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 memoria del CNEL DELL'11 LUGLIO 2023

Dopo 75 anni dalla nascita della nostra Costituzione, l’Italia si trova ancora oggi con alcuni articoli della stessa rimasti inapplicati.
A una lettura combinata dei principi espressi dall’Art. 36, dall’Art. 39, dall’Art. 41 non è possibile fare a meno di constatare che lo scenario macroeconomico attuale restituisce un quadro ben lontano dalla tensione, dagli obiettivi e dal respiro insito nel dettato Costituzionale.
Un mercato del lavoro insostenibile a livello salariale per almeno 3,6 milioni di persone con salari che – come attestato dai dati OCSE - hanno visto dal 1990 al 2020 non solo una stagnazione, ma addirittura una variazione in diminuzione
(-2,90).

Da un lato, quindi, c'è un problema salariale che riguarda l'Italia fanalino di coda nelle variazioni retributive e nella crescita in Europa, dall'altro vi sono alcuni settori specifici del lavoro dove i sistemi di protezione - pensati e realizzati dal secondo dopo guerra in poi - non sono stati sufficienti o comunque non hanno tenuto alla prova del tempo. Volendosi focalizzare per ragioni di economia dei lavori sugli ultimi 20 anni, il nostro Paese è stato letteralmente travolto da enormi trasformazioni economiche e sociali e la mancata attuazione di alcune norme fondamentali della nostra Costituzione principalmente inerenti ai rapporti economici ha inevitabilmente portato a una situazione del tutto caotica.
Sebbene in Italia la contrattazione collettiva copra quasi il 97% dei settori produttivi , l'esistenza di questi contratti non ha potuto garantire salari in linea con il parametro della proporzionalità e adeguatezza stabilito dall’art. 36 della Costituzione. Molti nascondono il problema di equità sociale e legittimità dietro questo 97% di copertura contrattuale, ma i dati, i fatti e le vite di tanti lavoratori e tante lavoratrici raccontano un’altra storia.
Il dato del 97% va approfondito e interpretato perché rappresenta solo la punta di un iceberg. Da un lato, non assicura l’attualità o la validità dei contratti, dall’altro non garantisce che vi sia un salario dignitoso nei settori oggetto della copertura stessa.
L’apice del 97%, invero, nasconde tutta la dimensione concernente la densità contrattuale nonché il progressivo proliferare della contrattazione non rappresentativa.
Sarebbe stato giusto, negli anni, effettuare un intervento di sistema volto a dare attuazione alla seconda parte dell’art. 39 della Costituzione, in quanto appare di assoluta inutilità continuare a delegare ai sindacati questioni cruciali del lavoro senza aver definito una volta per tutte una legge sulla rappresentanza.
Giusto in astratto.
Poi in concreto la Storia degli ultimi 75 anni ha restituito tutt’altro.
Nonostante il salario sia il presupposto della libertà individuale e di una vita dignitosa, lo Stato non si è assunto la responsabilità di tutelare la persona con l’introduzione di una soglia di legge dovuta per efficienza di sistema ed equità. Lo chiedeva e lo chiede ancora la nostra Carta che ha ben distinto la questione salariale dalle attività sindacali e dalla relativa organizzazione.
In nome della libertà sindacale (pur necessaria) non si è mai voluta una legge sulla rappresentanza sindacale in attuazione all’art. 39 Cost. né, tantomeno, una legge sul salario minimo legale in attuazione all’art. 36 Cost.: si è preferito cavalcare la legge del più forte… In nome della libertà sindacale (pur necessaria), il legislatore del lavoro ha per anni abdicato al suo ruolo a favore delle parti sociali, delegando alle stesse ogni aspetto delle relazioni industriali. Prova ne sia, ad esempio, che il sistema di misurazione immaginato dalle parti sociali per l’industria rientra nel quadro di un assetto di relazioni industriali praticamente autodeterminato. Il sistema di relazioni industriali fondato sul Testo Unico del 2014, infatti, copre per ora soltanto 22.400 imprese, per un totale di 2,4 milioni di lavoratori da esse dipendenti; e i contratti collettivi nazionali che si collocano nel suo alveo sono solo 68, sugli oltre 900 censiti dal CNEL. -
Gli studi di settore hanno ben rappresentato lo sfilacciamento progressivo che hanno subito le rappresentanze sindacali. Secondo alcune ricerche risalenti, ma comunque paradigmatiche, già all’inizio degli anni 2000 la stessa contrattazione si caratterizzava per una scarsa densità, nonostante l’estensione della copertura contrattuale .
Sono del 4 ottobre 2023, gli “Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia” a firma CNEL. Dopo aver letto per l’ennesima volta che il problema del lavoro in Italia è questione complessa e che “occorre considerare il sistema di contrattazione collettiva non solo come una “fonte” di regolazione dei rapporti individuali di lavoro, ma soprattutto come meccanismo istituzionale di autogoverno delle dinamiche della domanda e dell’offerta di lavoro” chi scrive si chiede perché il punto di partenza di ogni discorso sul salario in Italia non sia la persona e perché siamo arrivati a questo contesto, così lontano dal quotidiano, così lontano dal Paese reale.
Il mondo del lavoro, nel tempo, si è trasformato in un mercato spesso spregiudicato che ha visto il moltiplicarsi dell’offerta contrattuale, dello shopping contrattuale e del dumping salariale che ormai affliggono il sistema delle relazioni industriali e che si ripercuotono direttamente sui lavoratori.
Emblematico, ma non isolato, è il caso del CCNL vigilanza privata e servizi fiduciari sottoscritto dalle rappresentanze sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (CGIL, CISL e UIL). Un testo che per i livelli di ingresso ha previsto per anni salari minimi orari di nemmeno 5 euro l’ora, nonostante le aziende abbiano avuto e abbiano fatturati milionari. Oltre alla miseria retributiva spettante ai lavoratori, il medesimo contratto collettivo ha atteso per oltre nove anni di essere rinnovato. Il tanto atteso e auspicato rinnovo, poi, si è risolto in una bolla di sapone con l’elargizione ai lavoratori di pochi centesimi.
Questo caso è espressione di estrema debolezza della contrattazione di settore ed attesta, senza timore di smentita, che in alcuni settori le gravi distorsioni di mercato hanno avuto il sopravvento sulla contrattazione collettiva. Il problema è che a pagarne realmente le spese sono stati e sono tutt’ora i lavoratori e le lavoratrici che sono rimasti ingabbiati nella frustrazione di un lavoro povero e mortificati nella fatica della sopravvivenza.
In tempi recenti, il settore della vigilanza privata e dei servizi fiduciari è stato oggetto di numerosi interventi della magistratura penale, amministrativa e civile. Da un lato, si è proceduto con la disapplicazione dei minimi contrattuali troppo bassi , dall’altro con il commissariamento di alcune aziende di settore . Un intervento quanto mai provvidenziale sollecitato a più riprese sia dai lavoratori (che hanno denunciato troppo spesso a titolo personale) e da una parte della politica.
“Si parla notoriamente di “lavoro povero”, ovvero di “povertà nonostante il lavoro” principalmente dovuto alla concorrenza salariale al ribasso innescata in particolare dalla molteplicità dei contratti all’interno della stessa contrattazione collettiva”.
Si ribadisce, un fenomeno che interessa oltre 3,6 milioni di persone.
Persone, non numeri.
Tale scenario a tinte fosche porta a condividere l’opinione di chi ritiene che non possono realisticamente prevedersi interventi organici sulla materia della contrattazione collettiva di tipo legislativo, quanto meno senza aver prima introdotto una normativa sul salario minimo legale.
Le case senza le fondamenta non si costruiscono e, se si costruiscono, crollano.
In questo quadro si colloca la direttiva comunitaria sui salari adeguati all’interno dell’Unione n. 2022/2041 che chiede agli Stati membri di intervenire con misure adeguate a garantire un salario minimo che vada oltre il soddisfacimento di meri bisogni essenziali, ma verso qualcosa in più che sostanzia la dignità e la libertà dell’esistenza dei lavoratori e delle lavoratrici. La direttiva non precisa il metodo da utilizzare per raggiungere tale scopo, ma lascia liberi gli Stati Membri di decidere se fissare una soglia legale o meno a seconda dei contesti e delle criticità nazionali.
Ben 22 Paesi su 27 in Europa hanno scelto di fissare una soglia di legge sotto la quale il lavoro si trasforma in sfruttamento. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei a essere sprovvisto di una normativa sul punto, insieme a Svezia, Finlandia, Danimarca e Austria. Anche Cipro l’ha introdotta a gennaio 2023.
Le resistenze culturali e politiche all'introduzione di questa misura esistono da anni, ma non sembrano trovare alcun fondamento né giuridico né fattuale o economico. Invero, se a livello giuridico “non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario nell’attuale ordinamento costituzionale (ed a maggior ragione in uno stato di mancata attuazione dell’art. 39 Cost.) , a livello economico e fattuale si fa riferimento alle esperienze virtuose che sono state fatte negli altri paesi d'Europa come ad esempio in Germania, in Inghilterra o in Francia, ma anche agli studi empirici di David Card, professore di Economia del lavoro all’Università di Berkley e vincitore del Premio Nobel per l’Economia 2021.
In forza di questi studi e di una impellente e costante spinta di una parte della politica attualmente in opposizione, si è riusciti a costruire un percorso condiviso tra le varie forze di opposizione sussunto nella proposta di legge l’A/C 1275/2023 a firma On. Giuseppe Conte. Il testo, tra le altre disposizioni, prevede che un’ora di lavoro non possa essere pagata meno di 9 euro lordi da intendersi come trattamento economico minimo, facendo salvi i trattamenti di miglior favore previsti dalla contrattazione collettiva.
La sinergia delle forze di opposizione sull'argomento ha imposto il tema del salario minimo legale nel dibattito politico nazionale suscitando un forte consenso nell'opinione pubblica. Il governo Meloni, quindi, nonostante non abbia mai nascosto la contrarietà all'introduzione di una soglia di legge, non ha potuto fare altro che far finta di affrontare la questione.
La Presidente Meloni ha, quindi, convocato i leader dell'opposizione a Palazzo Chigi e dopo averli ascoltati ha sottoposto il dossier al Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro un organo di stimolo sociale, ma anche di controllo - .
Preme segnalare sin da subito, che nel corso dei lavori parlamentari in XI Commissione sulle proposte in materia di salario minimo legale, il CNEL era già stato audito e aveva presentato una memoria in cui esprimeva contrarietà all’istituto del salario minimo .
Se è vero che l’iniziativa legislativa su materie di ordine economico sociale e l’espressione di pareri di competenza arricchiscono senz’altro il dibattito parlamentare, è altrettanto vero che, nel caso di specie, il CNEL è stato investito di un ruolo in realtà diverso. L’iniziativa legislativa, infatti, era già stata esercitata dal Parlamento, la consulenza quale organo ausiliario espressione dei corpi intermedi era già stata resa.
Sfugge, quindi, la logica con cui si è deciso di sottoporre nuovamente all'attenzione di tale organismo la questione del salario minimo legale.
A tal proposito, quanto mai attuali e lungimiranti appaiono alcuni discorsi parlamentari in occasione del dibattito in fase di introduzione della legge istitutiva del CNEL nel 1955. Nel corso di quei lavori, sebbene si apprezzasse il respiro costituzionale dell’organo - ausiliario di Parlamento e Governo - si levarono dubbi sia da destra che da sinistra sul ruolo e sulla composizione e sui poteri dello stesso perché poteva prospettarsi il pericolo di una “terza Camera” o di una “Camera economica” . Si riteneva essenziale che per ragioni di opportunità e costituzionalità l’istituto venisse concepito in termini ristretti, limitandone rigorosamente le funzioni alla legge istitutiva.
L’investitura del CNEL da parte del governo Meloni a organismo indipendente fonte di elaborazione legislativa uguale e contraria a quella della Camera dei Deputati, suscita pertanto in chi scrive un forte senso di disagio perché da un lato rappresenta una forma di prevaricazione, dall’altro a livello istituzionale, un palese conflitto di attribuzione tra poteri della Repubblica.
Paradigmatiche sono le parole del parlamentare On. Santi Fernando: “Noi temiamo che sia questo un organismo, composto in siffatto modo, al quale il Governo ricorrere per avere aiuto ed ausilio nella sua politica ed al quale domanderà quel tale parere su quella tale legge che gli farà comodo”. In sintesi, il parlamentare era convinto che tale organo avrebbe avuto senso e sarebbe stato rispettoso dello spirito della Costituzione soltanto se i suoi membri fossero stati imparziali e non nominati dal governo diversamente si sarebbero soltanto allungati i tempi della legislazione, come in effetti è avvenuto.
E’ evidente, infatti, che la natura del tutto peculiare dell’organo che è certamente tecnica, ma indubbiamente anche estremamente politica, la composizione che è in gran parte di nomina governativa e l’espressione del suo Presidente, storico e attuale esponente di un certo partito politico di maggioranza di Governo non esprimono imparzialità, ma autoreferenzialità.
Il CNEL, nel caso di specie, esprime dunque una nuova forma di ausiliarietà che non è una funzione integrativa o di supporto, ma sostitutiva dell’iniziativa parlamentare. Questo ruolo “di comodo” schiacciato sulle posizioni governative è indubbiamente ben lontano da quello spirito ispiratore dell’Art. 99 della Costituzione. S’impone, quindi, una seria riflessione sul grave precedente a cui si sta assistendo.
Sul salario minimo legale, al contrario, l’opposizione parlamentare pone una questione di civiltà ed equità che ben esprime il primato del lavoro e la tutela della libertà e della dignità umana.
Lo si può fare solo con il taglio del cuneo fiscale come a volte si sente dire? La risposta negativa è fin scontata.
Di certo una soglia salariale di protezione legale non è la misura che da sola serve per risolvere il problema del lavoro povero o del lavoro in generale ma rappresenta senz’altro una prima necessaria pietra, utile anche per definire un nuovo modo di concepire le rappresentanze sindacali tramite un intervento “di sistema” che sciolga, finalmente, almeno una parte dei nodi che la Storia ha portato al pettine.

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