testo integrale con note e bibliografia

1. La disciplina generale del rapporto di impiego pubblico «contrattualizzato».

Il D. Lgs. n. 165/2001 contiene la disciplina generale del rapporto di lavoro che si svolge alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni , eccezion fatta per i rapporti di lavoro delle categorie «non contrattualizzate», indicati dall’ art. 3 del citato decreto .
A dispetto delle numerose riforme intervenute sulla relazione tra le fonti (legale-contrattuale) , la caratteristica del rapporto di impiego pubblico «privatizzato» sta nella sua «contrattualizzazione» e nella applicazione delle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del Codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa (D.Lgs. n. 165/2001, art. 2, commi 2 e 3, art. 51).
2. I poteri della Pubblica Amministrazione. Il principio di legalità.
E', invece, assoggettata alla disciplina «pubblicistica» l’attività con la quale «Le amministrazioni pubbliche definiscono, secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi, mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici; individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi; determinano le dotazioni organiche complessive» (art. 2 c. 1 del D. Lgs. n. 165/2001).
Si tratta degli atti amministrativi nei quali si compendiano le scelte organizzative discrezionali («macrorganizzazione»), nel cui quadro i rapporti di lavoro si costituiscono e si svolgono, rispetto alle quali le posizioni dei lavoratori non sono configurabili come di diritto soggettivo ma di interesse legittimo.
La Corte di cassazione ha affermato, al riguardo, che spetta alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo la controversia nella quale la contestazione investa direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo, mediante la deduzione della non conformità a legge degli atti organizzativi, con i quali le Pubbliche Amministrazioni definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici ed i modi di conferimento degli stessi.
In queste controversie, è stato osservato, il rapporto di lavoro non costituisce l'effettivo oggetto del giudizio, ma lo sfondo rilevante per qualificare la posizione soggettiva del lavoratore, in quanto gli effetti pregiudizievoli derivano direttamente dall'atto presupposto .
Le determinazioni per l'organizzazione degli uffici, vale a dire della «organizzazione esecutiva», distinta dalla cd «macrorganizzazione» , e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono, invece, assunte «in via esclusiva» dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (art. 5 c. 2. del D. Lgs. n. 165/2001, (oggetto di interventi di modifica ad opera del D. Lgs. n. 150/2009, del D. L. n. 95/2012 convertito dalla L. n. 135/2012 e dal D. Lgs. n. 165/2017), fatta salva la sola informazione ai sindacati, ove prevista nei contratti di cui all'articolo 9 (riforma «Brunetta»), ovvero le ulteriori forme di partecipazione, ove previsti nei contratti di cui all'articolo 9 (riforma «Madia»).
Nondimeno, questa attività, pur assimilata a quella del datore di lavoro «privato», deve essere svolta dalla Pubblica Amministrazione in conformità al principio di legalità, che costituisce una declinazione delle regole, di diretta derivazione costituzionale, poste dagli artt. 97, commi 1 e 2 e 81 Cost.
Questo principio risulta affermato in modo inequivoco dal D. Lgs. n. 165/2001, che all' art.8 stabilisce che le amministrazioni pubbliche sono obbligate a adottare tutte le misure affinché la spesa per il proprio personale, anche quelle concernenti il personale assunto con contratti di diritto privato , sia evidente, certa e prevedibile nella evoluzione, e, ad un tempo, stabilisce che le risorse finanziarie destinate a tale spesa sono determinate in base alle compatibilità economico-finanziarie definite nei documenti di programmazione e di bilancio.
Esso è desumibile, inoltre, dall'art. 40, comma 3 quinquies dello stesso Decreto, che sanziona espressamente con la nullità le clausole del contratto di secondo livello difformi dalle prescrizioni del contratto collettivo nazionale e che comportino la violazione di vincoli derivanti dagli strumenti di programmazione economica-finanziaria, dispone la sostituzione automatica delle disposizioni illegittime con quelle legali derogate e la conservazione del contratto in caso di nullità parziale (artt. 1339 e 1419 c.c.), impone alle Pubbliche Amministrazioni, l' obbligo di recupero nell'ambito della sessione negoziale successiva, in caso di «accertato superamento dei vincoli finanziari» .
Nullità stabilita anche dall'art. 40 bis del suddetto decreto (introdotto dall'art. 17 della l. 28 dicembre 2001 n. 448).
E' evidente che nell’ambito del lavoro pubblico privatizzato lo strumento rafforzato del carattere imperatività-inderogabilità della norma di legge- sostituzione automatica delle clausole nulle (art. 1419, c.2 cod. civ., art. 1339 cod. civ.), non costituisce una tutela del lavoratore-contraente debole (come accade nell'ambito del lavoro privato), ma rappresenta una garanzia dello spazio regolativo della legge e delle prerogative della Pubblica Amministrazione da possibili invasioni di campo da parte della contrattazione collettiva e individuale.
Gli interessi pubblici (artt. 97 e 81 Cost.) vogliono, infatti, che la Pubblica Amministrazione datrice di lavoro conformi il suo agire al principio di legalità , che non dia esecuzione ad atti nulli, che non assuma in sede conciliativa obbligazioni che contrastino con la disciplina del rapporto di lavoro dettata dal legislatore e dalla contrattazione collettiva.
Il principio di legalità, inoltre, impone alla Pubblica Amministrazione datrice di lavoro di sottrarsi unilateralmente all'adempimento delle obbligazioni che trovano titolo nell'atto illegittimo .
Con la conseguenza che, qualora il dipendente intenda reagire all'atto unilaterale adottato dalla datrice di lavoro, dovrà fare valere in giudizio il diritto soggettivo che da quell'atto è stato ingiustamente mortificato e non limitarsi a sostenere l'illegittimo esercizio di poteri di autotutela, in quanto la condotta della Pubblica Amministrazione è equiparabile a quella del contraente che non oneri le obbligazioni che trovano titolo nel contratto stipulato, ritenendolo inefficace perché affetto da nullità.
Il principio di legalità della gestione del rapporto di lavoro impone, inoltre, alla Pubblica Amministrazione di ripristinare la legalità violata mediante la ripetizione delle somme corrisposte senza titolo .
In questi casi non opera il meccanismo di recupero della spesa indebitamente sostenuta «nell’ambito della sessione negoziale successiva», previsto dal D. Lgs. n. 165/2001, art. 40, comma 3 quinquies.
Questa disposizione, infatti, pone un obbligo aggiuntivo a carico delle parti della contrattazione collettiva, che non smentisce la nullità della clausola della contrattazione che abbia violato i vincoli e i limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge e, quindi, si affianca al diritto-dovere della Pubblica Amministrazione di non erogare la retribuzione pattuita illegittimamente e di recuperare quanto già erogato in esecuzione della clausola nulla.
Il meccanismo comporta una sorta di collettivizzazione del danno che non può che essere ausiliaria e recessiva rispetto al doveroso recupero nei confronti di chi ha individualmente beneficiato della retribuzione indebita .
Deve escludersi l'illegittimità costituzionale dell'art. 2033 cod.civ., da leggersi alla luce della giurisprudenza della CEDU , posto che l'ordinamento nazionale delinea un quadro di tutele dell'affidamento legittimo sulla spettanza di una prestazione indebita, il cui fondamento va rinvenuto nella clausola generale di cui all'art. 1175 c.c. che, vincolando il creditore a esercitare la sua pretesa tenendo in debita considerazione la sfera di interessi del debitore, può determinare, in relazione alle caratteristiche del caso concreto, la temporanea inesigibilità del credito, totale o parziale, con conseguente dovere del creditore di accordare una rateizzazione del pagamento in restituzione .
3. Il ruolo della contrattazione collettiva.
I rapporti individuali di lavoro sono regolati contrattualmente, sulla base di contratti collettivi e individuali, con attribuzione ai primi del potere di determinare i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, di disciplinare le materie relative alle relazioni sindacali, e, in coerenza con il settore privato, la struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli e la durata dei contratti collettivi nazionali e integrativi (D.Lgs. n. 165/200, art. 40).
La contrattazione collettiva (alla quale fanno riferimento, tra gli altri, anche gli artt. 2, commi 2 e 3, 3, 40 e 45 del D. L.gs. n. 165), pur nei ristretti limiti in cui sono state le sue attribuzioni dal decreto legislativo n. 150/2009 e dal decreto legislativo n. 75/2017, assume, innegabilmente, un ruolo centrale nella disciplina dei rapporti di lavoro pubblico «privatizzato», come affermato dalla Corte costituzionale .
Centralità correlata all'indissolubile legame che avvince il contratto individuale e quello collettivo, vincolo che impone alle Pubbliche Amministrazioni di conformare il primo al secondo (D.lgs. n. 165/2001, art. 2 c. 3) e di garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e, comunque, trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi (D.Lgs. n.165/2001, art. 45, c.2), i quali per questa via assumono efficacia generale (erga omnes) e realizzano la garanzia della parità di trattamento.
L’attribuzione alla autonomia collettiva della funzione regolatoria è, poi, funzionale ad un incisivo controllo delle dinamiche del costo del lavoro pubblico (D.Lgs. n. 165/2001, artt. 47 e 48, 40-bis), ad una più efficiente e tendenzialmente unitaria gestione del personale nei vari settori, disciplinando i possibili percorsi di mobilità del personale (intercompartimentale, passaggio diretto tra amministrazioni diverse, gestione delle eccedenze e del personale in mobilità)» e rappresenta anche un fattore di propulsivo della produttività e del merito (D.Lgs.n.165/2001, artt. 40 c. 3-bis e 45 c. 3 D.Lgs n. 165/2001).
L'importanza cruciale della contrattazione collettiva risulta ripetutamente affermata anche dalla Corte di cassazione .
Nella materia dei trattamenti economici essa ha affermato la nullità delle pattuizioni individuali che riconoscono inquadramenti non conformi a quelli indicati dalla contrattazione collettiva , anche nei casi in cui l'obbligazione sia stata assunta in sede conciliativa .
Nella materia delle sanzioni disciplinari (cfr. più diffusamente infra. Par. n. 4) , connotata da un forte regime di inderogabilità della legge (art. 55 del Decreto), la Corte di Cassazione ha affermato che «il giudice è tenuto ad apprezzare la scala valoriale fissata dal codice disciplinare perché con la predisposizione dello stesso l'autonomia collettiva indica il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli obblighi e dei doveri che gravano sul prestatore in quel determinato contesto storico ed aziendale, con la conseguenza che da quella valutazione non si può prescindere nel riempire di contenuto la clausola generale della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo» .
I rapporti tra contrattazione collettiva nazionale e quella integrativa nel D. Lgs. n. 165/2001, sono governati dalla regola della subordinazione gerarchica di quella integrativa rispetto a quella nazionale (art. 40 coma 3- bis), la quale deve individuare materie, livelli, soggetti e procedure e finalizzazione all’implementazione dei sistemi di performance.
Al riguardo, la Corte di cassazione ha ripetutamente escluso che le Pubbliche Amministrazioni possano assumere obbligazioni in contrasto con i vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che comportino oneri non previsti negli strumenti di programmazione, con la conseguenza che le clausole difformi sono nulle e non possono essere applicate .
«Vincoli» che devono essere specifici, connessi a materie determinate e ad ambiti di disciplina espressamente esclusi dalla contrattazione collettiva integrativa e riservati alla contrattazione nazionale, che, naturalmente, non possono essere desunti da precetti a contenuto generale, come quello dell'art. 45, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, che prevede una riserva di regolamentazione collettiva nazionale per la determinazione del trattamento economico .
E' innegabile che, nel lavoro pubblico «privatizzato», il sistema della contrattazione collettiva, inteso nella sua interezza, ruoti intorno al principio della pianificazione degli oneri connessi al suo svolgersi nel tempo, secondo un modello dinamico, «in coerenza con i parametri previsti dagli strumenti di programmazione e di bilancio di cui alla L. 5 agosto 1978, n. 468, art. 1-bis e successive modificazioni e integrazioni e dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 48, comma 1» .
Nondimeno, «la proiezione dell'art. 97 Cost. sul contratto collettivo del lavoro pubblico si realizza esclusivamente per il tramite dei vincoli che le norme vigenti pongono alla capacità negoziale delle amministrazioni pubbliche» .
Il D.Lgs. n. 165/2001, art. 42 ha, infatti, garantito la tutela della libertà e dell'attività sindacale secondo le disposizioni dello Statuto dei lavoratori, prevedendo che, in ciascuna amministrazione, le organizzazioni sindacali sono ammesse alle trattative per la sottoscrizione dei contratti collettivi, possono costituire rappresentanze sindacali aziendali, e che, in ciascuna amministrazione, venga costituito un organismo di rappresentanza unitaria del personale mediante elezioni alle quali è garantita la partecipazione di tutti i lavoratori.
Se è vero che la contrattazione collettiva soggiace ai vincoli di finanza pubblica e che sono previsti specifici controlli di compatibilità anche dei costi della contrattazione integrativa (D.Lgs. n. 165/2001, art. 40 bis, art. 40, comma 3 quinquies), nondimeno nello svolgimento della loro attività sindacale, le rappresentanze dei lavoratori non sono portatrici di funzioni dirette al perseguimento dei fini e degli interessi della Pubblica Amministrazione, quanto, invece, della rappresentanza degli interessi, antagonistici a quelli datoriali, dei lavoratori da cui hanno ricevuto il mandato.
In altri termini, l'attività contrattuale collettiva è stata modellata, anche per il settore pubblico, sul paradigma di quella tipica del rapporto di lavoro privato, che vede necessariamente contrapposte le istanze rappresentate dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dalle parti datoriali.

Su questa premessa, la Corte di Cassazione ha escluso che eventuali conseguenze dannose per l’erario possano essere oggetto di responsabilità contabile a carico dei rappresentanti delle Organizzazioni Sindacali che hanno concluso accordi collettivi integrativi in contrasto con i vincoli e i limiti risultanti dai contratti collettivi nazionali o che disciplinano materie non espressamente delegate a tale livello negoziale ovvero che comportano oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione, onere gravante sulla parte pubblica datoriale e non sulle rappresentanze sindacali dei lavoratori .
3. Il principio di coordinamento con le norme della finanza pubblica.
La necessità del coordinamento della contrattazione collettiva con le esigenze della finanza pubblica è prevista dal D. Lgs. n. 165/2001 artt. 8, 40-bis, 40, c. 3-quinquies, 47 e 48, disposizioni che rappresentano la declinazione dei principi contenuti negli artt. 97 c. 1 e 81 della Costituzione.
Il tema è stato affrontato con estremo rigore dalla Corte costituzionale, la quale ha affermato che la fissazione del limite agli incrementi economici definisce il confine entro il quale può svolgersi l'attività negoziale delle parti, perché la contrattazione collettiva deve svolgersi entro i limiti generali di compatibilità con le finanze pubbliche legittimamente determinati dal legislatore .
Al principio della sostenibilità finanziaria delle spese destinate al trattamento economico dei pubblici dipendenti si è ispirata anche la giurisprudenza di legittimità.
La Suprema Corte, con orientamento ormai consolidato, ha escluso che le Pubbliche Amministrazioni possano assumere obblighi in contrasto con i vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che comportino oneri non previsti negli strumenti di programmazione, con la conseguenza che le clausole difformi devono essere ritenute nulle e non possono essere applicate .
5. L'asserita specialità del rapporto di impiego pubblico privatizzato
Come già detto, il rapporto di lavoro «privatizzato» è connotato da più fonti regolatrici in «equilibrato dosaggio» tra loro , le quali differenziano l’attività di «macrorganizzazione» e quella di «gestione dei rapporti di lavoro» delle Pubbliche Amministrazioni, secondo un differente regime di disciplina, pubblicistico quello della prima, di diritto privato quello della seconda, proprio quest'ultimo anche della regolamentazione dei rapporti di lavoro, nei quali il lavoratore «si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore» ( art.2094 cod.civ.).
Pur riferibile alla fattispecie codicistica il rapporto di lavoro pubblico «privatizzato» presenta alcuni tratti di differenziazione rispetto a quello privato, che lo rendono «speciale».
Specialità che consiste soltanto nel fatto che il datore di lavoro è una Pubblica Amministrazione, la quale è tenuta, «in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea» ad assicurare «l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico» (art. 97, comma 1 Costit.) e ad organizzare i pubblici uffici «secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione».
In questo senso e solo in questo senso, a parere di chi scrive, il rapporto di pubblico impiego «privatizzato» può dirsi «speciale» e non perché la prestazione di lavoro sia funzionale in modo diretto al perseguimento di interessi pubblici, che spetta, di contro, al datore di lavoro pubblico realizzare .
È, in altri termini, l'agire della amministrazione pubblica ad essere funzionale e vincolata, ai sensi dell'art. 97 Cost., e non libera, quale è, invece, l'attività del datore di lavoro privato (art. 41 Cost.).
Come è stato osservato, «dal punto di vista giuridico l'art. 97, comma 2, Cost. - con gli interessi pubblici che vi sono sottesi - è del tutto estraneo al profilo causale del rapporto di lavoro subordinato dei dipendenti pubblici, per questo aspetto identico a quello dei dipendenti privati e fondato sullo scambio tra prestazione di lavoro e controprestazione retributiva (necessariamente proporzionata e sufficiente)» .
La circostanza che «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione», secondo quanto stabilisce l'art. 98, coma 1 della Costituzione, può influire sulla disciplina del rapporto (ad esempio in tema di incompatibilità) ma non sulla prestazione che questi devono rendere.
La particolarità della figura del datore di lavoro, nei termini innanzi precisati, costituisce ragione della inevitabile differenza di disciplina rispetto al rapporto di lavoro «privato», pure esso sottoposto a norme di legge inderogabili da parte della negoziazione individuale e collettiva, differenza che non interferisce affatto con il profilo causale della comune fattispecie lavoro subordinato (art. 2094 cod.civ.).
La precisazione sul senso della «specialità», come innanzi ricostruita, del rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione acquisisce uno specifico rilievo nella materia delle sanzioni disciplinari.
Le modifiche apportate dal legislatore al D. Lgs. n. 165 del 2001, pur essendo incentrate, come già detto sulla sistemazione delle fonti regolative (rapporto legge-contratto collettivo), sembrano ispirate alla rivisitazione della figura lavoratore pubblico, e all'allontanamento dallo schema prestazione-controprestazione proprio dell'art. 2094 cod. civ. Rivisitazione ispirata dalla narrazione, semplificatoria e superficiale, quando non demagogica, che si fa del pubblico dipendente e delle associazioni sindacali che ne tutelano i diritti.
È accaduto, infatti, che il tema della tutela dell’etica pubblica e quello delle politiche anticorruttive, sulla cui necessità non possono nutrirsi dubbi, quando ha intercettato la disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ha provato a cambiare il contenuto della prestazione lavorativa.
Affiora, infatti, anche dalla tipizzazione legale delle fattispecie disciplinari (art. 55 quater d. lgs. n. 165 del 2001), insuperabile dalla contrattazione collettiva, l'immagine di una prestazione di lavoro eticamente ispirata e la figura di un lavoratore che torna nuovamente a differenziarsi da quella del lavoratore «privato».
Nella costruzione di questo nuovo modello di lavoratore pubblico traspare la convinzione del legislatore che, pur senza reali riforme di sistema della Pubblica Amministrazione, volte a dare efficienza agli apparati amministrativi, e che non potrebbero essere fatte a «costo zero», basti un lavoratore eticamente strutturato per assicurare trasparenza ed efficacia dell’azione amministrativa.
Se si rimette al centro dell’agire della Pubblica Amministrazione un dipendente «al servizio» dell’Amministrazione e della cittadinanza, o del «popolo», sorge, legittima, la preoccupazione che si perda la strada maestra della originaria scelta legislativa della privatizzazione «sostenibile» del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni.
Se, infatti, mutano il contenuto della prestazione lavorativa e la figura del lavoratore pubblico «privatizzato» e se la contrattazione collettiva perde il suo ruolo centrale, la disciplina del rapporto di lavoro pubblico «privatizzato» non potrà che differenziarsi rispetto a quella propria del lavoro privato.
Per chi continui a credere nella bontà dell’originario progetto di una «privatizzazione», pur sostenibile, del rapporto di impiego pubblico, la giurisprudenza di legittimità sembra dare risposte tranquillizzanti.
È rimasta isolata la pronuncia di un giudice di merito, che, equivocando evidentemente il significato dell’art. 98 della Costituzione ha affermato che per datore di lavoro doveva intendersi «non il superiore gerarchico o le articolazioni amministrative, bensì la collettività, che è onerata della retribuzione del pubblico dipendente e che ha interesse a fruire della sua prestazione lavorativa».
La Corte di cassazione ha chiarito che l’art. 98 della Costituzione mira al rafforzamento del principio di imparzialità di cui all'art. 97 Cost., sottraendo il dipendente pubblico dai condizionamenti che potrebbero derivare dall'esercizio di altre attività , per tal via mostrando di rifiutare l’idea di un “modello” di pubblico dipendente ispirato eticamente.
Non è, poi, privo di importanza il fatto che la giurisprudenza di legittimità ha esteso al rapporto di impiego pubblico privatizzato il principio, già affermato nell’ambito dell’impiego privato, del «divieto di automatismi sanzionatori» .
Altrettanto degno di considerazione è il fatto che la Corte di Cassazione nella applicazione di questo principio ha negato valore dirimente al dato letterale contenuto nelle fattispecie legali descrittive degli illeciti disciplinari ed ha, invece, inteso privilegiare quella che ha definito una ermeneusi «morbida», richiamando i principi della tutela del lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), del buon andamento amministrativo (art. 97 Cost.) e quelli fondamentali di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e affermando la necessità di indagare sulla eventuale sussistenza di circostanze concrete che rendano, per avventura, inesigibile il comportamento descritto nella fattispecie legale tipizzata.
A giudizio di chi scrive, l’orientamento inaugurato dalla Corte di cassazione nel giugno 2016 (in materia di tutela reintegratoria del licenziamento illegittimo), non può essere letto come «assunzione di un ruolo di differenziatore istituzionale» della regolazione pubblico-privata.
A di là della condivisibilità del percorso argomentativo seguito, contestato da molti per l’opera di «resurrezione» nei confronti di una norma data per scomparsa dall’ordinamento giuridico per effetto della legge Fornero, quell’orientamento ha costituito la base teoretica per la riconsiderazione da parte del legislatore della reintegrazione nel posto di lavoro come unica forma di tutela che, valorizzando il riconoscimento pieno delle capacità professionali del lavoratore pubblico privatizzato, garantisce, ad un tempo, a quest’ultimo i diritti di cui agli artt. 4 e 35 della Costituzione e agli utenti una azione amministrativa delle Pubbliche Amministrazioni, che gli artt. 97 e 98 della Costituzione vogliono efficiente ed imparziale.

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