TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Il documento predisposto da Carlo Pisani per stimolare la discussione sui cosiddetti indici sintomatici della subordinazione pone, tra le altre, due questioni fondamentali.

2. La prima questione riguarda la qualificazione giuridica di tali indici, e cioè se essi sono elementi costitutivi e distintivi della fattispecie lavoro subordinato, oppure “indizi” utilizzati come presunzioni semplici ex art. 2729 Cod. civ..

A mio avviso, gli indici sintomatici non possono essere ricondotti né tra gli uni né, a stretto rigore, tra gli altri. Ciò perché, anche l’ampio, e forse prevalente, orientamento che fa ricorso agli indici di cui trattasi muove dal principio che l’elemento costitutivo del contratto di lavoro subordinato (e distintivo dal contratto di lavoro autonomo) resta l’assoggettamento al potere direttivo del creditore della prestazione di lavoro. Allo stesso tempo, la stessa giurisprudenza dà atto che i singoli elementi impiegati come “indici” sono anfibologici, poiché ciascuno di essi può essere compatibile con un rapporto di lavoro autonomo.
Come possiamo, allora, spiegare e qualificare gli indici di cui trattasi?
In un solo modo: riconoscendo che essi rappresentano la soluzione “creativa” che la giurisprudenza ha apprestato (seguendo peraltro un cospicuo indirizzo dottrinale) al fine di amministrare la giustizia del caso concreto. Vale a dire, si tratta di soluzione pragmatica cui si ricorre allorché risulti difficile o impossibile provare che la prestazione di lavoro sia stata eterodiretta, ma il giudicante abbia raggiunto il convincimento della configurabilità della subordinazione in termini di “precomprensione” o sulla base di quell’“intuizione” globale propugnata dal metodo tipologico.
Da questo punto di vista, si può osservare come il ricorso agli indici sintomatici costituisca anche l’equivalente funzionale dell’altro strumento impiegato dalla giurisprudenza per dare giustizia a casi ritenuti meritevoli, ossia il ricorso alla nozione di “subordinazione attenuata”, applicata nelle ipotesi in cui la prestazione di lavoro sia caratterizzata da ampia autonomia esecutiva, come è per la prestazione dirigenziale o giornalistica.
Entrambi gli strumenti, in altri termini, sono ispirati alla medesima finalità di assicurare la tutela del lavoratore, in un’ottica di favor. E, conseguentemente, si ha ragione di ritenere che la tendenza espansiva della fattispecie della subordinazione in sede giudiziaria non vi sarebbe stata, o sarebbe stata meno marcata, ove l’ordinamento avesse provveduto, per tempo, ad apprestare appropriate forme di tutela adeguata per i rapporti di lavoro “parasubordinati”.
3. Più complessa a me pare la seconda questione, che riguarda come possa essere coordinato, dal punto di vista sistematico, l’utilizzo giurisprudenziale degli indici della subordinazione (da un lato) con le modifiche del quadro legale derivanti dall’art. 2 del d. lgs. n. 81 del 2015 e dalla nuova formulazione dell’art. 409, n. 3, Cod. proc. civ. (dall’altro).

In altri termini, l’interrogativo che si pone è: come possono “convivere”, senza “pestarsi i piedi”, l’utilizzo giudiziario degli indici sintomatici della subordinazione e l’evoluzione della “legge scritta”?

4. In effetti, il ricorso agli indici sintomatici, ancorché esso non sia mai stato così convincente , poteva essere comprensibile nel vigore dell’originario sistema codicistico, ove il confronto tra tipi legali di lavoro era limitato alla giustapposizione tra la fattispecie dell’art. 2094 Cod. civ. e quella del contratto d’opera, considerato all’epoca figura generale del lavoro autonomo. Gli artt. 2222 e segg., infatti, non assegnano alcuna rilevanza all’elemento della continuità di fatto del lavoro necessario ai fini dell’esecuzione dell’opus, e non menzionano nemmeno i poteri di istruzione da parte del committente (i quali, invece, sono espressamente previsti in alcuni dei tipi aventi disciplina “particolare” nel libro IV).

Di conseguenza, anche a causa della tendenza del giudice a ricondurre i rapporti oggetto della sua cognizione ai tipi regolati dalla legge , era naturale che i rapporti caratterizzati dalla esecuzione di lavoro protratto nel tempo, e sottoposto alle “istruzioni” del creditore, fossero ricondotti nell’ambito del tipo lavoro subordinato. E si spiega, così, anche la ragione per cui l’orientamento dei giudici è sempre stato diverso, e non ha assecondato la tendenza espansiva della subordinazione, quando essi si trovano ad esaminare fattispecie in cui il rapporto oggetto di qualificazione, ancorché caratterizzato dalla continuità di fatto e dall’assoggettamento dell’attività del lavoratore alle istruzioni del creditore della prestazione, sia riconducibile tra quelli di lavoro autonomo aventi una disciplina particolare (come, in particolare, nel caso del contratto di agenzia: art. 1742 Cod. civ.).

5. Le contraddizioni e le aporie, evidenziate da Carlo Pisani, sono, invece, emerse in modo appariscente allorché l’ordinamento ha nominato e, in parte, regolato altri rapporti di lavoro autonomo aventi caratteristiche coincidenti con gli elementi impiegati dalla giurisprudenza quali indici della subordinazione.

Ed infatti, se il riconoscimento legislativo dei rapporti di lavoro parasubordinato individua come elementi costitutivi di tale fattispecie la “collaborazione”, la “continuità”, la “coordinazione” e la (almeno prevalente) “personalità” della prestazione, riesce difficile giustificare l’utilizzo di quegli stessi elementi per desumerne la subordinazione.

Nell’ordine di menzione, infatti, la “collaborazione” è, testualmente, il medesimo termine impiegato dall’art. 2094 Cod. Civ. . La “continuità di fatto” coincide con uno degli altri indici giurisprudenziali della subordinazione. La “personalità” equivale sostanzialmente all’indice della mancanza di organizzazione imprenditoriale. Infine, e direi soprattutto, il “coordinamento” della prestazione del collaboratore implica quell’ “integrazione” nell’organizzazione aziendale che costituisce l’indice della subordinazione che riscuote maggiore fortuna nella giurisprudenza (e non solo).

Con riguardo a quest’ultimo elemento, è noto che, proprio al fine di sminuirne il rilievo sistematico, una parte della dottrina sostiene che, nei rapporti di lavoro parasubordinato, il coordinamento della prestazione è il risultato della determinazione consensuale delle parti e non dell’esercizio di un potere riconosciuto al creditore.

Ma tale tesi non è condivisibile per un triplice ordine di ragioni che qui si possono solo accennare.

Anzitutto, la categoria della parasubordinazione è stata introdotta dal legislatore assumendo come figura paradigmatica proprio il rapporto di agenzia, ossia il tipico rapporto di lavoro autonomo contraddistinto dal potere del committente di impartire istruzioni al prestatore d’opera (art. 1746 Cod. civ.). Onde la prima opzione dell’interprete non può non essere quella di ritenere che l’elemento del “coordinamento”, che caratterizza gli altri rapporti di collaborazione accostati al rapporto di agenzia, sia il risultato di un potere analogo al potere di “istruzioni” conferito al preponente .

In secondo luogo, la dottrina è unanime nel ritenere che il potere di ingerenza del creditore, ancorché non previsto espressamente dalla disciplina del contratto d’opera, è pienamente compatibile con il lavoro autonomo . Ed allora, non si vede come possa ritenersi che proprio quella specie di rapporti di lavoro autonomo costituita dai rapporti parasubordinati, che il legislatore ha voluto individuare per dotare loro di tutele ulteriori rispetto alla disciplina generale del lavoro autonomo, sia caratterizzata dall’eccezionale assenza di un potere di ingerenza da parte del creditore della prestazione.

Infine, al di là degli sforzi “creativi” di parte della dottrina (che a me pare meno attenta al testo della norma e al sistema), resta il fatto che le Sezioni Unite della Cassazione hanno ripetutamente affermato che tale potere di ingerenza è tipico dei rapporti di parasubordinazione, riconducendolo addirittura nell’ambito della “eterodirezione”, sia pure “relativa” (così le sentenze delle Sezioni Unite n. 10680 del 1994 e n. 1545 del 2017).

6. L’evoluzione normativa, che ha fatto seguito all’originario riconoscimento legislativo dei rapporti di collaborazione autonoma caratterizzati da elementi coincidenti con gli indici sintomatici della subordinazione, è una storia costellata da ulteriori contraddizioni e aporie, le quali, a loro volta, sono causate dalle incertezze che il legislatore ha avuto nel delineare le finalità dei numerosi interventi che si sono succeduti.

A tutt’oggi, infatti, l’ordinamento oscilla ancora tra due opzioni di fondo, che sono: da un lato, quella di apprestare una specifica tutela per i lavoratori che collaborano in modo coordinato e continuativo con l’impresa altrui, e, dall’altro, quella di estendere ad essi le medesime tutele della subordinazione .

E si tratta di una indecisione perniciosa, perché nessuna delle due opzioni viene perseguita con la necessaria chiarezza, così da dare luogo non solo a cambi di indirizzo nel tempo, ma anche a provvedimenti nei quali le diverse finalità si intrecciano in modo confuso, creando problemi interpretativi che qualcuno ha definito “insolubili”.

Per venire ad oggi, ci troviamo di fronte ad un quadro paradossale, per cui alla semplificazione “geometrica” dello schema binario adottato dal Codice del ’42 (art. 2094 versus art. 2222) fa ora pendant un sovraffollamento di fattispecie giuridicamente rilevanti, tale da determinare un “ingorgo” assai difficile da districare (anche perché l’“ingorgo” non è gestito dalla mano di un legislatore tecnicamente sapiente).

In particolare, a seguito del d.lgs. n. 81 del 2015 – e delle modifiche ad esso apportate con il d.l. n. 101 del 2019 – tra i due poli del lavoro subordinato e del contratto d’opera regolato dagli artt. 2222 e segg., si collocano ora una serie di fattispecie “intermedie” (chiamiamole così, per brevità espositiva), le quali danno rilievo, ciascuna, a diversi elementi compatibili con i due fondanti poli originari: dalle collaborazioni organizzate di cui primo comma dell’art. 2 del citato d.lgs. n. 81 del 2015 a quelle di cui al secondo comma dello stesso articolo; dal lavoro di consegna dei riders svolto “attraverso piattaforme anche digitali” (di cui agli artt. 47-bis e segg., del d. lgs. n. 81 del 2015) alle “redivive” collaborazioni coordinate e continuative .

Oggi, quindi, la difficoltà dell’interprete non è semplicemente quella di individuare il perimetro delle singole fattispecie, ma soprattutto, quello di individuare i rapporti reciproci in termini sistematicamente plausibili, superando le incoerenze e le aporie che il confronto tra le singole disposizioni evidenzia.

7. Di fronte alla complessità dei problemi che ne derivano, non è possibile ripercorrere qui le diverse proposte che la dottrina ha elaborato, anche sulla base di solidi apparati argomentativi. Mi limito, quindi, ad offrire la mia opinione richiamando, in termini più che sintetici, le conclusioni alle quali in altre sedi ho ritenuto si debba pervenire sulla base delle disposizioni vigenti e del sistema nel quale si inseriscono.
L’art. 2, comma 1, del d. lgs. n. 81 del 2015 non chiarisce, né estende, la fattispecie della subordinazione, bensì estende la disciplina di quest’ultima a rapporti di lavoro autonomo aventi caratteristiche parzialmente coincidenti a quelle del lavoro subordinato. La finalità del primo comma dell’art. 2, quindi, è quella di allargare i destinatari delle tutele del lavoro subordinato, al di fuori della nozione tecnico-giuridica di subordinazione, anche attraverso la semplificazione dell’onere probatorio richiesto al lavoratore per accedere a quelle tutele.
Si tratta, peraltro, di una estensione parziale , perché la disciplina delle collaborazioni organizzate prevede, nel secondo comma dell’art. 2 del d. lgs. n. 81 del 2015, che la contrattazione collettiva possa derogare alla disciplina del lavoro subordinato. Ma non è vero il reciproco, perché la disciplina del lavoro subordinato non contiene una analoga disposizione che attribuisca alla contrattazione collettiva la medesima facoltà di deroga.
Di conseguenza, il potere organizzativo cui allude l’art. 2, primo comma, del d. lgs. n. 81 del 2015, riferendolo non casualmente al “committente”, non è un sinonimo del potere direttivo del datore di lavoro, anche perché quel potere attiene esclusivamente alle modalità di esecuzione della prestazione, ed esso è, quindi, compatibile anche con il lavoro autonomo, come, per tabulas, risulta dall’art. 47-bis dello stesso d. lgs. n. 81 del 2015.
D’altro canto, il potere organizzativo che è uno dei presupposti costitutivi della fattispecie delle collaborazioni “organizzate” (unitamente alla “prevalente personalità” e alla “continuatività” delle “prestazioni di lavoro”), essendo riferito esclusivamente alle modalità di esecuzione della prestazione, non ricomprende il potere di specificare e modificare l’oggetto della prestazione di lavoro. Onde è quest’ultimo potere che è e resta l’unico elemento idoneo a differenziare il lavoro subordinato dal lavoro autonomo non imprenditoriale .
Per quanto riguarda, infine, le collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 409, n. 3, Cod. proc. civ., va preso atto della novella dell’art. 15 della legge n. 81 del 2017, ai sensi della quale il coordinamento non è più oggetto dell’esercizio di un potere del creditore della prestazione, essendo il “comune accordo delle parti” la fonte abilitata a determinare le modalità attraverso le quali il coordinamento stesso si realizza.
Ma, per le ragioni già accennate nel punto 5, è a mio avviso evidente che la novella di cui trattasi non ha natura di interpretazione autentica, essendo diversa la nozione di coordinamento che era ricavabile dalla disciplina previgente, e che effettivamente era stata ricavata dalle Sezioni Unite della Cassazione.
8. Esiste una perfetta specularità tra l’art. 2 del d. lgs. n. 81 del 2015 e il testo vigente dell’art. 409, n. 3, Cod. proc. civ.?
A mio avviso non esiste, Non esiste perché la prima disposizione è norma sostanziale, mentre la seconda è norma processuale. Quindi, in linea di principio, può essere ipotizzata la configurabilità di una collaborazione personale e continuativa che sia coordinata dal committente, senza che essa sia automaticamente riconducibile tra le collaborazioni di cui all’art. 2 del d. lgs. n. 81 del 2015.
E ciò è confermato dalle disposizioni di legge speciale, con le quali anche dopo la novellazione dell’art. 409, n. 3, Cod. proc. civ., il legislatore ha continuato a prevedere la possibilità di fare ricorso a collaborazioni (continuative e) coordinate, in cui è implicitamente consentito che il coordinamento sia realizzato dal committente .
Tuttavia, non v’è dubbio che, laddove non operino leggi speciali, la fattispecie delle collaborazioni continuative coordinate dal committente tenda, nella sostanza, a coincidere con la fattispecie delle collaborazioni “le cui modalità di esecuzione” siano “organizzate” dal committente stesso.
Ragione per cui la scelta del legislatore di fare riferimento ad un elemento (quello dell’“organizzazione”) prima mai utilizzato per individuare i modelli giuridici della prestazione di lavoro è una scelta decisamente infelice, in quanto ha indotto l’interprete ad una inutile ricerca dei tratti caratteristici di un potere (quello “organizzativo”) che non è concettualmente cosa diversa dal potere di coordinamento.

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