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Trascorsi ormai 50 anni dalla approvazione della legge n.300/1970 è doveroso fare, innanzitutto, chiarezza sulla sua paternità, da sempre attribuita a Gino Giugni. In realtà il riconoscimento è corretto nella sostanza, perché il contributo del grande giurista fu fondamentale. Tuttavia la responsabilità politica (fu lo stesso Giugni a sottolineare che «Il mio approdo alla scienza giuridica è passato per vie molto traverse») chiama in causa due personalità singolari della c.d. Prima Repubblica, ambedue ministri del Lavoro: il socialista Giacomo Brodolini e il suo successore, il democristiano Carlo Donat Cattin. Fu Brodolini ad istituire una Commissione per l’elaborazione di un testo dello Statuto affidandone la presidenza a Gino Giugni, che era a capo dell’Ufficio legislativo del Ministero. Brodolini non vide la conclusione di quel lavoro perché morì poco dopo (l’11 luglio 1969). Fu Donat Cattin (che continuò ad avvalersi della collaborazione del socialista Giugni confermandolo nell’incarico) a gestire e a portare a termine l’iter parlamentare. Il legislatore del 1970 aveva dei precisi punti di riferimento: sul piano internazionale poteva avvalersi della legislazione del new deal rooseveltiano (la celebre legge Wagner del 1935), che era alla base della formazione culturale di Gino Giugni. Decisivo fu l’impulso della contrattazione collettiva: lo storico rinnovo del contratto dei metalmeccanici del 1969 aveva già anticipato taluni diritti sindacali, destinati poi a trovare sanzione nella legge n. 300/1970. L’impostazione dello Statuto merita di essere sottolineata per la sua novità nell’ordinamento giuridico del nostro Paese. Non solo e non tanto per il rapporto che si istituiva tra una contrattazione di natura privatistica e la legislazione (c’era già stata la legge n.604 del 1966 che aveva recepito l’accordo interconfederale sui licenziamento stipulato l’anno precedente); quanto piuttosto per la scelta – questo fu un punto controverso nel dibattito della sinistra - di attribuire la titolarità dei diritti sindacali e del loro esercizio all’organizzazione esterna al posto di lavoro, legittimata da un dato di fatto: essere maggiormente rappresentativa in conseguenza di una vera e propria tautologia (appartenere al club che, attraverso un reciproco riconoscimento della rappresentanza e della rappresentatività dei propri interlocutori, stipulava i contratti di lavoro). Del resto, diversamente da altre situazioni che prendevano a riferimento i lavoratori nell’unità produttiva (come, ad esempio, gli accordi di Grenelle, tra governo e sindacati che misero una lapide sul ‘’maggio’’ francese nel 1968) la linea del padronato in quegli anni era ostile a riconoscere un ruolo del sindacato sul posto di lavoro, contrapponendogli la funzione delle Commissioni interne, lo storico organismo di rappresentanza di tutti i lavoratori (privo del potere negoziale ma limitato ad intervenire sulla corretta applicazione dei contratti nazionali). Ecco quindi una delle principali innovazioni introdotte dallo Statuto: il carattere di legislazione di sostegno al sindacato per l’esercizio della sua funzione (si pensi soltanto a quanto previsto dall’articolo 28). In questo modo, attraverso la legge n.300, l’ordinamento sindacale, cresciuto e sviluppato al di fuori di quanto prevedeva l’articolo 39 Cost., acquisiva un organico profilo giuridico, assurgeva ad un vero e proprio sistema di relazioni industriali sorretto da una legge che legittimava i principi sui quali il sistema stesso si era affermato: il reciproco riconoscimento e la libertà di associazione. Questa architettura istituzionale è stata destabilizzata dal referendum del 1995 sull’articolo 19 dello Statuto che ha messo in crisi il presupposto della maggiore rappresentativa su cui si basava il sistema. Da allora l’ordinamento non è stato in grado di ritrovare un assetto altrettanto stabile. Ma questo è tutto un altro problema.
2. Si è riflettuto poco, in questi decenni, sul rapporto tra lo Statuto e l’economia. Eppure, qui sta il motivo della crisi di una legge che parla un linguaggio di un’altra epoca, ragiona di un mondo del lavoro che ha conosciuto una profonda trasformazione rispetto ai tempi in cui, con la retorica di quegli anni grondanti lotte operaie, lo Statuto fu definito addirittura un <atto di imperio> del sindacato dei Consigli. Nella struttura produttiva era netto il predominio della grande impresa, che finiva per riassumere in sé il paradigma del lavoro dipendente. C’erano anche le aziende medie e piccole, ma non erano considerate protagoniste della storia (anche se la loro esclusione dalle norme dello Statuto costituì uno dei motivi per cui si astenne nel voto finale il Pci). Nel 1971 gli occupati in aziende industriali (in senso stretto) fino a 15 dipendenti erano più di 1,7 milioni; già nel 2001 (trent’anni dopo), 2,9 milioni (il 43% di tutti gli addetti al settore). Oggi, la legislazione di allora finisce per riguardare solo una parte – ancora importante – di un mondo del lavoro che si è profondamente articolato e diversificato. La questione di quali nuove regole non riguarda solo – come spesso si crede - il caso, assai diffuso, del lavoro quasi-subordinato, atipico, “grigio”, cresciuto negli ultimi anni, a ridosso delle leggi che hanno modernizzato, nell’ultimo decennio il mercato del lavoro. Anche il lavoro subordinato si è trasformato in conseguenza dei radicali mutamenti che hanno interessato, in questi trent’anni, la struttura produttiva e dei servizi. Ci aiuta a comprendere i fenomeni intervenuti uno studio a suo tempo condotto sui dati dei censimenti. Nel periodo 1971-2001, le imprese con meno di 50 addetti hanno più che compensato (con l’incremento di oltre 1,50 milioni di nuovi addetti) il crollo dell’occupazione (- 1,25 milioni, di cui un milione perduto nel Nord Ovest) nelle aziende con più di 50 addetti, con un saldo attivo di circa 250mila occupati. Ma non occorre andare indietro di cinquant’anni per scoprire modifiche clamorose nell’assetto produttivo del Paese. Dal 1991 al 2001 si è avuta un’esplosione del numero delle micro-aziende (aumentano del 51% quelle con un solo addetto, addirittura quasi raddoppiano nei servizi). Secondo il censimento del 2001, su oltre 4 milioni di imprese ben 3,68 milioni avevano meno di 5 addetti (solo poco più di tremila imprese, in Italia, avevano più di 250 occupati). Il numero medio di addetti per impresa era pari a 3,8 (9,2 nell’industria in senso stretto), con una variazione negativa del 12,9% rispetto a dieci anni prima.
3. Se siamo risaliti così indietro fino all’inizio del nuovo secolo c’è un motivo. Nell’autunno del 2001 venne presentato il Libro bianco sul mercato del lavoro a cura di una Commissione coordinata da Marco Biagi di cui facevano parte i migliori giuslavoristi, sociologi ed economisti del lavoro di quel tempo. Il documento prendeva di petto la questione dello Statuto mediante le seguenti considerazioni: ‘’A seguito dei profondi mutamenti intercorsi nell’organizzazione dei rapporti e dei mercati del lavoro, il Governo ritiene che sia ormai superato il tradizionale approccio regolatorio, che contrappone il lavoro dipendente al lavoro autonomo, il lavoro nella grande impresa al lavoro in quella minore, il lavoro tutelato al lavoro non tutelato. E’ vero piuttosto che alcuni diritti fondamentali devono trovare applicazione, al di là della loro qualificazione giuridica, a tutte le forme di lavoro rese a favore di terzi: si pensi al diritto alla tutela delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro alla tutela della libertà e della dignità del prestatore di lavoro, all’abolizione del lavoro minorile, all’eliminazione di ogni forma di discriminazione nell’accesso al lavoro, al diritto a un compenso equo, al diritto alla protezione dei dati sensibili, al diritto di libertà sindacale. E’ questo zoccolo duro e inderogabile di diritti fondamentali che deve costituire la base di un moderno “Statuto dei lavori”. Il Libro bianco proseguiva, poi, sottolineando che ‘’il riconoscimento di questi diritti fondamentali a tutti i lavoratori che svolgano prestazioni a favore di terzi (datori di lavoro, imprenditori, enti pubblici, committenti, etc.) non risponde solo ed esclusivamente a istanze di tutela della posizione contrattuale e della persona del lavoratore. E’ vero anzi che il riconoscimento di standard minimali di tutela a beneficio di tutti i lavoratori rappresenta — oggi più che nel passato — anche una garanzia dei regimi di concorrenza tra i soggetti economici, arginando forme di competizione basate su fenomeni di dumping sociale’’. Compariva poi un caveat opportuno e chiarificatore rispetto al dibattito aperto in quegli anni, quando la cultura giuridica tradizionale non riconosceva alcuna legittimità ai rapporti diversi dal lavoro standard: ‘’non si tratta di sommare al nucleo esistente delle tutele previste per il lavoro dipendente un nuovo corpo normativo a tutela dei nuovi lavori (ivi comprese le collaborazioni coordinate e continuative). Non può certo essere condiviso l’approccio – proposto senza successo nel corso della precedente legislatura – di estendere rigidamente l’area delle tutele senza prevedere alcuna forma di rimodulazione all’interno del lavoro dipendente’’. Di qui l’indicazione conclusiva: ‘’ Partendo dunque dalle regole fondamentali, applicabili a tutti i rapporti di lavoro a favore di terzi, quale che sia la qualificazione giuridica del rapporto, è poi possibile immaginare, per ulteriori istituti del diritto del lavoro, campi di applicazione sempre più circoscritti e delimitati, operando un’opportuna graduazione e diversificazione delle tutele in ragione delle materie di volta in volta considerate e non (come nel vecchio ordinamento) a seconda delle tipologie contrattuali di volta in volta considerate’’. Entrava allora, ufficialmente, sulla scena del diritto sindacale il concetto di ‘’Statuto dei lavori’’. Un concetto infervorato, in questi ultimi vent’anni, da un’attesa messianica non ancora esaudita, anche se invocata in ogni discorso dei leader sindacali, come il segretario generale della Cgil Maurizio Landini che ha ribadito lo scorso 4 maggio, con riferimento ai 50 anni della legge n.300, di ritenere necessario "un nuovo statuto per garantire a tutte le persone che lavorano, a prescindere dal rapporto di lavoro che hanno, gli stessi diritti e le stesse tutele". Ponendo così fine alla "competizione tra le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare". L’evoluzione legislativa dal Libro bianco ha seguito un altro percorso, a fronte delle difficoltà incontrate nell’ individuare un “centro” unificante sul quale poggiare un nuovo sistema di diritti e prerogative. E’ prevalsa la logica delle tutele differenziate. Il che ha lasciato il mercato del lavoro più o meno frastagliato come adesso: al vertice la parte (declinante) di classe lavoratrice coperta dalla legge n.300 (con le note gerarchie interne: impiego pubblico, dipendenti delle grandi imprese e “giù per li rami”); poi i vari gironi del lavoro ‘’atipico’’ ai quali è stata conferita una ‘’tipizzazione’’ di legge e sono stati estesi (per sottrazione) i diritti del mondo del lavoro di prima categoria, in quanto compatibili. Il tutto rischia di confermare una segmentazione dell’assetto del mercato del lavoro, senza determinare una nuova uguaglianza di base. In verità, per smontare il vecchio apparato di tutele e rifondarne uno nuovo si dovrebbe ripartire, da un lato, dalla disciplina del licenziamento, dall’altro dalle protezioni previdenziali ed assistenziali, arrivando a delineare percorsi e trattamenti il più possibile comuni ed uniformi, almeno in una prospettiva non lontana. Ma a questo scopo, diveniva necessaria una riforma dell’articolo 18 dello Statuto ovvero di quella disciplina del licenziamento individuale in cui stava la chiave di volta della riunificazione del mondo e del mercato del lavoro. Su questo aspetto cruciale – sia pure con un evidente ritardo - sono intervenute nella XVI e nella XVII Legislatura delle modifiche importanti. La legge n.92 del 2012 ha ampiamente modificato l’articolo 18 (a lungo oggetto di scontri durissimi), mentre il c.d. jobs act del 2014 e il decreto legislativo n.23 dell’anno successivo hanno introdotto una fattispecie parallela di disciplina del licenziamento individuale a valere per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi ( una tipologia peraltro già depotenziata dalla Consulta in un elemento di rilievo come la certezza dei costi gravanti sul datore di lavoro nel caso di recesso ingiustificato da un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti). Ma la quadratura del cerchio ancora non è riuscita. Sono state estese tutele importanti al lavoro autonomo e alle libere professioni, persino al lavoro atipico, ma il modello di riferimento è sempre rimasto il regime del lavoro dipendente privato (il lavoro pubblico, ad esempio, è stato escluso dall’applicazione del contratto a tutele crescenti per quanto riguarda in particolare la normativa sui licenziamenti). E’ lo stesso percorso compiuto sul versante dei diritti previdenziali: ai lavoratori autonomi e parasubordinati sono stati estesi – se ed un quanto compatibili – i diritti previsti per il lavoratore dipendente privato anche se in una prospettiva medio-lunga, l’andata a regime del calcolo contributivo completerà il processo di equiparazione dei trattamenti di tutte le tipologie di lavoro.
4. Un tentativo di varare lo Statuto dei lavori fu compiuto, in memoria di Marco Biagi caduto sul campo della modernizzazione del diritto del lavoro, dall’allora ministro Maurizio Sacconi verso la fine della XVI Legislatura. Il titolare del welfare presentò una bozza di legge delega contenente lo Statuto dei lavori. Era diffusa la consapevolezza che da quarant’anni era in vigore una legge storica (Iegge n. 300/1969) che aveva consentito l’effettivo ingresso nelle fabbriche dei diritti fondamentali della persona sanciti nella Costituzione, anche attraverso la promozione della presenza sindacale in azienda. Una legge che, tuttavia, trovava ormai applicazione per una parte (significativa ma limitata) del mondo del lavoro. Al lavoro stabile e per un’intera carriera si contrapponevano da tempo sempre più frequenti transizioni occupazionali e professionali che richiedono tutele più adeguate. I mutamenti del mondo del lavoro implicano l’insorgere di esigenze che spiazzavano un sistema di tutele ingessato – perché fatto di norme rigide sulla carta quanto ineffettive e poco adattabili alla mutevole realtà del lavoro – suggerendo l’introduzione di assetti regolatori maggiormente duttili e la definizione di diritti universali e di tutele di matrice promozionale, osteggiate dalla Cgil, della sinistra e da gran parte della cultura giuridica. D’altro canto, la linea dell’estensione tout court dei diritti sanciti dalla legge n.300 del 1970, per tener conto di un mercato del lavoro che si è concentrato in larga maggioranza nella piccola impresa, sarebbe stato un disastrato per l’economia (già oggi il nanismo della nostra struttura produttiva è causato dalla esigenza delle imprese di stare al di sotto dei limiti connessi all’applicazione dello Statuto dei lavoratori), al punto che gli italiani se ne resero conto quando, nel bel mezzo della <guerra civile> sulla revisione dell’articolo 18, fecero fallire il referendum che voleva estenderne l’applicazione a tutti i lavoratori.
5. Uno Statuto rigido, ancorato ai modelli e alle logiche di un passato che non c’è più, tradirebbe la sua funzione storica che è ancora oggi pienamente attuale: quella cioè di approntare, al di là delle tecniche e delle norme di dettaglio di volta in volta adottate, un sistema di tutele moderne e mobili tali da consentire il pieno sviluppo della persona attraverso il lavoro e nel lavoro. I tempi per discutere lo Statuto dei lavori sono dunque maturi dal momento che l’attuale sistema normativo del diritto del lavoro non soddisfa pienamente nessuna delle due parti del contratto di lavoro. Non i lavoratori che, nel complesso, si sentono oggi più insicuri e precari. Né gli imprenditori che non ritengono il quadro legale e contrattuale dei rapporti di lavoro coerente con la sfida competitiva imposta dalla globalizzazione e dai nuovi mercati. La flessibilità regolatoria è la principale caratteristica del testo presentato da Sacconi. Era questa probabilmente la chiave di volta che avrebbe potuto consentire al provvedimento di diventare finalmente legge, se il quadro politico non l’avesse soffocato nella culla. Il testo non aveva la pretesa di rinchiudere il mondo del lavoro - dominato dalle differenze - in una gabbia di regole uniformi. Si proponeva, invece, di affermare uno zoccolo di diritti universali ed inderogabili per tutte le tipologie di lavoro <economicamente> alle dipendenze e di attribuire, nel contempo, alle parti sociali la possibilità di adattare le norme alle situazioni di fatto, laddove comunemente se ne ravvissero la necessità in nome di un interesse reale dei lavoratori e delle imprese. La delega di cui all’articolo 1 del testo, in conformità agli obblighi derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, si proponeva, in primo luogo, la razionalizzazione e semplificazione del quadro legale con l’obiettivo di ridurre almeno del 50 per cento la normativa attualmente vigente frutto di una stratificazione disorganica. Ciò poteva avvenire anche mediante abrogazione delle normative risalenti nel tempo prevedendo altresì, ove opportuno, un nuovo regime di sanzioni civili, penali e amministrative.
La semplificazione del quadro legale vigente poteva essere perseguita anche attraverso la valorizzazione delle sanzioni di tipo premiale in modo da tenere conto della natura sostanziale o formale della singola violazione anche attraverso la utilizzazione di strumenti che favorissero la regolarizzazione e la eliminazione degli effetti della condotta illecita da parte dei soggetti destinatari dei provvedimenti amministrativi. Avviata la razionalizzazione e semplificazione del quadro legale la delega si proponeva di identificare nell’ambito della legislazione vigente, che viene dunque confermata, un nucleo di diritti universali e indisponibili, di rilevanza costituzionale e coerenti con la Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, applicabili a tutti i rapporti di lavoro dipendente e alle collaborazioni a progetto rese in regime di sostanziale mono-committenza. Le tutele non ricomprese nel nucleo dei diritti universali potevano essere eventualmente rimodulate e adattate, anche in chiave promozionale, alle reciproche esigenze di lavoratori e imprese attraverso un rinvio permanente alla contrattazione collettiva per la definizione di assetti di tutele variabili a livello territoriale, settoriale o aziendale anche in deroga alle norme di legge, valorizzando altresì, mediante norme promozionali e di sostegno, il ruolo e le funzioni degli organismi bilaterali. La rimodulazione delle tutele da parte della contrattazione collettiva sarebbe avvenuta, nel progetto di Sacconi, attraverso il riferimento ad alcuni indicatori dinamici come l’andamento economico dell’impresa, del territorio o del settore di riferimento con particolare riguardo alle situazioni di crisi aziendale e occupazionale, all’avvio di nuove attività, alla realizzazione di significativi investimenti e ai più generali obiettivi di incremento della competitività e di emersione del lavoro nero e irregolare. Sarebbe stato altresì possibile prendere in considerazione le caratteristiche e la tipologia del datore di lavoro e dello stesso lavoratore con specifico riferimento all’anzianità continuativa di servizio, alla professionalità o alla appartenenza a gruppi svantaggiati ai sensi della regolamentazione comunitaria di riferimento. Specifiche modulazioni erano previste anche per i contratti a contenuto formativo o di inserimento o reinserimento al lavoro, nonché in ragione delle concrete modalità di esecuzione dell’attività lavorativa con particolare riferimento alle collaborazioni coordinate e continuative rese a favore di un unico committente.
6. Quanto alle tutele sul mercato l’articolo 1 del disegno di legge – preso favorevolmente atto delle deleghe in materia di razionalizzazione degli ammortizzatori esistenti contenute nel “collegato lavoro” (legge n.183/2010) – disponeva l’estensione (su base volontaria od obbligatoria e mediante contribuzioni corrispondenti alle prestazioni) degli ammortizzatori sociali e contemplava interventi di politica attiva del lavoro coerenti con le linee guida e i principi concordati tra Governo, Regioni e parti sociali nell’accordo del 17 febbraio 2010 con particolare riferimento alla valorizzazione di percorsi formativi per competenze e in ambiente produttivo, certificabili in funzione degli esiti e programmati in coerenza con i fabbisogni professionali espressi a livello settoriale e territoriale. In un’ottica di sussidiarietà e di maggior coinvolgimento delle parti sociali, il disegno di legge (in bozza) stabiliva che tali principi potevano essere integrati da un avviso comune reso al Governo da associazioni rappresentative dei datori e prestatori di lavoro su scala nazionale entro nove mesi dalla entrata in vigore della legge. L’articolo 2 del disegno di legge conteneva alcune consuete disposizioni di ordine tecnico concernenti l’esercizio della delega di cui all’articolo 1. Era una grande sfida culturale destinata ad incontrare molti nemici; anche da settori della sinistra politica e sindacale. Così è stato.

 

 

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