsabilità che si configurano quale elemento sostanziale dell’appartenenza all’Area» . Va subito osservato che dall’inquadramento nella quarta Area funzionale discende un’aspettativa al conferimento dell’incarico che, come si è appena detto, esprime un elemento sostanziale dell’appartenenza all’Area de qua. Naturalmente per il conferimento dell’incarico si tiene conto delle competenze professionali possedute in relazione a quelle richieste nelle posizioni da ricoprire. Null’altro argine è previsto a questo proposito, ed è ipotizzabile che anche rispetto alle EP si possano inverare i medesimi scenari di conflittualità che hanno nel tempo caratterizzato le aspettative deluse dei dirigenti aspiranti agli incarichi più prestigiosi.
A questo si aggiunga che lo svolgimento dell’incarico è valutato con i criteri e le procedure del sistema di valutazione delle performance adottato dall’amministrazione e anche il fatto che, nel rispetto delle logiche sottese al ciclo di gestione delle performance, con cadenza annuale, ove l’attività sia stata positivamente valutata ai sensi del comma 7, è attribuita la retribuzione di risultato .
Come si vede il recente CCNL tratteggia un percorso di riconoscimento professionale che pone al centro la decisione dirigenziale. Ai dirigenti spetta, infatti, il delicato compito della valutazione. Sono cioè chiamati a maneggiare uno strumento che, se usato con cura e virtù, certamente può rivelarsi ingrediente di successo per la costruzione di un ambiente lavorativo attraente e improntato al benessere organizzativo. Viceversa può trasformarsi in una deriva per condotte mortificanti e bloccanti foriere di causali di inefficienza indiretta, nei termini più sopra descritti.
Insomma è di tutta evidenza come il potenziamento delle persone, attraverso lo sviluppo della professionalità, sempre più pretenda che le dirigenze siano predisposte a interpretare un virtuoso stile di leadership, vettore di cambiamenti e particolarmente attento alle aspettative di soddisfazione di ciascuno, anche in ragione di tutti i vincoli deducibili in modo sistematico dalle norme attualmente vigenti; prima fra tutte la garanzia del benessere di cui all’art. 7 del d.lgs 165/2001 .
La dirigenza del periodo post pandemico non è solo la dirigenza chiamata a superare la dimensione dell’amministrazione difensiva, e quindi esortata ad agire, a scommettersi – come si è sempre fatto, in verità, - ma è soprattutto la dirigenza tenuta ad aprirsi al management umanistico ovvero capace di valorizzare l’approccio proattivo nella gestione, considerando valori che vanno ben al di là della mera ricerca dell’efficienza dell’agire pubblico.
Del resto, il buon esito di una riforma non dipende tanto da un disegno intelligente o da una progettazione dall’altro sostenuta da leggi e decreti; al contrario, il successo è determinato dal sensemaking che emerge nel vissuto degli attori.
Volendo in tal modo fare riferimento a quei processi che si caratterizzano nella reazione a momenti critici e a situazioni inattese, in cui il vedere violate le proprie aspettative fa avvertire segnali che chiamano all’azione e alla riorganizzazione .
Questo appare più che mai vero dopo la scossa tellurica segnata dalla pandemia; e come si sa, più intensi sono i cambiamenti più emerge prepotente il bisogno di autentici leader .
Il dirigente-manager in questa rinnovata visione deve possedere l’abilità di influenzare e determinare un’adesione volontaria (libera) delle persone ad un progetto, in modo da rilanciarne la motivazione, cercare di costruire un ambiente di lavoro davvero attraente, deve cogliere “la mappa emotiva“ dei propri collaboratori e sviluppare questo dato prezioso per trasformarlo in interventi mirati sui singoli che possono tradursi, per esempio, in corsi di formazione, cambi di mansione, o, più banalmente, in predisposizione ad assecondare un confronto costruttivo.

4. Naturalmente il benessere, l’eudaimonìa, ovvero l’appagamento nel (e con il) lavoro, e cioè tramite l’affermazione della propria professionalità, interessano anche gli stessi dirigenti osservati dalla prospettiva di soggetti che erogano una prestazione lavorativa, anzi una performance. Questo significa che pure nella dinamica di sviluppo del lavoro dirigenziale rilevano aspirazioni e aspettative di soddisfazione professionale che, se disattese, potrebbero generare altrettanto malessere e frustrazione. L’ambito privilegiato di sperimentazione in tal senso è proprio il doppio contratto introdotto con la seconda privatizzazione del lavoro pubblico: il contratto di lavoro di base, che fa seguito alla vittoria di un concorso, sul quale si innesta il contratto di incarico di funzione dirigenziale.
Proprio quest’ultimo è da sempre luogo privilegiato per l’affermazione di sé ma anche, e per converso, scenario delle conflittualità che hanno nel tempo caratterizzato le aspettative deluse dei dirigenti aspiranti agli incarichi più prestigiosi.
Questo perché la professionalità delle dirigenze nelle variegate amministrazioni italiane si esprime soprattutto nell’esercizio della funzione dirigenziale correlata all’incarico. Sotto questo aspetto, non potendo qui ripercorrere tutte le fasi storico normative che hanno caratterizzato le ondivaghe vicende anche interpretative in materia, va almeno rammentato che, pur nell’attraversamento di ben 5 cicli di riforma, l’ultimo dei quali ancora in atto, è rimasta salda la regola costruita negli anni 1997-98 riassumibile nell’idea di non potere invocare il demansionamento tutte le volte che si ricorra al conferimento o al passaggio ad incarichi diversi e questo a fronte della precisa scelta normativa di costruire una presunzione iuris et de iure di equivalenza fra gli incarichi deducibile dalla espressa inapplicabilità dell’art. 2103 del codice civile .

5. Restano, infine, da esaminare gli strumenti di effettività sistemica ipotizzati tanto dal legislatore che dalle parti negoziali per il raggiungimento dell’obiettivo dell’affermazione professionale nei nostri apparati e cioè del potenziamento delle persone (empowerment).
Certamente ritrova centralità nel modello il ciclo di gestione delle performance e questo anche in ragione di alcune recenti riaffermazioni nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale. Ci si affida alla autenticità dei percorsi valutativi per promuovere gli avanzamenti (stipendiali e di carriera) dei lavoratori in ambito pubblico.
La valutazione delle performance appare, a maggior ragione oggi, un crocevia sistemico imprescindibile, tutte le volte che si voglia dare credibilità e slancio a questo punto nevralgico dell’intero sistema .
Va, pertanto, brevemente rammentato che, ai sensi dell’art. 23 d.lgs. 150/2009, “le progressioni economiche sono attribuite in modo selettivo, ad una quota limitata di dipendenti, in relazione allo sviluppo delle competenze professionali ed ai risultati individuali e collettivi rilevati dal sistema di valutazione”, e che, in modo del tutto sintonico, pure l’art. 52 del d.lgs. 165/2001 (novellato dal dl 80/2021) dispone come “[…]le progressioni all’interno della stessa area avvengono, con modalità stabilite dalla contrattazione collettiva, in funzione delle capacità culturali e professionali e dell’esperienza maturata e secondo principi di selettività, in funzione della qualità dell'attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l'attribuzione di fasce di merito. Fatta salva una riserva di almeno il 50 per cento delle posizioni disponibili destinata all'accesso dall'esterno, le progressioni fra le aree […] avvengono tramite procedura comparativa basata sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio, sull'assenza di provvedimenti disciplinari, sul possesso di titoli o competenze professionali ovvero di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l'accesso all'area dall'esterno, nonché' sul numero e sulla tipologia de gli incarichi rivestiti.
Le parti negoziali, dal canto loro hanno riempito di contenuti la cornice normativa, prevedendo che nell’ambito dell’area e della famiglia professionale i dipendenti possano aspirare a uno o più differenziali retributivi nel corso della propria vita lavorativa e che si debba fare ricorso ad una procedura selettiva. Fra i criteri che sorreggono tale procedura, va annoverata anche la media delle ultime tre valutazioni annuali conseguite .
Ancora più incisivo il ruolo assunto dalla valutazione rispetto alle progressioni fra le aree (verticali). Nei contratti si legge che “ai sensi dell’art. 52, comma 1-bis del D.lgs. n. 165/2001, fatta salva una riserva di almeno il 50 per cento delle posizioni disponibili destinata all’accesso dall’esterno, gli Enti disciplinano le progressioni tra le aree tramite procedura comparativa basata: 1) sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio, o comunque le ultime tre valutazioni disponibili in ordine cronologico, qualora non sia stato possibile effettuare la valutazione a causa di assenza dal servizio in relazione ad una delle annualità; 2) sull’assenza di provvedimenti disciplinari; 3) sul possesso di titoli o competenze professionali ovvero di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno; 4) sul numero e sulla tipologia degli incarichi rivestiti .
Stessa centralità della valutazione va colta nel CCNL per il comparto delle Funzioni centrali laddove si legge che “[…] fatta salva una riserva di almeno il 50 per cento delle posizioni disponibili destinata all’accesso dall’esterno, le progressioni tra un’area e quella immediatamente superiore avvengono tramite procedura comparativa basata sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio, […]” .
Come si vede una valutazione corretta, anzi onesta, costituisce la condizione giuridica necessaria per progredire e raggiungere quella soddisfazione professionale sulla quale ci si è ampiamente soffermati nei precedenti paragrafi. Basta una valutazione insincera, magari viziata da pre -giudizi personali, per togliere, come si diceva, credibilità all’intero sistema di valorizzazione delle persone nei nostri apparati.
Il ragionamento può essere percorso non solo in prospettiva bottom down, cioè avendo riguardo alla squadra che collabora il management, bensì pure con approccio bottom up, ovvero considerando le aspettative dell’affermazione di sé ipotizzabili in capo alle diverse dirigenze pubbliche. Resta, pertanto, centrale la questione, sempre attuale, dei criteri di conferimento degli incarichi di funzione dirigenziale alla quale si è più sopra fatto cenno. Pure in questo caso, come si ricorderà, alla valutazione è assegnato un ruolo centrale nell’economia del modello, visto che l’art. 19 del d.lgs 165/2001 riconduce anche “ai risultati conseguiti in precedenza nell’amministrazione di appartenenza e alla relativa valutazione” la possibilità di aspirare agli incarichi ambiti in quanto più prestigiosi .
Pure in quest’ultimo caso un modello valutativo elaborato e implementato nel rispetto dei desiderata di correttezza del legislatore potrebbe restituire effettività al modello .

6. Nessuna strategia gestionale relativa al capitale umano ha possibilità di successo senza una sapiente pianificazione. Come si è già avuto modo di osservare, è ormai evidente il bisogno di instillare la cultura della programmazione, anzi della progettazione nei nostri apparati . Programmazione e azioni di rinvigorimento delle abilità e competenze possedute rappresentano, quindi, il terreno su cui si gioca il successo e la tenuta delle recenti innovazioni normative, come del resto confermano i primi orientamenti applicativi da parte dell’Aran, nei quali si legge l’imprescindibile liaison fra le scelte organizzative e il fabbisogno di peculiari figure come le EP, cioè la pre-dirigenza di cui si è detto più sopra . Questo ha pure la funzione di stabilire chiarezza e conoscibilità dei percorsi di crescita dentro le nostre amministrazioni; e ciò pure al fine di motivare il personale.
Progressioni di carriera, posizioni organizzative, incarichi di EP, reclutamento e mobilità presuppongono, pertanto, una vision espressa da una progettazione seria, costruita ex ante ma a lunga gittata temporale . Del resto l’orientamento applicativo del dipartimento della Funzione Pubblica, elaborato in condivisone con il Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, va nella direzione per cui “[…] è importante che le “famiglie professionali” siano definite con un perimetro sufficientemente ampio, tale da ricomprendere, al loro interno, una pluralità di “posizioni di lavoro” più specifiche. In questo modo, si favoriscono i percorsi di mobilità e di sviluppo all’interno dell’organizzazione[…] . Cosicché lo sviluppo, il fiorire dell’individuo nel nuovo modello della professionalità dipende anche dalle decisioni strategiche macro e micro organizzative.
Solo la virtuosa programmazione del personale coniugata con la buona progettazione organizzativa - attraverso il PIAO e i suoi strumenti - sono in grado di proiettarsi, come output dell’intero processo, alla creazione di valore pubblico e infine al risultato dell’azione impeccabile, satisfattiva di attese e pretese della collettività degli utenti.
La migliore decisione dirigenziale, quella che può davvero fare la differenza, come si è più sopra accennato, discende pur sempre da un piano macro organizzativo in cui sia stata espressa la migliore capacità progettuale amministrativa .
Questo per alcune amministrazioni appare particolarmente vero. Basti pensare a quelle rientranti nel comparto delle funzioni locali. Ciò perché in questo ambito è responsabilità di ciascuna Amministrazione l’individuazione delle famiglie e dei profili professionali in base al proprio assetto organizzativo .

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