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Il 7 dicembre 2021 è stato pubblicato il Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile, promosso dal Ministro del Lavoro italiano e che ha visto la partecipazione delle più importanti Parti Sociali del Paese.
Scorrendolo è difficile, pur nella generale positività di buona parte dei contenuti, non avvertire un certo senso di smarrimento e di delusione, entro quella che potremmo definire eufemisticamente scarsa utilità, a parere di chi scrive, del documento in oggetto.
Nella premessa del documento viene dato conto del lavoro del Gruppo di studio promosso dal Ministero con i Decreti dell’aprile 2021.
Queste le risultanze che vengono dichiarate essere state espresse dal Gruppo di studio:
a) il ricorso al lavoro agile negli ultimi tempi, anche a causa dell’emergenza pandemica, è più che raddoppiato rispetto al periodo pre-Covid;
b) nel lavoro agile assume un ruolo centrale la contrattazione collettiva;
c) vi stata una fase di adattamento, dopo di che il lavoro agile è diventato un elemento strategico nell’organizzazione aziendale (ove questo sia materialmente possibile, ovviamente);
d) attraverso il lavoro agile è possibile migliorare il benessere della persona, soprattutto in termini di autonomia e responsabilità, nonché di conciliazione vita-lavoro;
e) parimenti, anche l’organizzazione aziendale ne può risentire positivamente, in termini di produttività, efficienza e snellezza operativa;
f) sono emerse anche criticità, relative, sempre secondo il Gruppo di studio, al coordinamento del lavoratore con l’azienda, alla condivisione di informazioni, al bilanciamento di pause corrette e alla riduzione dei tempi di risposta;
g) vi è la necessità di “una migliore definizione del lavoro agile e di un maggior supporto ai lavoratori ed ai datori di lavoro nel suo utilizzo”;
h) “ferme restando le previsioni di legge”, la contrattazione collettiva resta la fonte privilegiata di regolamentazione del lavoro agile.
La premessa si chiude esprimendo la necessità per le Parti sociali di “realizzare azioni condivise per fornire risposte ai grandi cambiamenti in corso, a cui il protocollo rappresenta una prima risposta per “creare un clima di fiducia, coinvolgimento e partecipazione” rispetto al lavoro agile fornendo “delle linee di indirizzo per la futura contrattazione collettiva”, fermi restando gli accordi in essere, anche individuali.
Analizzando la premessa, di cui abbiamo a nostra cura estrinsecato e numerato con lettere i punti salienti, ci sia permesso di osservare quanto segue:
- i punti a) , c), d) e) sono di una discreta ovvietà, e comunque di un’evidenza tale da non necessitare di chissà quale impegno da parte di un Gruppo di Studio, che, ne siamo certi vista la qualità dei componenti, avrà sottolineato ben altro oltre a ciò;
- infatti – come da punti f) e g) - sono emerse anche criticità e necessità che richiedono (rectius, che avrebbero richiesto) una miglior definizione del lavoro agile (per usare le stesse parole della premessa);
- che la contrattazione collettiva – punti b) ed h) - resti la fonte privilegiata per regolare il lavoro agile è al tempo stesso un’affermazione tautologica, autoreferenziale ed anche parzialmente non veritiera, oltre che rischiosa. Tautologica, perché effettivamente alcuni interrogativi lasciati dalla L. 81/2017 sono stati colmati da alcune contrattazioni aziendali illuminate, autoreferenziale perché le Parti sociali dicono che i motori del cambiamento sono … le Parti sociali stesse, inveritiera perché se è emersa una cosa del lavoro agile è che lo stesso non può che ritagliarsi sulle peculiarità organizzative della singola azienda, tuttavia l’80/90% della forza lavoro in Italia è concentrata su piccole imprese restie o non avvezze alle relazioni industriali (talvolta anche ignorate dagli attori contrattuali) dove pertanto la contrattazione collettiva non alligna. Rischiosa infine, perché l’intervento delle Parti sociali, laddove avvenga, deve essere particolarmente poco invasivo e rispettoso delle dinamiche individuali.
Una reale necessità sarebbe stata da ricercare nella messa a punto di una regolazione più puntuale dopo che la L. 81/2017 aveva mostrato diversi limiti. Ma il protocollo ribadisce a più riprese di voler agire nel pieno perimetro della norma attuale; il che sarebbe anche logico se però venissero fornite – e così ad avviso dello scrivente non è stato, oppure in modo non incisivo – delle sollecitazioni verso modifiche normative.
Restano in ogni caso alcuni punti da salutare con un certo sollievo:
- uno sguardo di “fiducia e partecipazione” rispetto all’affermarsi del lavoro agile e delle grandi trasformazioni in atto nel mondo del lavoro; potremmo definirlo l’abbandono, almeno a parole, di un clima di diffidenza verso le novità che pongono in discussione taluni paradigmi storici del giuslavorismo;
- un salvataggio, in extremis, degli accordi individuali, di cui però non si comprende appieno la reale portata innovativa; si afferma, pertanto, un concetto per cui l’accordo individuale è sostanzialmente una mera adesione del lavoratore (libero di dire sì o no al lavoro agile) all’interno della cornice di quanto (auspicabilmente, per le Parti firmatarie, visto il ribadito ruolo di assoluta centralità ad essa attribuito) stabilito alla contrattazione collettiva.
Questo concetto è chiarissimo negli artt. 1 e 2 del Protocollo, ove appunto ciò che conta è la sola volontarietà di adesione individuale all’accordo di lavoro agile, accordo che poi sarà disciplinato dalla Legge e dagli eventuali contratti collettivi. L’accordo individuale, infatti,(art. 2) “si adegua ai contenuti della eventuale contrattazione collettiva di riferimento…e con le linee guida definite nel presente Protocollo”.
Un discreto controsenso con quanto previsto all’art. 3 per cui il lavoro agile si caratterizza non solo per l’assenza di un preciso orario di lavoro ma per l’autonomia della prestazione rispetto ad obiettivi prefissati. Ed appare ovvio che in questo afflato di autonomia l’indice andrebbe postato sul rafforzamento della dimensione individuale, la sola entro la quale possono ragionevolmente essere fissati e condivisi obiettivi concreti.
E’ nell’ articolo 3, ancora, che si concentra tutto il grado di confusione ed indecidibilità dell’attuale disciplina del lavoro agile, confusione di cui è permeata la L. 81/2017 e che si sperava, ad ora inutilmente, fosse in qualche modo attenuata e risolta. La prestazione infatti, secondo il Protocollo, può essere articolata in fasce orarie, con l’obbligo di individuare “fasce di disconnessione” (senza nessuna specifica sia di cosa si intenda per “fasce” sia di cosa voglia dire la disconnessione se non che il lavoratore “non eroga la prestazione lavorativa”) ed il lavoratore ha diritto di fruire di assenze e di permessi previsti da leggi e contratti, tuttavia (salvo diversa previsione della contrattazione) non è autorizzato il lavoro straordinario. Quindi il lavoratore rimane in balìa di una prestazione in bilico fra l’autonomia e la subordinazione, ove l’orario è assente in certi casi ma in altri no, ed ove, solo per fare un esempio, il limite di alcuni vincoli temporali - superati per il telelavoro (ed in genere per le attività in cui il lavoratore può organizzare la propria prestazione) dalla previsione dell’art. 17 comma 5 del D. Lgs. 66/03 - viene riproposto, risultando nei fatti su questo aspetto più “agile” il telelavoro rispetto al lavoro agile.
Ma è la mancata attenzione sul concetto di lavoro per obiettivi a stupire; in primis perché, come emerge dalla contrattazione aziendale, il concetto di lavoro per obiettivi (quindi una prestazione valutata non più o non prevalentemente in funzione del tempo in cui “si sta” al lavoro ma sul ciò che si fa) è logicamente distinto dal lavoro remoto, tanto che può benissimo essere attuato anche senza alcuna remotizzazione (come sperimentato da diverse contrattazioni aziendali); secondariamente, perché non vi è alcun tentativo di interpretazione, disciplina o perimetrazione di tale modalità di lavoro, se non (e questo è un controsenso) individuando delle limitazioni … riferite al tempo della prestazione ed alla sua collocazione. Sarebbe invece stato utile riflettere, ad esempio, sulle modalità di determinazione degli obiettivi e del loro carico e sull’accesso, da parte del dipendente, alle informazioni sulla valutazione del raggiungimento di tali obiettivi.
Sul luogo di lavoro si ricalca, in modo abbastanza approssimativo e fuggevole, quanto in maniera più pertinente ed approfondita è oggetto di valutazione da parte di chiunque abbia minimamente pensato alla strutturazione di un lavoro da remoto.
Idem per quanto riguarda gli strumenti di lavoro, per cui si dichiara possibile un accordo per l’utilizzo di strumenti (che non sono solo hardware ma anche programmi, connessioni etc.) ma non è nemmeno suggerita un’agevolazione per le modalità di rimborso spese sostenute dal lavoratore da remoto, rimborsi che, ad oggi, visti anche recenti interventi dei Agenzia delle Entrate sul tema, risulterebbero per lo più totalmente imponibili, e quindi penalizzanti per l’azienda e per il lavoratore.
Proseguendo nell’analisi del protocollo, per quanto riguarda salute e sicurezza sul lavoro (art. 6), infortuni e malattie professionali (art. 7), diritti sindacali (art. 8), parità di trattamento e pari opportunità (art.9) non vi sono apprezzabili diversificazioni da quanto già previsto dalla L. 81/2017, che viene sostanzialmente parafrasata. Resta affermazione di principio l’obbligo (non si sa ricadente su chi, vista la possibilità di scelta del luogo da parte del lavoratore) per cui il lavoro agile debba essere svolto “in ambienti idonei”. Anche la riproposizione dell’infortunio in itinere per lavoratori “agili” non scioglie un solo dubbio rispetto all’applicabilità di tale fattispecie.
I successivi artt. 10 e 11 promuovono inclusività verso lavoratori fragili e disabili e verso genitori o altre situazioni comunque meritevoli di attenzione e ipotizzano un welfare di sostegno alle attività di lavoro agile. Sul welfare, fa discutere la dichiarata parità di trattamento che le associazioni dei provider di ticket-pranzo hanno già fatto propria (con un’interpretazione forzata “pro domo sua”) rilanciando l’obbligo del ticket anche per il lavoratore agile. Anche l’art.13 riconosce l’ormai innegabile ruolo della formazione, sia tecnologica che organizzativa, come motore di una produttività sana e per lo sviluppo di professionalità e di personalità, anche in prevenzione di fenomeni di isolamento o di utilizzo inappropriato ed invasivo degli strumenti e dei canali digitali.
Sono questi argomenti interessanti, ma trattati in mera linea di principio: vedremo quali e quanti strumenti saranno messi in campo dalla contrattazione e dalla bilateralità.
L’art. 12 è una summa sintetica di quanto già al GDPR, con un richiamo alla formazione. Da registrare la proposta (comma 6) dell’adozione di “un codice deontologico e di buona condotta per il trattamento dei dati personali dei lavoratori in modalità agile” da sottoporre al Garante, adempimento di cui sfugge a chi scrive la valenza concreta, al di là di una certa prosopopea, e che rischia di appesantire gli adempimenti dei datori di lavoro.
Non poteva mancare (art. 14) la costituzione dell’ennesimo Osservatorio bilaterale, per proseguire il lavoro di confronto iniziato con il protocollo in argomento.
L’art. 15 contiene infine due richieste delle Parti sociali:
- un incentivo pubblico per le aziende che regolamentino il lavoro agile mediante contrattazione collettiva, prevedendone un “utilizzo equilibrato fra lavoratori e lavoratrici”;
- misure urgenti di semplificazione delle comunicazioni obbligatorie relative al lavoro agile.
Mentre il secondo aspetto è assolutamente condivisibile, la prima istanza desta qualche perplessità. Resta difficile comprendere, infatti, perché una premialità rispetto alla promozione di lavoro agile debba essere destinata solo rispetto alla realizzazione di una contrattazione collettiva e non invece aperta a tutte le iniziative – in qualsiasi modo realizzate, anche attraverso accordi individuali spontanei (magari valorizzati attraverso l’istituto della certificazione dei contratti) – che rispondano a requisiti di reale partecipazione, sostenibilità ed inclusività.
Anche il richiesto equilibrio fra lavoratori e lavoratrici rischia di essere equivoco e fuorviante, non vorremmo pensare ad un lavoro agile ancorato a “quote rosa” (o azzurre) ad irrigidirne l’utilizzo.

Tirando quindi le somme su quanto letto, il protocollo è un documento con luci ed ombre: d’altronde l’assoluta eterogeneità dei firmatari e lo stesso spirito del tavolo promosso dal Ministero sembrano orientati più a logiche di compromesso e di non messa in discussione dello status quo che non ad individuare e suggerire quelle modifiche di messa a punto di una legge che ha più punti interrogativi che risposte.
Chi scrive non condivide il “sollievo”, da più parti espresso o comunque evidente fra le righe, di un Protocollo che abbia in un certo senso arginato le varie proposte di riforma normativa sul tema. Certo, di fronte a letture che volevano irrigidire i contenuti del lavoro agile, magari con un ricorso obbligatorio alla contrattazione nazionale, meglio lasciare tutto com’è ora; sono d’altronde posizioni analoghe a chi non ha permesso di decollare o ha addirittura eliminato forme interessanti di prestazione flessibile (il lavoro a chiamata, il lavoro ripartito, i voucher, in parte anche il lavoro a tempo determinato) se ben agite. Con il risultato, paradossale, di non aver minimamente risolto i problemi del mercato del lavoro ed aver aumentato la precarietà e l’elusione.
Resta comunque importante leggere parole di apprezzamento sul lavoro agile e su come possa essere strumento di inclusione, partecipazione proattiva e responsabile, sostenibilità e conciliazione, ma rimane la necessità di affrontare i nodi che rendano davvero più flessibile e più agibile, ma al tempo stesso più certa nel proprio esercizio concreto, tale fattispecie.
Ne indichiamo alcuni in un commento sintetico finale.
Il Protocollo non prende minimamente in considerazione il fatto che ciò che si è agito durante la pandemia non è stato assolutamente lavoro agile (definito “più che raddoppiato rispetto al, periodo pre-pandemico”) ma semplicemente un’esigenza emergenziale gestita per i più alla meno peggio; soltanto chi si era già organizzato in precedenza non ha avuto particolari contraccolpi, per tutti gli altri si sono evidenziate criticità notevoli. L’unica vera novità è che, costretti all’impossibile, qualcuno ha cominciato a pensare che fosse… possibile, e forse anche positivo.
Ma se il lavoro agile viene riconosciuto come una nuova e vincente forma di organizzazione del lavoro, è difficile comprendere perché tale forma non possa, con tutte le garanzie del caso, far parte del comune ius variandi della prestazione da parte del datore. Il quale può, a certe condizioni, trasferire un lavoratore da Bolzano a Palermo, o viceversa, ma non sarebbe libero di impostare organizzativamente la sua azienda con una remotizzazione più o meno accentuata (si ribadisce infatti l’indispensabilità dell’adesione del lavoratore). Anche l’alternanza del luogo (remoto/sede) rischia di essere un rigidità, visto che già oggi molti contratti full-remote aggirano tale ostacolo con la previsione di presenza in ufficio di uno/due giorni al mese (o, ancor peggio, alla bisogna) che poi resta solo una previsione evidentemente formale.
Anche l’equiparazione di lavoro da remoto e per obiettivi nasconde in realtà una visione antiquata del lavoro, tale per cui siccome non vedo quello che fai devo forzatamente fidarmi. In realtà il discorso si sposta su un piano letteralmente opposto: siccome organizzo il tuo lavoro con condivisione e responsabilità, la necessità di un controllo viene meno e si sposta, ex post, sulle evidenze di risultato della tua azione, indipendentemente da quale sia il luogo fisico in cui tu svolga la prestazione. Questa fiducia limitata e forzata resta evidente nella, assurda, limitazione dello straordinario ipotizzata dal Protocollo, quasi una sorta di “se non vedo non ci credo”. Mentre restando il lavoro agile pur sempre una prestazione di mezzi e non di risultato, ben può essere che ai tuoi obiettivi se ne aggiungano altri, per emergenze o per mille altri fattori organizzativi, o che gli stessi obiettivi diventino più pesanti per fattori indipendenti dalla prestazione del singolo, e allora pare congruo che quel surplus lo si debba riconoscere in qualche modo. Ma ciò introdurrebbe il grande tema non solo dell’organizzazione ma della valutazione delle prestazioni e della condivisione, o quantomeno della trasparenza, dei metodi e delle informazioni che portano a questa valutazione (argomento nemmeno sfiorato).
Queste riflessioni hanno senso a meno che con il lavoro agile non si voglia introdurre di fatto un tertium genus, problema già affrontato per lare fattispecie e , almeno per ora, risolto in modo non equilibrato con la reductio ad unum verso il lavoro subordinato tout court, senza affrontare il problema di come gestire e perimetrare le nuove forme di lavoro subordinato entro dimensioni a loro più congeniali (e senza inventarsi autonomie che nei fatti non esistono).
Così pure, la condivisione di spazi e strumenti in carico al lavoratore e/o di sua proprietà (tema divenuto evidentissimo nel lavoro agile emergenziale) aprirebbe il tema del ristoro, puntale o forfettario, di tali risorse senza particolare onerosità fiscale.
Da ultimo, ma non ultimo, il tema dell’assicurabilità della prestazione, unita con l’elezione del luogo di lavoro, apre scenari che pare insufficiente risolvere con la semplice dichiarazione di applicabilità dell’infortunio in itinere o di divieto di lavoro in luoghi inadatti.
Su tutti questi ed altri temi non si può onestamente dire che il Protocollo qualche passettino in avanti non lo abbia fatto, ma l’impressione è che la fatica a disancorarsi da vecchie logiche sia ancora molto alta e che, rispetto alle aspettative - almeno per ora poi vedremo gli sviluppi futuri - la montagna abbia davvero partorito un topolino piccolo piccolo.

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