testo integrale con note e bibliografia

1. Il superamento del reddito di cittadinanza

Il d.l. 4 maggio 2023, n. 48, conv. con modif. dalla l. 3 luglio 2023, n. 85, introduce, agli artt. 1-13, due nuove misure di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, destinate a sostituirsi al reddito e alla pensione di cittadinanza (d’ora in poi, RdC e PdC) . La necessità di rimediare alle criticità sottese soprattutto al RdC, ascrivibili in larga parte al suo carattere bivalente (o, se si preferisce, compromissorio) e alla scarsa effettività dei percorsi di attivazione lavorativa dei percettori , sono alla base della riforma e, in particolare, della scelta di disarticolare la struttura unitaria dell’istituto (rinunciando così anche alla sua dimensione universalistica), per ripartirne le principali finalità su strumenti distinti: da un lato, l’Assegno di inclusione (artt. 1-11), in vigore a partire dal 1° gennaio 2024, che mantiene le sembianze di un reddito minimo garantito, benché assai più circoscritto del RdC; dall’altro, il Supporto per la Formazione e il Lavoro (art. 12), in vigore dal 1° settembre 2023, che rappresenta invece una misura di politica attiva, volta dunque a favorire l’inserimento lavorativo dei suoi beneficiari e verso la quale confluirà una quota consistente di ex percettori del RdC .
La ratio ispiratrice di tale intervento, per vero già evidente in controluce nella trama delle modifiche frettolosamente apportate dalla l. 29 dicembre 2022, n. 197 (legge di bilancio per il 2023) , non è soltanto quella – espressa – di conferire maggiore organicità alle misure di sostegno alla povertà e di inclusione attiva, ma è anche di ridefinire la platea di destinatari, rimodulando l’intensità della protezione sociale sulla base di criteri selettivi differenziati in ragione della abilità/idoneità al lavoro e dell’età anagrafica dei potenziali percettori. In questo senso, non è perciò tanto la condizione di occupabilità del soggetto ad acquisire valore discretivo ai fini dell’ammissione all’una o all’altra misura, quanto piuttosto la presenza o l’assenza, all’interno del nucleo familiare, di un componente appartenente ad una delle “fasce deboli” individuate dall’art. 1, d.l. n. 48/2023. È, infatti, tale elemento – e non già la mera collocabilità nel mercato del potenziale beneficiario – che ora influenza e diversifica la natura (AdI vs. SuFoL) e il grado (reddito minimo vs. indennità di partecipazione) della tutela assistenziale accordata dall’ordinamento a chi sia privo dei mezzi necessari per vivere . Il che, naturalmente, non incide sulla vocazione marcatamente work-oriented di tali misure né vale a marginalizzare la centralità della dimensione lavoristica, che in generale risulta anzi rafforzata nella direzione di una maggiore responsabilizzazione dei soggetti svantaggiati ma in grado di lavorare. Ai fini della disciplina applicabile, però, l’occupabilità del percettore – che è comunque cosa diversa dalla tensione al lavoro sottesa ad entrambe le misure, sia pure con sfumature diverse – non configura in sé il vaglio di accesso all’una o all’altra forma di tutela, ma incide semmai sul quantum della protezione accordabile al nucleo o all’individuo in condizione di povertà. Tanto che, qualora il soggetto sia in grado di lavorare, sia esso beneficiario di AdI o di SuFoL, è in ogni caso il lavoro a rappresentare il mezzo privilegiato e preferito dal legislatore per favorire l’affrancamento dalla condizione di svantaggio.
A fronte di tali premesse, per meglio apprezzarne la portata e le implicazioni, ma anche per verificare se e come i due istituti di più recente introduzione assicurino il raggiungimento di quello che dovrebbe rappresentare il loro obiettivo principale, il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, è dunque opportuno soffermarsi più diffusamente sulle disposizioni del d.l. n. 48/2023 che compongono la disciplina dell’AdI e del SuFol .

2. L’Assegno di inclusione: definizione e beneficiari (artt. 1 e 2, c. 1)

Muovendo dalle norme dedicate all’Assegno di Inclusione, che aprono il testo del d.l. n. 48/2023 e che vengono poi in gran parte estese anche al SuFoL, in forza dei rimandi interni all’art. 12, a venire in rilievo è anzitutto l’articolata definizione dell’istituto. L’art. 1 contiene infatti una duplice nozione di AdI, che viene descritto ad un tempo come “misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro” (c. 1) e quale “misura di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale, condizionata alla prova dei mezzi e all’adesione a un percorso personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa” (c. 2). Se ciò, da un lato, ne conferma la vocazione polifunzionale (al pari del RdC), dall’altro spinge però a interrogarsi sulle ragioni di una doppia definizione e, dunque, sul rapporto che intercorre tra i due commi. In proposito, utili spunti derivano dal confronto tra tale disposizione e quella prevista dall’art. 1, c. 1, d.l. n. 4/2019, in relazione al RdC, dal quale paiono emergere almeno due profili di novità: il primo concerne la mancata qualificazione dell’AdI in termini di livello essenziale delle prestazioni; il secondo attiene alla diversa posizione, nell’ambito dell’art. 1, d.l. n. 48/2023, delle politiche attive, che da elemento qualificante la prestazione di sostegno al reddito diverrebbero uno degli strumenti attraverso cui perseguire le finalità sottese alla misura.
Invero, si tratta di differenze più apparenti che reali, a partire dalle quali è tuttavia possibile provare a tracciare un distinguo all’interno della duplice definizione di AdI offerta dal legislatore. Pur se poco rilevante sul piano degli effetti, il fatto che esso sia identificato come “misura nazionale” e non come “livello essenziale delle prestazioni”, la cui riproposizione sarebbe risultata in tal caso una mera superfetazione, induce a ritenere che il primo comma vada interpretato alla luce dell’art. 117 Cost. e, più precisamente, del riparto di competenze previsto dal c. 2, lett. m), e dal c. 4, in relazione alla materia dell’assistenza sociale. Del resto, anche per il RdC, la qualificazione in termini di “livello essenziale delle prestazioni” era funzionale ad attrarre la misura nell’ambito della competenza statale esclusiva, garantendo così un trattamento nazionale in materia di contrasto alla povertà .
Al contrario, il secondo comma allude alla natura dell’istituto e, dunque, alle caratteristiche dello schema di reddito minimo adottato in sostituzione del RdC per proteggere le “fasce deboli”, segnando così in modo marcato il confine tra AdI e SuFoL. Sotto questo profilo, peraltro, la qualificazione quale “misura di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale […] condizionata all’adesione a un percorso personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa” pare immediatamente sdrammatizzare anche il “declassamento” delle politiche attive all’interno del comma 1, allineando di fatto la disposizione a quella prevista dall’art. 1, c. 1, d.l. n. 4/2019 e, dunque, confermando la polivalenza dell’istituto, sia pure in forma più tenue.
Come si è anticipato, la distanza tra AdI e SuFoL è segnata essenzialmente dalle caratteristiche soggettive dei beneficiari, che rimandano a quelle già impiegate dalla l. n. 197/2022 per contenere la durata del RdC. Il riferimento alle “fasce deboli”, contenuto al c. 1, viene infatti meglio declinato dal successivo art. 2, ai sensi del quale l’AdI è riconosciuto “a garanzia delle necessità di inclusione dei componenti di nuclei familiari con disabilità […], nonché dei componenti minorenni o con almeno sessant’anni di età ovvero dei componenti in condizioni di svantaggio e inseriti in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari territoriali certificati dalla pubblica amministrazione” . L’assenza nel nucleo familiare di simili condizioni di svantaggio, che si aggiungono a quelle di tipo economico, preclude pertanto l’accesso a tale forma di sostegno assistenziale. Da ciò sembra uscire rafforzata l’idea che uno degli obiettivi sottesi alla riforma sia ridurre il bacino dei potenziali fruitori del reddito minimo. Un’impressione, questa, che non pare smentita neppure dalla scelta di riservare il SuFoL a quanti, privati del Rdc, non maturino i requisiti per accedere all’AdI ovvero di ridurre il requisito minimo della residenza (v. par. 2.1.). In questo senso, il fatto che il totale dei potenziali beneficiari delle nuove misure non sia significativamente diverso da quello dei percettori di RdC può essere utile a dimostrare l’invarianza quantitativa del livello di copertura garantito dai nuovi istituti , ma nulla dice dell’arretramento qualitativo importato dal SuFoL rispetto alla tutela assicurata dall’AdI (e prima dal RdC). Se, da un lato, alla base di tale opzione regolativa vi è senz’altro l’intento di limitare l’intervento assistenziale ai soli nuclei familiari ad alto rischio di marginalità sociale e di evitare il reiterarsi degli abusi derivati da regole più generose, dall’altro occorre interrogarsi sulla ragionevolezza dei criteri impiegati per fondare il distinguo tra i due istituti di più recente introduzione, ma anche sulla sufficienza e la gradualità dei livelli di protezione accordati a parità di bisogni socialmente rilevanti.

2.1. I requisiti soggettivi di accesso (art. 2, c. 2, lett. a)

Il criterio selettivo di cui all’art. 2, c. 1, si affianca poi ad altri requisiti di natura soggettiva e oggettiva, che filtrano l’accesso all’AdI. I nuclei familiari individuati dal primo comma, al momento della presentazione della richiesta e per tutta la durata del sussidio, devono infatti risultare anzitutto in possesso di precisi requisiti di cittadinanza, di residenza e di soggiorno. In particolare, ai sensi dell’art. 2, c. 1, lett. a), il richiedente deve essere cittadino dell’Unione europea (o suo familiare che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente) ovvero cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo, ovvero titolare dello status di protezione internazionale ex d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251. Sotto questo profilo, rispetto alla disciplina del Rdc, le modifiche apportate non paiono di particolare rilievo. Per un verso, il riferimento alla cittadinanza italiana, che qui manca, può dirsi comunque attratto nel più ampio requisito della cittadinanza europea; per altro verso, i titolari di protezione internazionale potevano già dirsi inclusi nel campo di applicazione del RdC in forza del principio di parità di trattamento in materia di assistenza sociale e sanitaria, sancito dall’art. 27, c. 1, d.lgs. n. 251/2007 ; per altro verso ancora, pur essendo venuto meno il rinvio all’art. 2, c. 1, lett. b), d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, a tale previsione è comunque necessario richiamarsi per poter individuare la nozione di “familiare” di cui alla disposizione.
Al netto di tali ritocchi, la norma si pone perciò in linea di sostanziale continuità con quanto previsto sia dall’art. 2, c. 1, lett. a), d.l. n. 4/2019 (RdC) sia dall’art. 3, c. 1, lett. a), d.lgs. n. 147/2017 (ReI), dei quali non solo ripropone in modo pressoché analogo il contenuto, ma anche talune criticità. Tra queste, rimane problematica e continua a destare perplessità la mancata inclusione, tra i beneficiari della misura, dei titolari del cd. permesso unico di cui alla direttiva n. 2011/98/CE e di Carta Blu Ue. Se, infatti, la richiesta del permesso di soggiorno di lungo periodo può dirsi, in senso lato, l’equivalente funzionale della cittadinanza, attestando il legame del soggetto richiedente con il territorio dello Stato, ciò non sembra però sufficiente a negare l’accesso alla misura a chi possieda gli altri titoli di soggiorno poc’anzi menzionati. Tale preclusione, pur se astrattamente giustificata da esigenze di sostenibilità economica delle misure sociali , che di fatto impongono un restringimento “in entrata”, sembra contrastare non solo con l’art. 41, d.lgs. n. 286/1998 (cd. Testo Unico sull’Immigrazione), ma anche (e soprattutto) con i vincoli costituzionali e con quelli derivanti dalla normativa sovranazionale .
Ciò nondimeno, nel respingere la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’omologa disposizione del Rdc , la Corte ha a tal punto esaltato l’anima lavorista della misura, da ritenere che la contestuale presenza di un sistema di obblighi rigorosi e a forte condizionalità fosse di per sé sufficiente ad escludere la natura meramente assistenziale della prestazione e, perciò, la sua idoneità a rispondere a bisogni primari dell’individuo . A differenza di altre provvidenze sociali (ad esempio, l’assegno di natalità e l’assegno di maternità ), il Rdc non sarebbe, cioè, fondato esclusivamente sullo stato di bisogno, che, pure se esistente, verrebbe comunque in qualche modo sterilizzato dalla centralità del percorso di (re)inserimento lavorativo e dalla sua natura di politica attiva.
La tollerabilità del discrimen tra italiani e stranieri extra-Ue basato sul titolo di soggiorno deve essere, tuttavia, adeguatamente riconsiderata alla luce delle peculiari caratteristiche dell’AdI, la cui vocazione polifunzionale risulta comunque più attenuata rispetto a quella del RdC, in ragione della necessitata presenza, all’interno del nucleo familiare beneficiario, di soggetti sottratti agli obblighi di attivazione lavorativa. Il che, facendo applicazione del principio sancito dalla Consulta, dovrebbe indurre a privilegiare la funzione assistenziale e a ravvisare nel sostegno introdotto dal d.l. n. 48/2023 uno strumento diretto a soddisfare esigenze fondamentali di individui “inabili al lavoro e privi dei mezzi necessari per vivere”.
Oltre a possedere gli anzidetti requisiti di cittadinanza e soggiorno, al momento di presentazione della domanda il richiedente deve altresì essere “risiedente in Italia per almeno cinque anni, di cui gli ultimi due anni in modo continuativo”, nonché conservare, insieme a tutti i componenti del nucleo familiare computati nel parametro della scala di equivalenza di cui al successivo c. 4, la residenza in Italia per tutta la durata del beneficio.
Se, da un lato, la riduzione da 10 (per il Rdc) a 5 anni assimila il requisito residenziale a quello minimo previsto dalle norme in materia di diritto di soggiorno permanente per cittadini Ue e per i relativi familiari, dall’altro, il mantenimento del vincolo biennale continua a rappresentare un ostacolo di non poco momento per le persone senza fissa dimora, specie in tutti quei casi (non pochi) in cui venga ancora negato il riconoscimento della c.d. residenza fittizia .
Senz’altro felice è poi la scelta operata dal d.l. n. 48/2023 di introdurre taluni criteri per valutare la continuità residenziale, di cui nulla diceva invece il d.l. n. 4/2019. Ai fini dell’accesso alle misure ivi disciplinate (incluso, dunque, il SuFoL), il c. 10 dell’art. 2 stabilisce infatti che essa “si intende interrotta nelle ipotesi di assenza dal territorio italiano per un periodo pari o superiore a due mesi continuativi, ovvero nella ipotesi di assenza dal territorio italiano per un periodo pari o superiore a quattro mesi anche non continuativi nell’arco di diciotto mesi”, a meno che l’assenza dal territorio italiano sia dovuta a “gravi e documentati motivi di salute”. Ciò, però, con buona pace di altre possibili esigenze pure meritevoli di una attenuazione del vincolo qui considerato.

2.2. I requisiti oggettivi di accesso (art. 2, c. 2, lett. b)

Trattandosi di “una misura […] condizionata alla prova dei mezzi” (art. 1, c. 2), l’accertamento dello stato di bisogno è affidato a requisiti oggettivi, di carattere reddituale e patrimoniale, che devono cumularsi a quelli di cittadinanza, soggiorno e residenza descritti al paragrafo precedente. Inoltre, come già il ReI e il Rdc, anche tale prestazione viene ancorata al nucleo familiare, che include i soggetti componenti la famiglia anagrafica, ai sensi dell’art. 3, d.p.r. 5 dicembre 2013, n. 159 , e costituisce il perimetro entro il quale verificare la sussistenza dei requisiti oggettivi, dettati dall’art. 2, c. 1, lett. b), d.l. n. 48/2023. A tal fine, al pari di quanto previsto dal d.l. n. 4/2019, è richiesto un valore dell’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) inferiore a 9.360 euro e un valore del reddito familiare inferiore ad una soglia di 6.000 euro annui, moltiplicata per il corrispondente parametro della scala di equivalenza di cui al c. 4 del medesimo art. 2 (v. § 3). Tuttavia, l’incremento della soglia a 7.560 euro annui (sempre moltiplicata secondo la medesima scala di equivalenza), che nell’ambito della disciplina del RdC veniva previsto ai fini dell’accesso alla PdC, in relazione all’AdI è stato ristretto ai soli nuclei familiari composti “da persone tutte di età pari o superiore a 67 anni ovvero da persone di età pari o superiore a 67 anni e da altri familiari tutti in condizioni di disabilità grave o di non autosufficienza” . Al contempo, viene meno l’incremento di 9.360 euro previsto per il RdC nei casi in cui il nucleo familiare non abiti in una casa di proprietà, ma risieda in abitazione in locazione, che risulta in parte compensato dalla rivisitazione dei parametri della scala di equivalenza e dei criteri di definizione del quantum di beneficio economico spettante.
Dal calcolo del reddito familiare, individuato ai sensi dell’art. 4, c. 2, d.P.C.M n. 159/2013, sono escluse eventuali altre prestazioni riconosciute in caso di povertà e, pertanto, non deve essere computato “quanto percepito a titolo di Assegno di inclusione, di Reddito di cittadinanza ovvero di altre misure nazionali o regionali”. Inoltre, nel valore dei trattamenti assistenziali esclusi dal computo ai sensi dell’art. 2, c. 2, lett. b), n. 2, non rilevano le prestazioni elencate al c. 7 dello stesso art. 2, che per buona parte ricalca quanto stabilito per il RdC . In particolare, si tratta: delle “specifiche e motivate misure di sostegno economico di carattere straordinario, aggiuntive al beneficio economico dell’Assegno di inclusione, individuate nell’ambito del progetto personalizzato a valere su risorse del comune o dell’ambito territoriale” (lett. c); nonché delle “maggiorazioni compensative definite a livello regionale per le componenti espressamente definite aggiuntive al beneficio economico dell’Assegno di inclusione” (lett. d).
Da ultimo, ove all’interno del nucleo familiare ammesso all’AdI vi fossero soggetti occupabili (rectius: attivabili), l’incremento del reddito familiare dovuto all’avvio di un rapporto di lavoro subordinato ovvero – nel caso del SuFoL, cui pure è estesa tale previsione – alla partecipazione a percorsi di politica attiva per le quali è stabilita la corresponsione di indennità o benefici “comunque denominati”, non concorre alla determinazione del sussidio, entro il limite massimo di 3.000 euro lordi annui, fermo l’obbligo di comunicare all’Inps le sole somme eccedenti tale importo . Una disciplina analoga, che a sua volta ricalca quella introdotta dall’art. 3, c. 9, d.l. n. 4/2019, è altresì prevista qualora la variazione reddituale sia determinata dall’avvio di un’attività di impresa o di lavoro autonomo, svolta in forma individuale o associata .
Quanto ai requisiti patrimoniali, al netto del refuso presente nella disposizione, viene confermato un valore del patrimonio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non superiore ad una soglia di euro 30.000; mentre qualche novità è dettata in relazione al valore mobiliare, come definito ai fini ISEE, che non può superare una soglia di euro 6.000, accresciuta in ragione del numero di componenti il nucleo familiare, della presenza di disabili, di disabili gravi o non autosufficienti e, a differenza del RdC, di figli minori successivi al secondo . A ciò si aggiungono le limitazioni previste dall’art. 2, c. 2, lett. c), nn. 1 e 2, in relazione al godimento di beni durevoli “di lusso”. Nessun componente il nucleo familiare deve essere, infatti, intestatario a qualunque titolo o avere piena disponibilità di autoveicoli di cilindrata superiore a 1600 cc. o motoveicoli di cilindrata superiore a 250 cc., immatricolati per la prima volta nel triennio antecedente la richiesta, esclusi quelli per i quali è prevista una agevolazione fiscale in favore di persone con disabilità (si pensi, ad es., alla riduzione dell’Iva). Sotto questo profilo, la previsione pare meno severa di quella prevista, in relazione al Rdc, dall’art. 2, c. 1, lett. c), n. 1, d.l. n. 4/2019 che, oltre ad attribuire rilevanza anche ad autoveicoli di potenza inferiore immatricolati la prima volta nei sei mesi antecedenti la richiesta, estende a due anni l’intervallo minimo di tempo necessario per neutralizzare il rilievo della prima immatricolazione di veicoli di cilindrata superiore a quella ora richiesta per l’accesso all’AdI.
In modo quasi superfluo, se non ne fosse chiara la ratio antifraudolenta, si precisa poi che nessun componente deve risultare intestatario a qualunque titolo o avere la piena disponibilità di navi e imbarcazioni da diporto, nonché di aeromobili di ogni genere.

2.3. Preclusioni (art. 2, c. 2, lett. d), c. 3, c. 3-bis)

Benché indubbiamente collegate al discorso attorno ai requisiti soggettivi di cui si è dato conto in precedenza, per una maggiore chiarezza espositiva, meritano di essere considerate separatamente quelle ipotesi che impediscono l’accesso all’AdI in ragione di peculiari condizioni personali del richiedente. In proposito, a rilevare è anzitutto l’art. 2, c. 2, lett. d), che contiene una preclusione nei confronti del beneficiario sottoposto a misure cautelari personali o a misure di prevenzione, nonché in caso di condanne definitive o di pene adottate ai sensi dell’art. 444 c.p.p., intervenute nei dieci anni precedenti la richiesta di AdI per i delitti di cui all’art. 8, c. 3, d.l. n. 48/2023.
Sotto questo profilo, la dottrina segnala un inasprimento delle condotte penalmente rilevanti che importano il diniego del sussidio, dovuta sia alla menzione delle misure di prevenzione che, stante la mancata specificazione all’interno della norma, sembrano includere tanto quelle personali quanto quelle patrimoniali , sia in forza del rinvio al catalogo di delitti a cui consegue la decadenza dal beneficio ai sensi dell’art. 8, c. 3, che pure è stato ampliato rispetto a quello previsto dall’art. 7, c. 3, d.l. n. 4/2019, per la revoca del RdC. A questo si aggiunge la problematica equiparazione, sul piano sanzionatorio, di fattispecie di reato anche molto diverse in termini di gravità, disvalore e pericolosità sociale .
Quanto alle ricadute di tali provvedimenti sul nucleo familiare richiedente, il riferimento testuale al “beneficiario” contenuto nell’incipit della disposizione sembrerebbe escludere dal computo nella scala di equivalenza il solo componente destinatario dei provvedimenti penali citati dall’art. 2.
Una seconda ipotesi preclusiva si rinviene poi al c. 3 dell’art. 2, che estende a tutto il nucleo familiare gli effetti negativi delle dimissioni rassegnate da uno dei componenti “attivabili” ai sensi dell’art. 6, c. 4 (v. §§. 4 e 5). Tale preclusione opera per il periodo di dodici mesi successivi al recesso, con la sola eccezione delle dimissioni per giusta causa ovvero della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito della procedura di cui all’art. 7, l. n. 604/1966 . Rispetto alla disposizione in esame, a destare perplessità è in particolare la scelta di responsabilizzare l’intero gruppo familiare per un comportamento ascrivibili al solo componente dimissionario, rivivificando in tal modo una previsione originariamente pensata anche per il RdC e poi opportunamente espunta in sede di conversione del d.l. n. 4/2019.
Da ultimo, il diritto al trasferimento dell’AdI viene altresì meno nel caso in cui, nell’ambito del patto per l’inclusione ex art. 6, non sia stato documentato per i componenti minorenni l’adempimento dell’obbligo di istruzione. Alla medesima ratio risponde anche l’art. 3, c. 11, che estende ai beneficiari dell’AdI, di età compresa tra i 18 e i 29 anni, che non abbiano adempiuto all’obbligo di istruzione, l’onere di iscrizione a percorsi di istruzione per adulti o comunque funzionali all’assolvimento di tale dovere quale condizione per l’erogazione del sussidio .

3. La scala di equivalenza, il beneficio economico e le sue modalità di richiesta ed erogazione (art. 2, c. 4; e artt. 3 e 4)

Nel trattare dei requisiti oggettivi di accesso all’AdI si è detto che il valore soglia del reddito familiare, pari a 6.000 euro annui, deve essere moltiplicato per il corrispondente parametro della scala di equivalenza di cui all’art. 2, c. 4, replicando in tal modo una regola già prevista dal d.l. n. 4/2019. Senonché, rispetto al RdC, la scala di equivalenza impiegata dal d.l. n. 48/2023 per la determinazione dell’ammontare del trattamento in esame è stata largamente rivisitata dal legislatore, anche al fine di superare le criticità ravvisate in relazione alla precedente disciplina .
Nell’ambito del c.d. decreto lavoro, i coefficienti indicati per i componenti del nucleo familiare successivi al primo sono infatti numericamente di più, passando da due (per il Rdc) a sei , e risultano maggiormente diversificati in ragione delle caratteristiche soggettive di ciascun componente il nucleo familiare. A questo si aggiunge anche l’innalzamento a 2,2 dell’incremento massimo complessivo, che viene ulteriormente elevato a 2,3 in presenza di disabili gravi o di persone non autosufficienti, rimediando così ad uno dei principali difetti del d.l. n. 4/2019 . Per costoro, peraltro, è specificamente stabilito un incremento del parametro della scala di equivalenza pari a 0,50. Al contrario, rispetto alla disciplina del RdC, si riduce il parametro relativo alla presenza di figli minori (da 0,2 a 0,15) e viene meno quello di 0,4 previsto per ogni ulteriore componente maggiorenne (incluso il secondo genitore), salvo che non si tratti di persone con età pari o superiore a 60 anni ovvero con carichi di cura, per le quali è rispettivamente previsto un incremento di 0,40 .
L’esito di tali modifiche se da un lato determina un generale innalzamento in termini quantitativi del trattamento percepito dai nuclei familiari in condizioni di maggiore fragilità o svantaggio, dall’altro riduce l’ammontare della prestazione spettante alle famiglie con figli minori .
In via generale, fermo l’importo minimo mensile pari a 480 euro e la necessità di mantenere per l’intera durata del beneficio i requisiti soggetti e oggettivi richiesti, per i nuclei composti da persone di età inferiore a 67 anni, che fino al 31 dicembre 2023 percepiranno il RdC, il quantum della prestazione di sostegno al reddito è determinato in forza di regole di calcolo essenzialmente analoghe a quelle impiegate dal d.l. n. 4/2019, alle quali va aggiunto il contributo, pari ad un massimo di 3.360 euro annui, previsto in caso di residenza in una abitazione in locazione. In relazione alla medesima ipotesi, invece, è stato espunto l’innalzamento del reddito familiare a 9.360 euro ed è stata altresì (irragionevolmente) eliminata l’integrazione del reddito pari a un massimo di 1.800 euro annui per i nuclei familiari residenti in abitazioni di proprietà acquistate o costruite mediante costituzione di un mutuo.
Per quanto concerne gli attuali beneficiari di PdC, l’incremento della soglia di reddito familiare fino a 7.560 euro annui è previsto esclusivamente per i nuclei composti integralmente da persone di età pari o superiore a 67 anni ovvero da almeno un componente di 67 anni e gli altri in condizioni di disabilità grave o non autosufficienti, a cui si aggiunge una integrazione ulteriore del reddito, pari a 1.800 euro annui, qualora la residenza sia stabilita in un’abitazione in locazione. Il che, a dire il vero, se confrontato con l’importo dello stesso contributo erogato alle famiglie “meno svantaggiate” (pari a 3.360 euro annui) pare quantomeno distonico alla luce della ratio sottesa all’AdI, della quale si è dato conto in apertura.
L’AdI viene erogato, previa iscrizione presso il Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa (c.d. SIISL) , tramite uno strumento di pagamento elettronico ricaricabile (c.d. Carta di Inclusione), per il quale continuano altresì a valere le preclusioni relative a beni e servizi acquistabili .
Quanto alla durata del trattamento, che ora decorre dal mese successivo alla sottoscrizione del “patto di attivazione digitale” (c.d. PAD), esso è riconosciuto per un periodo continuativo di 18 mesi, con possibilità di rinnovo per ulteriori 12 mesi previa sospensione di un mese. Ciò che, tuttavia, non è chiaro è se la durata resti sempre pari a 12 mesi quand’anche tra un rinnovo e l’altro dovesse intercorrere un arco di tempo superiore alla sospensione ordinaria mensile del sussidio, in ragione di un auspicabile transitorio miglioramento delle condizioni reddituali del nucleo familiare .

4. L’inclusione attiva (artt. 4, 5 e 6)

Il rilievo assegnato alle condizioni soggettive di fragilità e di svantaggio interne al nucleo familiare percettore dell’AdI determinano un “fisiologico” arretramento della finalità di politica attiva e, dunque, una significativa attenuazione degli obblighi di attivazione dei suoi beneficiari, che permangono infatti in capo ai soli componenti giudicati “abili/idonei al lavoro” (impropriamente noti come occupabili). In relazione ai beneficiari di AdI, l’obiettivo di affrancamento dalla povertà è perseguito prevalentemente attraverso misure e percorsi di inclusione sociale, come denota il fatto che gli oneri di attivazione dei beneficiari prendono avvio all’esito di una “valutazione multidimensionale dei bisogni del nucleo familiare”, che compete ai servizi sociali ed è finalizzata alla definizione del patto per l’inclusione . È poi nell’ambito di tale procedura che vengono individuati i soggetti, di età compresa tra 18 e 59 anni, attivabili al lavoro e tenuti agli obblighi previsti dall’art. 6, c. 4, da avviare presso i servizi per l’impiego o i soggetti accreditati ai servizi per il lavoro per la sottoscrizione anche del servizio personalizzato . In particolare, si tratta dei “maggiorenni, che esercitano la responsabilità genitoriale, non già occupati e non frequentanti un regolare corso di studi, e che non abbiano carichi di cura” . Tralasciando la dubbia fattura di tale previsione, si ritiene comunque di poter condividere la lettura razionalizzante del dettato normativo, proposta in dottrina, che interpreta in modo disgiunto i singoli requisiti ivi stabiliti, evitando le paradossali esclusioni che senz’altro deriverebbero se le condizioni descritte fossero intese cumulativamente (si pensi, ad esempio, ai c.d. Neet) . Ciò su cui, tuttavia, non si concorda è l’individuazione dei maggiorenni come categoria a sé stante, dovendosi piuttosto ritenere – con tutte le complessità di una norma scritta male – che, ferma in ogni caso l’esimente dei carichi di cura ex c. 5, i componenti assoggettati “all’obbligo di adesione, alla partecipazione attiva a tutte le attività formative, di lavoro, nonché di politica attiva, comunque denominate, individuate nel progetto di inclusione sociale e lavorativa” siano: a) i maggiorenni che esercitano la responsabilità genitoriale, nonché b) i maggiorenni non già occupati e non frequentanti un regolare corso di studi. In questi casi, dunque, anche laddove non fossero computabili nella scala di equivalenza per la determinazione del beneficio, i componenti del nucleo familiare con tali caratteristiche sono chiamati a sottoscrivere il patto di servizio personalizzato .
Più precisamente, l’attivazione dei nuclei familiari beneficiari di AdI è avviata con la stipulazione del patto di attivazione digitale, da cui deriva l’obbligo di adesione ad un percorso personalizzato di inclusione sociale e lavorativa (ove possibile) . Siffatto percorso, in particolare, è attuato per mezzo della piattaforma informatica SIISL, attraverso l’invio automatico dei dati del nucleo familiare al servizio sociale territorialmente competente per la presa in carico dei componenti e l’analisi multidimensionale dei bisogni complessi, affidata ad una équipe multidisciplinare e finalizzata alla sottoscrizione di un patto per l’inclusione, cui far seguire l’attivazione dei sostegni eventualmente necessari . Di qui, il dovere dei beneficiari di presentarsi per il primo appuntamento presso i servizi sociali entro 120 giorni dalla sottoscrizione del patto di attivazione digitale e poi, successivamente, ogni 90 giorni per l’aggiornamento della posizione individuale, pena la sospensione del beneficio economico . Una disposizione analoga è altresì prevista nei riguardi dei componenti attivabili al lavoro, ai quali è richiesto di sottoscrivere il patto di servizio personalizzato ex art. 20, d.lgs. n. 150/2015 entro 60 giorni dall’avvio presso i centri per l’impiego o gli altri enti accreditati e, in seguito, di presentarsi ogni 90 giorni presso gli stessi per le medesime finalità e con le medesime conseguenze in caso di inadempimento .
Il percorso personalizzato di attivazione e inclusione lavorativa viene, dunque, definito dagli enti competenti nell’ambito di uno o più progetti finalizzati a identificare i bisogni del nucleo familiare nel suo complesso e dei singoli componenti . In coerenza con il perseguimento di tale obiettivo, l’avvio al centro per l’impiego (o enti accreditati) del componente attivabile può essere modificato e adeguato in base alle concrete esigenze di inclusione sociale o lavorative e di formazione dell’interessato . Inoltre, sempre nell’ottica di una maggiore e migliore personalizzazione delle iniziative, è parimenti previsto che la stipulazione del patto di servizio possa determinare l’adesione ai percorsi formativi dal c.d. Programma GOL, di cui alla Missione M5 del PNRR .
Da ultimo, ai beneficiari di AdI di età compresa tra 18 e 29 anni, che non abbiano adempiuto all’obbligo di istruzione, è esteso l’onere di iscrizione a percorsi di istruzione per gli adulti o comunque funzionali all’assolvimento di tale dovere, quale condizione per l’erogazione del sussidio, nonché causa di decadenza in caso di sua violazione . Il che è coerente anche con quanto previsto dall’art. 2, c. 3-bis, il quale, come si ricorderà, preclude il diritto al trasferimento dell’AdI quando non sia documentato, nell’ambito del patto per l’inclusione, l’adempimento dell’obbligo di istruzione per i componenti minorenni del nucleo familiare.

5. L’inserimento lavorativo e le caratteristiche dell’offerta di lavoro (art. 9)

Pur se già parzialmente anticipata dalle modifiche, assai rigorose, imposte ai percettori di RdC dalla l. n. 197/2022, una delle principali innovazioni apportate dal d.l. n. 48/2023 concerne la complessiva rivisitazione dei criteri utili a definire l’offerta di lavoro e della condizionalità . A regolare tale profilo di disciplina è l’art. 9 del d.l. n. 48/2023, che si rivolge ai percettori di AdI attivabili ed è poi richiamato ed esteso dall’art. 12, c. 10, anche ai destinatari del SuFoL . In forza di tale disposizione, dunque, il beneficiario dell’una o dell’altra misura è tenuto ad accettare un’offerta di lavoro relativa a: 1) un contratto a tempo indeterminato senza limiti di distanza nell’ambito del territorio nazionale; 2) un rapporto di lavoro a tempo pieno o a tempo parziale non inferiore al 60% dell’orario normale di lavoro; 3) un contratto di lavoro che preveda una retribuzione non inferiore ai minimi tabellari previsti dai contratti collettivi di cui all’art. 51, d.lgs. n. 81/2015; 4) un contratto a tempo determinato, anche in somministrazione, qualora il luogo di lavoro non disti più di 80 km dal domicilio del percettore o sia raggiungibile entro 120 minuti con i mezzi di trasporto pubblico.
Ferma la decadenza al primo rifiuto, la severità di tale impianto normativo si attenua solo se nel nucleo familiare sono presenti figli di età inferiore a 14 anni. In questo caso, infatti, l’obbligo di accettare un’offerta di lavoro a tempo indeterminato non è esteso a tutto il territorio nazionale, ma è contenuto entro una distanza dal domicilio pari a 80 km o comunque percorribile al massimo in 120 minuti con i mezzi di trasporto pubblico .
Ciò che più colpisce della rinnovata disciplina è, oltre al marginale rilievo assegnato alla distanza tra il domicilio e il luogo di lavoro e alla dilatazione dei tempi di percorrenza (da 100 a 120 minuti), il venir meno della soglia minima di durata dei contratti a tempo determinato (3 mesi per i percettori di RdC), nonché del rapporto percentuale tra il quantum del trattamento e l’importo minimo della retribuzione conseguibile attraverso il contratto di lavoro (per il RdC pari al 10%). Inoltre, desta perplessità, specie con riferimento alle caratteristiche dei nuclei beneficiari di AdI, la scelta di non tenere in alcun modo conto della presenza di persone con disabilità gravi o non autosufficienti, estendendo anche in tal caso l’obbligo di accettare un’offerta di lavoro a tempo pieno e indeterminato su tutto il territorio nazionale. A rafforzare tali perplessità, è anche a fortiori la scelta di non riproporre la previsione dettata dall’art. 4, c. 10, d.l. n. 4/2019, per i beneficiari di RdC, che garantiva la conservazione del sussidio economico in caso di accettazione di un’offerta di lavoro congrua collocata oltre 250 km di distanza dalla residenza “a titolo di compensazione per le spese di trasferimento sostenute, per i successivi tre mesi dall’inizio del nuovo impiego, incrementati a dodici mesi nel caso siano presenti componenti di minore età ovvero componenti con disabilità”.
Se, poi, la ratio di tale estesa mobilità territoriale è davvero quella di favorire una migrazione interna, spingendo l’eccesso di offerta di lavoro presente in alcune aree del Paese verso quella caratterizzate da una maggiore domanda , non si può fare a meno di rilevare come questo obiettivo “occulto” – oltre a sottendere una concezione piuttosto meccanica del mercato del lavoro – pecchi quantomeno di ingenuità. Sotto questo profilo, tale proposito sembra non tenere conto di almeno tre elementi: in primo luogo, delle inefficienze ancora esistenti nel sistema di servizi per l’impiego e delle difficoltà di presa in carico di tali soggetti, dovute anche alla loro distanza dal mercato del lavoro; in secondo luogo, e per conseguenza, della probabile difficoltà per gli enti territorialmente competenti di reperire offerte lavorative a livello nazionale ; infine, della maggiore appetibilità del lavoro nero o irregolare rispetto al trasferimento in altro luogo.
Merita, poi, di essere considerato quanto stabilito al secondo comma della disposizione che prevede la sospensione d’ufficio del trattamento quando il percettore accetti un contratto di lavoro di durata compresa tra uno e sei mesi. Alla cessazione del rapporto il beneficio continua ad essere erogato per il periodo residuo di fruizione e quanto percepito non si computa ai fini del reddito necessario a mantenere il beneficio .
Al di là della sua difficile interpretazione, dovuta alla formulazione tutt’altro che lineare, con tale previsione “incentivante” il legislatore tenta di intercettare quelle offerte di lavoro di brevissima durata che, come tali, è assai probabile che sfuggano al controllo pubblico mediato dalla piattaforma digitale di scambio tra domanda e offerta di lavoro. In questo modo, cioè, si supera il meccanismo scarsamente effettivo (anche perché eccessivamente responsabilizzante) sotteso all’art. 4, c. 9-ter, d.l. n. 4/2019, che onera i datori di lavoro privati a comunicare al centro per l’impiego territorialmente competente il rifiuto dell’offerta di lavoro congrua da parte dei beneficiari, “anche ai fini della decadenza”.
Vi è poi almeno un ultimo aspetto che, nell’economia di tale contributo, merita di essere segnalato e attiene alla mancata valorizzazione delle possibili esperienze maturate, delle inclinazioni personali e delle eventuali competenze professionali possedute dai percettori. Tale impressione non solo è confermata dalla scarsa attenzione a qualsiasi parametro di “qualità” dell’offerta di lavoro, ma non pare smentita neppure dall’art. 5, c. 2, ove la considerazione “delle esperienze educative e formative e delle competenze professionali pregresse del beneficiario” è con buona probabilità cedevole o secondaria perché inevitabilmente subordinata “alla disponibilità di offerte di lavoro, di corsi di formazione, di progetti utili alla collettività, di tirocini e di altri interventi di politica attiva”.

6. Il Supporto per la Formazione e il Lavoro (art. 12)

Come si è detto, nell’impianto del d.l. n. 48/2023 a differenziare il grado di protezione sociale contro la povertà sono le caratteristiche soggettive di svantaggio di cui è portatore il nucleo familiare richiedente. In assenza di componenti fragili (disabili o non autosufficienti, minori, ultrassessantenni), quindi, la condizione di bisogno dà ora accesso al (mero) Supporto per la Formazione e il Lavoro, una misura diversa dal reddito minimo garantito inverato dall’AdI, e di natura personale, essendo riconosciuta direttamente al singolo individuo e non alla famiglia. A testimoniare la distinta funzione rispetto all’AdI è pure l’espressa incompatibilità del SuFoL con il RdC, la Pensione di cittadinanza “e ogni altro strumento pubblico di integrazione o di sostegno al reddito per la disoccupazione” .
Tale misura può essere altresì fruita dai componenti dei nuclei familiari percettori di AdI, che decidano di partecipare “ai percorsi di formazione, di qualificazione e riqualificazione professionale, di orientamento, di accompagnamento al lavoro e di politiche attive comunque denominate”, pur senza essere vincolati dagli obblighi di attivazione di cui all’art. 6, c. 4, e purché non siano computati nella scala di equivalenza .
Differenti sono pure i requisiti per poterne godere: i potenziali beneficiari sono, infatti, i componenti dei nuclei familiari di età compresa tra i 18 e i 59 anni, con un valore dell’ISEE familiare non superiore a 6.000 euro annui da moltiplicare per il corrispondente parametro della scala di equivalenza . Sono, invece, estesi anche al SuFoL i requisiti soggettivi di cittadinanza, soggiorno e residenza e quelli patrimoniali e reddituali dettati dall’art. 2, d.l. n. 48/2023 (con la sola eccezione della soglia massima di ISEE familiare), nonché le preclusioni connesse alla sussistenza di provvedimenti penali, alle dimissioni volontarie intervenute nei 12 mesi antecedenti la richiesta e al mancato assolvimento del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione .
Per poter accedere al beneficio è, inoltre, previsto che il richiedente, in sede di sottoscrizione del patto di servizio personalizzato, dimostri con idonea documentazione di essersi rivolto ad almeno tre agenzie per il lavoro o enti autorizzati all’attività di intermediazione, quale misura di attivazione al lavoro . Al beneficiario di SuFoL è altresì consentito individuare autonomamente i progetti di formazione, di orientamento e accompagnamento al lavoro, ai quali essere ammesso, dandone poi comunicazione attraverso la piattaforma SIISL. In questo modo, il beneficiario è fortemente responsabilizzato nel suo “percorso di occupabilità”, sebbene nulla si dica circa la adeguatezza e la conformità delle scelte operate dal singolo rispetto agli impegni assunti con il patto di servizio .
Sul piano economico, il diritto a percepire il sussidio sorge unicamente a seguito della stipulazione del patto di servizio attraverso la piattaforma SIISL e soprattutto della partecipazione (attiva) alle iniziative di attivazione al lavoro ovvero a progetti utili alla collettività (tra cui anche il servizio civile universale ex d.lgs. n. 40/2017), per un periodo massimo di dodici mesi (esaurito il quale non è rinnovabile) e per un importo fisso pari a 350 euro mensili, privo peraltro del contributo ulteriore in caso di residenza in un’abitazione in locazione.
Le perplessità sollevate da tale misura sono molteplici. Tra queste, oltre alla già criticata scelta di graduare l’intensità dell’assetto protettivo in ragione della condizione di presunta occupabilità (rectius: abilità/idoneità al lavoro) dell’individuo, a sua volta basata sul mero dato anagrafico, se ne può segnalare l’inadeguatezza sul piano economico, specie se si considera che la misura si rivolge a persone potenzialmente più indigenti, essendo l’accesso al supporto condizionato da un valore dell’ISEE familiare più basso di quello richiesto per l’AdI; nonché la tutela indifferenziata accordata a soggetti con caratteristiche ed esigenze di vita profondamente diverse in ragione della fascia anagrafica di appartenenza.
Inoltre, la forte responsabilizzazione del beneficiario rischia di incentivare comportamenti opportunistici dei singoli, che vengono tentati ad aderire a qualsivoglia iniziativa formativa pur di ricevere l’indennità di partecipazione, senza tuttavia preoccuparsi di maturare le competenze necessarie per entrare e auspicabilmente rimanere in via stabile nel mercato (tale dovrebbe essere, almeno sulla carta, l’obiettivo del progetto normativo). Peraltro, a determinare questo rischio è proprio l’alterazione (o inversione) del rapporto “classico” tra politica attiva e sostegno al reddito e, quindi, la stessa logica sottesa al trattamento economico .
La condizionalità della misura, che è comune a quella prevista per i percettori di AdI attivabili, in relazione al SuFoL si rivela poi assai più severa e penalizzante: da un lato, perché la mera disponibilità al lavoro non è di per sé sufficiente ai fini dell’accesso alla protezione sociale (e quindi al sussidio), essendo necessario un comportamento proattivo e operoso del potenziale beneficiario; dall’altro lato, perché finisce per scaricare sull’interessato le disfunzioni del sistema di servizi per l’impiego, ancora fortemente differenziati su base territoriale in termini di efficienza e di risultati .
Le ravvisate criticità inducono, pertanto, a meditare sulla compatibilità di tale assetto regolativo con le fonti costituzionali e sovranazionali , nonché sull’allineamento del nostro sistema di protezione sociale con le esperienze dei principali paesi europei.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.