Testo integrale con note e bibliografia

La necessità di una legge organica di tutela dei lavoratori risale al tormentato periodo del primo dopoguerra. Nel 1919 ne parla Filippo Turati nel suo discorso alla Camera con il quale propone di “Rifare l’Italia”. Opera in quella direzione anche Bruno Buozzi che nel 1920, dopo l’occupazione delle fabbriche, realizza con il padronato un importante contratto di lavoro per i metalmeccanici (riduzione orario di lavoro e affermazione dei diritti dei lavoratori e del sindacato) e ottiene dal Governo di Giolitti un disegno di legge sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese.
Turati e Buozzi non riescono a concretare le loro proposte. La “sinistra” è lacerata tra riformisti, massimalisti e rivoluzionari. Prevalgono le parole d’ordine “Fare la rivoluzione; costruire i Soviet; fare come in Russia”. Il sindacato è diviso addirittura tra quattro Confederazioni: la CGdL, l’USI, la UIdL e la CIL. Il riformismo è sconfitto. Inizia la cupa stagione del fascismo.
La caduta di Mussolini il 24 luglio 1943 vede la rinascita del sindacato in Italia. Bruno Buozzi, già segretario generale della CGdL prima dell’avvento del fascismo viene nominato dal Governo Badoglio commissario delle disciolte organizzazioni corporative fasciste. Prende i contatti con Achille Grandi e Giuseppe di Vittorio per ricostruire il sindacato e, come primo atto, stipula un accordo con gli imprenditori per eleggere le Commissioni Interne in tutte le fabbriche per sostituire i “fiduciari fascisti” (accordo del 2 settembre 1943 tra Bruno Buozzi, Giovanni Roveda e Gioacchino Quarello per i lavoratori con Giuseppe Mazzini e Fabio Friggeri per gli imprenditori).
I lavoratori nel 1945 e nel 1948 sottoscrivono, nei limiti del possibile, prima i titoli pubblici che il Governo Parri emette per finanziare il Fondo per la Liberazione del Paese e poi quelli presentati dal Governo De Gasperi che emette titoli di stato per la Ricostruzione.
Dopo la rottura nel 1948 dell’unità sindacale, riprende il dibattito per realizzare, in coerenza con i principi della Costituzione, norme atte a garantire la dignità, la libertà e la sicurezza dei lavoratori sul posto di lavoro.
Ne parlano in maniera organica Giuseppe Di Vittorio e Fernando Santi nel 1952 al Congresso della CGIL a Napoli (“il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che questi diritti vengano rispettati da tutti e in primo luogo dal padrone”).
Nel 1955 con la legge 96 si istituisce la Commissione Parlamentare di inchiesta sulle condizioni dei lavoratori presieduta dall’On. Leopoldo Rubinacci. Si conclude con la richiesta di realizzare una legislazione di applicazione dei diritti costituzionali nei luoghi di lavoro e la regolamentazione legislativa delle Commissioni Interne.
Il tema torna di attualità con il centrosinistra. Nenni pone ad Aldo Moro nel 1963, tra le condizioni del Psi per procedere alla realizzazione del Governo organico di centrosinistra, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori.
Nel frattempo si riapre nel sindacato il discorso sull’autonomia e sulla unità del sindacato.
La ricostruzione del Paese è avvenuta con una grande crescita economica.
Il miracolo economico ha determinato molte diseguaglianze e i prezzi pagati dai lavoratori sono stati enormi.
Gli anni del secondo dopoguerra hanno registrato nelle fabbriche e nelle campagne innumerevoli discriminazioni che, impedendo l'esercizio delle libertà sindacali nei posti di lavoro, hanno costretto i lavoratori alla soggezione e alla assoluta subordinazione nei confronti degli imprenditori (allora si chiamavano non a caso "padroni").
Oggi si è perso o si è affievolito il ricordo di quegli anni terribili che avevano viste ignorate le norme costituzionali..
È interessante qualche testimonianza in quegli anni bui. Dopo l'autunno caldo i magistrati di Torino vennero casualmente in possesso degli archivi informativi della FIAT, che contenevano le schede dei dipendenti elaborate con la collaborazione degli organi istituzionali dello Stato. Nel corso del processo a Napoli che coinvolse molti dirigenti della FIAT con l'accusa di spionaggio, i dati dell'archivio furono desecretati. Ecco alcune schede (dal 1952 al 1970) che fanno capire quale fosse il clima che si respirava nelle fabbriche:
- F.A. (1952) (…) impiegata Fiat Mirafiori (…) simpatizza per il Pci (…) risulta che all'atto del matrimonio era in stato di avanzata gravidanza (…) Seria onesta di comune intelligenza e di buoni sentimenti. Però arrogante e piena di alterigia (…) I famigliari sono tutti di idee estremiste più o meno moderate (…) di sentimenti poco religiosi, tanto è vero che la sera del 31 maggio 1950, durante il passaggio della Madonna Pellegrina (che avviene ogni secolo) si rifiutarono di partecipare con gli altri inquilini all'illuminazione dello stabile. Consta inoltre che al nonno materno (…) venne fatta sepoltura civile con conseguente cremazione.
- G.A. (1955) La suocera è donna di pessima moralità, vive saltuariamente presso la figlia o presso un amante, elemento di cattiva condotta, in un paese del Vercellese. -
- F.R. (1968) già di tendenza socialista nenniana (…) in questi ultimi tempi, almeno nelle manifestazioni apparenti, appare ravveduto e propende per il socialismo democratico saragattiano; si è anche riavvicinato alla chiesa, alcuni però lo ritengono opportunista e sono convinti che nutra tuttora sentimenti socialisti (…). Nel 1968 è ritenuto orientato verso il Psu, già Psi.
- F.V. (1968) reputazione pessima; trattasi di capellone, di elemento che esige vivere indipendente e non offre sufficienti garanzie per una eventuale assunzione presso azienda meccanizzata (…) non consta si sia interessato di politica apertamente, ma è ritenuto simpatizzante Pci.
L.M. (1970) sua madre è passata a seconde nozze nel luglio scorso; durante la vedovanza ha lasciato a desiderare per la condotta morale e civile ed ha avuto anche un aborto.
- R.A (1970) giovane seria, riservata, volenterosa, di facile comando e amante dell'ordine.
- B.M. (1969) donna riservata e volenterosa, disciplinata, docile al lavoro.
Don Milani, il mitico parroco di Barbiana, in quegli anni ebbe a dire, ammonendo il mondo imprenditoriale: “Per un operaio il licenziamento è come la pena di morte; pensa ai suoi figli, quando lui torna a casa e gli dice che da domani si deve tirare la cinghia; dovrebbe essere vietato licenziare, anche per una mancanza grave; puoi dargli una multa, sospenderlo, ma il lavoro non glielo puoi togliere. Mai”.
L’evoluzione dello scenario politico e sindacale cambia nel 1968 con la contestazione dei giovani e continua nel 1969 nelle fabbriche e nel Paese con l’autunno caldo. Le riforme del centro sinistra avevano dovuto fare i conti con la linea Carli Colombo e con il “tintinnio delle spade” di cui parlò nei suoi diari Pietro Nenni nel 1966.
Vengono ottenuti però dei primi risultati. Il 15 luglio 1966 il Parlamento approva la legge 604 sui licenziamenti che prevede la giusta causa e l’obbligo di indennizzo monetario, non quello della riassunzione in caso di licenziamento ingiustificato. Si riapre con il centro sinistra il discorso sull’unità sindacale tra CGIL, CISL e UIL. I rapporti di forza cambiano. Il sindacato unito diviene più forte.
La vera svolta avviene con Giacomo Brodolini. Divenuto Ministro del Lavoro il 12 dicembre 1969, promuove una vasta attività legislativa in materia previdenziale e sindacale. Decide di porre con forza il problema dell’attuazione dello Statuto dei Lavoratori. Ad Avola il 2 dicembre 1968 c’era stato lo sciopero generale dei braccianti che contestavano la divisione della provincia in due gabbie salariali: Zona A “agrumeto” per sette ore e mezzo paga giornaliera 3480 lire; Zona B “ortofrutta” paga 3110 lire per otto ore di lavoro. La polizia spara. Uccide due braccianti. Molti i feriti. A Roma viene una delegazione di sindacalisti di Siracusa. Portano al Ministro del Lavoro un canestro ricolmo di bossoli sparati dalla polizia ad altezza d’uomo con i mitra e le rivoltelle.
Brodolini va ad Avola. Ecco cosa dice:
“Nella realizzazione del programma di governo, io desidero in primo luogo ribadire l’impegno di attuazione dello Statuto dei lavoratori e cioè di una politica legislativa per i lavoratori che si deve articolare in una serie di leggi. Si tratta in primo luogo di riconoscere uno statuto al sindacato nell’impresa quale normale e necessario interlocutore della parte imprenditoriale. Saranno predisposte norme dirette a facilitare la contrattazione collettiva e la soluzione delle vertenze perché non debba ripetersi quanto è avvenuto ad Avola; saranno inoltre garantiti e tutelati i diritti della personalità del lavoratore nei posti di lavoro. Si intende rendere effettiva la tutela dei diritti dei lavoratori promuovendo anche un sistema di giustizia del lavoro rispondente alle esigenze di giustizia di un paese civile. Sarà prevista una adeguata tutela delle categorie sottoprotette specialmente necessaria nei settori nei quali la difesa sindacale è più debole. Si procederà ad adeguare il sistema di formazione professionale oggi vigente alle esigenze di una politica attiva della mano d’opera inserita nel più generale contesto di una politica di piano. […] Vogliamo che il sangue di lavoratori come Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona non abbia più a scorrere come conseguenza di conflitti di lavoro. Assumo dinanzi a tutti solennemente l’impegno di fare, con netta determinazione, quanto possibile fare per affermare in modo profondo i valori della giustizia e della libertà nei rapporti di lavoro e nelle condizioni dei lavoratori“.
È giusto e corretto rivalutare storicamente il centrosinistra degli anni sessanta. È stata quella una stagione di grandi riforme, di grande cambiamento. Si parlava meno di riformismo, ma si facevano sul serio le riforme. Se si paragona il centrosinistra degli anni sessanta con l'esangue centrosinistra della seconda repubblica, si constata che allora si fece del vero riformismo. La stagione degli anni sessanta - ricorda Gaetano Arfè - appare ora, nel confronto, come una sorta di "biennio rosso".
Lo Statuto dei lavoratori è stato approvato con una caratteristica particolare. Ci sono stati percorsi paralleli: si discuteva in Parlamento e si negoziavano al tavolo dei rinnovi contrattuali alcune norme sullo Statuto. È una legge che si è plasmata sotto la spinta dei lavoratori. Le difficoltà tra i partiti e tra i sindacati sono state superate anticipando alcune delle conquiste più significative sui diritti e sulle libertà sindacali già nella formulazione dei nuovi contratti di lavoro. L'approvazione della legge nel maggio 1970 ha dato insomma valore di legge a molte norme che erano state anticipate nei contratti dell’autunno caldo.
Il primo contratto innovativo fu quello degli edili che in modo organico definì il complesso dei diritti e delle libertà sindacali, che via via venne esteso ai contratti conclusi successivamente (chimici, alimentaristi, tessili, metalmeccanici, etc.).
Ci fu allora una capacità straordinaria di adattamento ad una società profondamente cambiata. Ci si rese conto che la società era diventata più complessa e che non era più possibile governarla in modo autoritario. Erano mutati i punti di riferimento che per lungo tempo erano stati i cardini centrali del Paese: le imprese, le famiglie, gli individui. Tutto cambiò. Fu un vero e proprio terremoto che sconvolse, dopo il miracolo economico, la geografia politica e sociale. Ci si rese conto che la Costituzione che aveva normato in maniera perentoria come diritti dei lavoratori quelli della libertà e quelli della dignità doveva entrare anche nelle fabbriche, nei posti di lavoro. Il sindacato rimise in discussione se stesso. Realizzò con le incompatibilità tra incarichi sindacali e politici, l’autonomia; sostituì le Commissioni Interne con i Consigli di Fabbrica; sviluppò la democrazia superando la divisione tra iscritti e non iscritti; cambiò i gruppi dirigenti. Si aprì alla società e accompagnò la lotta per i contratti con la battaglia per le riforme.
L'andamento della discussione sullo Statuto nel dibattito parlamentare era pieno di contraddizioni, di "stop and go": si trascinò per tutta la durata dei Governi di centrosinistra. Le ostilità venivano dal mondo delle imprese; le difficoltà, in particolare, venivano dal PCI che aveva la convinzione che lo Statuto dei lavoratori dovesse affermare nella stessa maniera anche i diritti dei partiti sul posto di lavoro. Ci si convinse alla fine che fosse sufficiente consentire l'esercizio delle libertà sindacali per garantire l'autonomia e l'unità del sindacato: fu decisiva per questa soluzione la spinta che si era determinata durante i rinnovi contrattuali con le lotte dei lavoratori.
Ancora alcune osservazioni e alcuni ricordi. Giacomo Brodolini è stato un protagonista straordinario della svolta di civiltà nei rapporti di lavoro. Il mondo politico e il governo nelle sue diverse articolazioni, erano profondamente divisi e non riuscivano a fare scelte precise e determinate. In una prima fase storica il governo era stato "super partes", interveniva e mediava tra le parti; in un secondo momento il governo fu di parte. Giacomo Brodolini e poi Carlo Donat Cattin non esitarono a dire, come Ministri del Lavoro, di essere da una sola parte: quella dei lavoratori. Giacomo Brodolini assunse degli atteggiamenti significativi: siglò l'accordo per l'eliminazione delle zone salariali, fu solidale passando il Natale a Via Veneto con i lavoratori della Apollon, una fabbrica occupata, per impedirne la chiusura.
Una critica abusata è quella di affermare che lo Statuto è contro gli imprenditori, perchè favorisce le spinte alla conflittualità e all'antagonismo. Non è così. Ricordo, più per la storia che per la cronaca, che Giacomo Brodolini era preoccupato che nello Statuto ci fossero spunti per introdurre elementi di anarchia, di liberismo selvaggio, di individualismo sfrenato. Gino Giugni ricorda che Giacomo Brodolini, poco prima della sua prematura scomparsa, gli aveva raccomandato di seguire attentamente il dibattito in Parlamento con queste parole: "io non voglio che lo Statuto dei lavoratori diventi lo Statuto dei lavativi". Anche Carlo Donat Cattin seguì la stessa linea. Ebbe una posizione dura rispetto alle intransigenze, alla miopia del mondo imprenditoriale, ma non dette alla legge un significato punitivo di rivalsa. Lo Statuto dei lavoratori per lui significò la realizzazione dell'uguaglianza dei diritti, la valorizzazione dei rapporti tra le parti.
In particolare Carlo Donat Cattin così commentò l’approvazione definitiva dello Statuto dei lavoratori il 20 maggio 1970 (fu approvato poco prima della strage alla Banca dell’Agricoltura a Piazza Fontana a Milano; il testo era quello licenziato al Senato il 12 dicembre 1969 senza nuovi emendamenti; votarono sì tutti i partiti; si astenne il PCI, il PSIUP, La Sinistra Indipendente e il MSI): “Questa esperienza ci ha portati, attraverso una fase di discussione e di elaborazione, a concepire la teoria della legislazione di sostegno: cioè non di una legislazione ordinativa del sindacato, la quale desse al potere politico la facoltà di ingerirsi nell’ordinamento del sindacato, ma di una legislazione che attribuisse al sindacato dei lavoratori determinate libertà, determinati poteri, determinate facoltà. Questo disegno di legge si inquadra in una legislazione di sostegno del sindacato, ma include anche altre norme che, oltre al sindacato come tale, tendono a garantire diritti e libertà ai singoli lavoratori. Nel dedicare questa legge all’amico Brodolini, io non compio alcun gesto retorico; penso che tutti vogliamo riconoscere in lui un combattente leale, così come tutti coloro che, anche se da posizioni diverse, hanno voluto questa legge, per la causa dei lavoratori, che è una delle cause di giustizia e di libertà combattute nei cento anni di vita del nostro paese.
Ritengo che, nel dedicare all’onorevole Brodolini e a tutti coloro che hanno pagato un prezzo più o meno alto per l’affermazione dei diritti di libertà e di democrazia che il movimento operaio ha portato avanti, noi non ci soffermeremo tanto sulle manchevolezze e sulle deficienze di questo disegno di legge, quanto sulla volontà di compiere questa svolta effettiva, non sul piano delle ricerche di collaborazione e di comprensione, ma piuttosto sul piano di una affermazione dura e precisa dei diritti dei lavoratori che, come cittadini, partecipano alla costruzione di una repubblica fondata sul lavoro e vogliono che sia riconosciuta la possibilità di organizzazione e di manifestazione dei loro interessi, che essi sanno, autonomamente inquadrare nel contesto degli interessi nazionali e che, attraverso questo strumento legislativo, vengono sostenuti senza alcuna briglia per l’affermazione di queste esigenze e di questi ideali”.
Lo Statuto dei lavoratori è una legge riformista. Ha una sua coerenza e senz'altro può e deve essere migliorata e completata. È una legge che risolve dei problemi e ne lascia aperti altri, in particolare quelli della rappresentanza e della partecipazione dei lavoratori.
Sono convinto che la morte prematura di Giacomo Brodolini abbia impedito di definire gli aspetti della partecipazione dei lavoratori, del ruolo del sindacato a garanzia dei diritti di libertà per essere esercitati. Se Giacomo Brodolini avesse potuto continuare ad essere il Ministro del Lavoro, sicuramente avremmo visto completato lo Statuto. Giacomo Brodolini risentiva fortemente della esperienza avuta come sindacalista nell'edilizia e ricordava come in quella categoria si erano realizzate delle interessanti soluzioni di collaborazione tra imprese e lavoratori. Erano gli enti bilaterali: le Casse Edili e le Scuole Professionali. Lo Statuto approda nel nostro paese, lo dobbiamo riconoscere, tardi, molto tardi rispetto a quello che era stato lo sviluppo dell'industria nella fase del cosiddetto miracolo economico. Lo Statuto è approvato in un contesto storico ove la società era concentrata sulla produzione di massa dei beni materiali. Ora è aperto il problema di una autoriforma perché l'Italia è caratterizzata dalla produzione di massa di beni immateriali. La centralità operaia che era l'elemento determinante dell'azione politica e sindacale degli anni sessanta e degli anni settanta, è stata messa in discussione dalla grande trasformazione dei processi produttivi. È entrata in crisi per motivi tecnologici: la necessità di un cambiamento è motivata non dalla politica ma dalla tecnologia. C'è stata una pigrizia, un ritardo, non solo del sindacato ma anche dei partiti politici.
Un sociologo, Domenico De Masi, ha ricordato che il 1970 è stato l'anno della lotta di classe; il 1980 è stato l'anno dei contrasti tra gli innovatori tecnologici e i conservatori tecnologici; gli anni del secondo millennio sono gli anni degli scontri tra i creativi ed i burocrati. La società industriale ha dato luogo alla società post industriale. La sinistra politica e sociale del nostro paese ha il problema di superare ogni forma di immobilismo per fare un salto qualitativo. Nel modo di parlare, si è abituati ad affermare "bisogna difendere i lavoratori"; si usa e si abusa per tutte le scelte di politica sindacale del termine "difendere".
Penso che così facendo si finisca per rimanere immobili, si diventi anzi conservatori. Oggi difendere non è più sufficiente. Dobbiamo valorizzare il lavoro, la professionalità, il merito, l'impegno, la dignità della persona.
Ancora alcune osservazioni. C'è stata una fase nella quale lo Statuto dei lavoratori era basato sulla convivenza tra conflittualità e garantismo. Oggi i tempi sono maturi per introdurre con decisione e realizzare con convinzione la democrazia industriale. La rappresentanza, che è l'altro problema irrisolto, non deve essere vista come un modo per regolare i rapporti tra le Confederazioni. Io mi ricordo che si usava dire una volta, quando si affrontavano questi problemi, "noi dobbiamo avere la rappresentanza": si deve parlare dei lavoratori, si deve comunicare ai lavoratori ma soprattutto si deve decidere con i lavoratori. La definizione della rappresentanza non può essere una specie di regolamento dei conti tra CGIL, CISL, UIL, per verificare chi ha più iscritti o chi prende più voti. La rappresentanza è qualcosa di più preciso.
Il sindacato è in grado di rappresentare ancora le professionalità? E’ in grado di rappresentare ancora assieme gli anziani e i giovani? E’ in grado di rappresentare i lavoratori indipendentemente dal fatto che siano al Nord o a Sud? E’ in grado di avere questa capacità rappresentativa generale? Oggi anche il mondo imprenditoriale stenta ad aver una posizione comune nella Confindustria. Vi convivono, è vero, piccole e grandi aziende, industrie private e a partecipazione pubblica, attività manifatturiere e di servizi. Ma c’è una lenta, costante, inesorabile fuga delle multinazionali e delle nuove imprese.
Il mondo del lavoro è notevolmente cambiato. Nel mondo del lavoro nel 1969, l'80% erano operai di livello basso e braccianti, appena il 20% erano impiegati. Oggi non c'è più omogeneità sociale e professionale. La centralità della classe operaia è scomparsa: la possiamo ritrovare solo nelle biblioteche, e la possiamo rivedere solo nelle cineteche che custodiscono la storia del movimento operaio. Di fronte all’enorme cambiamento, di fronte alla inarrestabile frammentazione del lavoro sono necessarie nuove regole del gioco che stabiliscano senza legami e senza cedimenti per nessuno, la misura, l'estensione, i limiti della rappresentatività. Ecco, il problema da risolvere per completare lo Statuto dei lavoratori ed evitare i pericoli di riflusso e i rischi di decadimento del ruolo del sindacato. Lo Statuto ha messo fine a delle odiose discriminazioni, ha garantito una pari dignità tra lavoratori e imprenditori, ha stabilito nuove regole. Oggi lo Statuto ha bisogno di essere arricchito e ampliato. La stabilità del posto di lavoro non riusciamo più ad assicurarla con le leggi e con i regolamenti, abbiamo molti problemi da risolvere dinanzi a noi: lo sviluppo dell'economia, l'espansione della base produttiva, la finanza. Tutto è più complesso perché abbiamo bisogno di avere, di salvaguardare, di valorizzare il lavoro. Va affermato il diritto al lavoro, e non il diritto al posto di lavoro. Vanno risolti i problemi della stabilità, del controllo della finanza, delle garanzie legali e formali. In fondo la lotta per valorizzare il lavoro deve diventare qualcosa di più, il progetto del futuro. E ci deve portare a superare quella dicotomia scellerata che esiste, per cui da una parte c'è il cinismo verso le vittime della globalizzazione, dall'altra la miopia di difendere le vittime, senza pensare al futuro e al cambiamento.
Con Giacomo Brodolini, con Carlo Donat Cattin, con Gino Giugni, con Federico Mancini lo Statuto intervenne a favore del mondo del lavoro in una realtà che era profondamente cambiata e riuscì a rafforzare il ruolo dei sindacati e la dignità dei lavoratori. Oggi ci troviamo in uno scenario nuovo. Va raccolta la sfida del nuovo. Il sindacato è chiamato a volare alto per definire un progetto che ammoderni lo Statuto dei lavoratori e lo collochi in una dimensione europea.
L’Europa deve tornare ad essere sociale. Non possiamo più tollerare che il mercato, la finanza, la globalizzazione siano diventati il pilastro dell’Europa: la persona non è più un soggetto ma un oggetto; è un numero semplicemente per le statistiche.
La diseguaglianza non è più solo quella salariale. Oggi c’è crescente la diseguaglianza sull’accesso alla conoscenza. Pochi sono padroni del sapere, molti sono invece coloro che non sanno. L’Europa con l’Euro ha eliminato la flessibilità dei cambi monetari e l’ha sostituita con la svalutazione del lavoro (precarietà invece di flessibilità, nomadismo invece di mobilità).
Penso anche ad una idea forse utopica. E cioè che sarebbe opportuno iniziare a riflettere su uno Statuto che abbia una valenza europea. .
L’Europa zoppica perché non ha un’unità né fiscale né sociale. E così nel nostro continente ci sono i paradisi fiscali e il dumping sociale. In molti dei ventisette paesi che compongono l’Unione non ci sono i diritti che sopravvivono in Italia grazie allo Statuto dei lavoratori. Ciò permette a molte imprese di delocalizzare la produzione dove il sindacato è più debole; i contratti non hanno il peso che hanno qui da noi; le leggi di tutela dei lavoratori e dell’ambiente sono blande. Il nuovo Presidente della Confindustria Carlo Bonomi chiede di favorire la contrattazione aziendale e ignorare i contratti nazionali. I sindacati rispondono che invece i contratti nazionali vanno mantenuti. Io sostengo che bisogna iniziare a immaginare dei contratti e delle regole che valgano a livello europeo. Mi rendo conto di quanto sia faticoso avviare questo percorso, ma non lo possiamo più eludere. Altrimenti in Europa continuerà a esserci il dumping sociale. Ed è proprio questo elemento che da noi, come altrove, fa arretrare i lavoratori sul piano dei diritti e delle tutele. Non mi convincono le posizioni di chi sostiene che le aziende italiane non possono ricevere aiuti pubblici se hanno la sede all’estero. Ci troviamo in una fase storica in cui dire “prima l’Italia” non porta lontani. Quello che bisogna dire è: prima l’Europa. Ma un’Europa unita su tutti i piani. E per quello che riguarda il mondo del lavoro e il fisco è urgente varare una serie di regole che valgano per tutti i Paesi dell’Unione. Regole che non permettano più il verificarsi del dumping sociale. Regole che non consentano più di avere dei paradisi fiscali.

 

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