Testo integrale con note e bibliografia

1. Politica e amministrazione negli enti territoriali: distinzione, interconnessione, sovrapposizione
Una delle osservazioni più diffuse intorno ai risultati delle riforme amministrative susseguitesi negli ultimi trent’anni è che il principio di separazione fra indirizzo e gestione non ha retto alla prova dei fatti .
Questa constatazione, usualmente riferita all’esperienza del modello statale, assume un significato del tutto peculiare nel sistema degli enti decentrati, dove l’interazione tra politica e amministrazione è fisiologicamente più marcata per via della vicinanza della governance al territorio, dell’immediatezza degli interessi da curare e della vocazione di servizio al cittadino nelle scelte di pianificazione strategica .
Chiunque si sia occupato del tema sottolinea che a livello periferico l’indirizzo tende a sfumare nella gestione, perché su scala ridotta «fare politica significa in ultima analisi compiere scelte di amministrazione concreta e puntuale» .
In quest’area l’azione del corpo burocratico viene legittimata in termini democratici grazie ai sistemi di elezione diretta dei vertici politici: sindaci e presidenti delle regioni sono scelti direttamente dai cittadini , e la concentrazione della responsabilità politica su un unico soggetto produce una spinta istintiva a mantenere salda la presa sulla macchina amministrativa, poiché quest’ultima costituisce il mezzo per far fronte all’impegno programmatico assunto con gli elettori e a conservarne il consenso.
Alla luce di queste premesse, tracciare una linea di confine tra le due sfere non è affatto semplice, al punto che i termini della relazione sembrano rispondere più al modello dell’interconnessione che a quello della netta separazione .
Ad ogni modo, le implicazioni che derivano da questa fisiologica vicinanza tra vertici politici e vertici gestionali possono essere osservate da angolazioni diverse: si può ritenere che la maggiore porosità dei confini tra le singole aree di competenza renda la burocrazia locale più esposta ai rischi di condizionamento politico, in modo da considerare le autonomie territoriali un moltiplicatore delle fragilità del modello statale; oppure si può adottare una lettura più benevola, individuando nella contiguità tra la governance locale e i suoi funzionari l’elemento che permette di esaltare il ruolo di contrappeso della dirigenza professionale rispetto agli organi di indirizzo politico, dando corpo a forme di interazione virtuosa nell’esercizio dei poteri pubblici .
Comunque la si pensi, la questione di fondo rimane sempre la stessa: affinché la dialettica politica-amministrazione sia «presa sul serio» , è necessario ricercare un adeguato equilibrio tra indirizzo e gestione, fiducia e tecnica, buon andamento e imparzialità, componendo i diversi valori innervati negli artt. 95, 97 e 98 Cost. .
In questo scritto saranno prese in considerazione le soluzioni prescelte dal legislatore ordinario per conseguire tale obbiettivo, dedicando particolare attenzione alle aree in cui la razionalità giuridica del sistema entra in sofferenza, sia per la presenza di uno sviluppo normativo non sempre armonico rispetto alle finalità originarie della privatizzazione, sia per il frequente scollamento tra il piano dell’adesione simbolica alle regole astratte e quello della loro traduzione nella prassi concreta.
Su questi aspetti si proverà a riflettere criticamente, allo scopo di mettere in evidenza i nodi irrisolti e le prospettive di sviluppo futuro, rivolgendo uno sguardo finale alle opportunità di cambiamento offerte dagli interventi normativi più recenti, che hanno profondamente ripensato le modalità di reclutamento della dirigenza pubblica, con ricadute valevoli anche per gli enti decentrati.

2. Politica e amministrazione nel Tuel: dalla regola alle (vistose) eccezioni

Sul piano del diritto positivo l’introduzione del principio di separazione tra politica e amministrazione si deve all’art. 51, l. 8 agosto 1990, n. 142, che lo ha codificato per la dirigenza degli enti locali ancor prima dell’avvio del processo di contrattualizzazione del pubblico impiego .
Allo stato attuale il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (da ora anche Tuel) attribuisce a tale principio valenza cardinale, sviluppandolo all’interno del medesimo circuito tripolare «indirizzo/gestione/verifica», descritto dall’art. 4, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (da ora anche Tupi).
Segnatamente, l’art. 107 del Tuel attribuisce ai dirigenti degli enti territoriali la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti, i quali devono uniformarsi al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo .
Per la valutazione del rendimento dei dirigenti il comma 7 rinvia alla disciplina sui controlli interni ed ai principi del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286, ma regioni ed enti locali devono adeguare i propri ordinamenti al sistema di misurazione della performance organizzativa e individuale ex artt. 16 e 31 del d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, da ultimo modificato dal d.lgs. 25 maggio 2017, n. 74 .
Anche in ambito territoriale vige la scissione tra contratto di lavoro a tempo determinato e incarico a termine, introdotta con le «riforme Bassanini» per tutta la dirigenza di ruolo : l’art. 109, comma 1, del Tuel prevede che gli incarichi dirigenziali siano conferiti a tempo determinato, con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale e in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia.
La disposizione prevede altresì che gli incarichi possano essere revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell’assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro .
Centro e periferia si reggono dunque sul medesimo architrave sistemico: al pari di quanto previsto per il modello statale, anche il Tuel stabilisce una correlazione diretta fra obiettivi attribuiti al dirigente, valutazione dei risultati e responsabilità scaturente dal loro mancato conseguimento, apprestando un apposito catalogo di sanzioni per il caso di andamento negativo della gestione, da accertarsi nell’ambito di un iter procedurale circondato dalle garanzie del due process .
A questo punto però si fermano le analogie.
Il medesimo art. 109 del Tuel consente infatti una significativa attenuazione del principio di separazione tra politica e amministrazione, riadattando tale dicotomia alle peculiarità degli ordinamenti decentrati.
Il secondo comma della disposizione in esame stabilisce infatti che «nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale, le funzioni di cui all’articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva l’applicazione dell’articolo 97, comma 4, lettera d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione».
Questa previsione conferma che la fisiologica vicinanza tra politica e burocrazia locale può alterare in modo significativo la dialettica fra le due sfere, affievolendo il principio della distinzione funzionale in alcune situazioni specifiche.
È infatti chiaro che la possibilità di conferire incarichi dirigenziali a funzionari che non hanno superato un apposito concorso per accedere al ruolo favorisce le logiche di cooptazione, consentendo alla politica di dilatare i propri compiti attraverso la scelta dei soggetti più inclini a ricambiare l’investitura di vertice con la disponibilità ad eseguire decisioni di dettaglio e non di indirizzo .
Altro esempio in tal senso è costituito dall’art. 53, comma 23, l. 23 dicembre 2000, n. 388: nei Comuni con popolazione inferiore ai cinquemila abitanti, dove non vi è personale con qualifica dirigenziale, è possibile adottare disposizioni regolamentari di organizzazione che prevedano l’attribuzione al sindaco o ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale .
Si tratta del modulo operazionale del «dirigente/sindaco» o del «dirigente/assessore», attuabile negli enti locali di minori dimensioni, che costituiscono la stragrande maggioranza nel Paese.
Qui la commistione fra politica e amministrazione viene autorizzata dallo stesso legislatore, a conferma che la contiguità tra gli organi di leadership politica e il loro braccio tecnico diviene più intensa man mano che si accorcia la catena organizzativa, al punto che le due dimensioni possono perfino fondersi nei contesti territoriali più piccoli.
La sovrapposizione di ruoli consentita dalla disposizione in esame, peraltro, solleva interrogativi cui la legge non offre risposta. Ed infatti, una volta che si decida di affidare le prerogative dirigenziali al sindaco o all’assessore di turno, la responsabilità dirigenziale per i cattivi risultati di gestione si confonde con la responsabilità politica legata al circuito della democrazia rappresentativa: fini e mezzi si mescolano, traducendosi in azioni inevitabilmente parziali, espressione della volontà politica della maggioranza di governo, la quale non necessariamente coincide con la tutela dell’interesse collettivo. Peraltro la norma non chiarisce a chi spetti l’attivazione della responsabilità dirigenziale: se il sindaco/dirigente ha operato male, qual è l’organo chiamato a sanzionarlo per la sua inefficienza gestionale? .

3. Principio di separazione e nomine fiduciarie: la dirigenza a contratto ex art. 110 del Tuel

Il principio di separazione tra politica e amministrazione entra ulteriormente in tensione nell’area delle nomine fondate su basi più marcatamente fiduciarie, che costituiscono un elemento cardine nel sistema delle autonomie territoriali.
Qui la componente tecnico-professionale si mescola coi criteri dell’affidabilità e della consonanza all’orientamento politico del titolare del potere di nomina, mettendo in discussione la tenuta del principio di imparzialità.
Sul piano della regolazione questa dialettica emerge sia per la scelta dei dirigenti a contratto ex art. 110 del Tuel, sia per le figure del segretario comunale o provinciale e del direttore generale ex artt. 97 e 108 del Tuel.
Partendo dai primi, va detto subito che il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni ha costituito uno dei mezzi attraverso cui la politica si è riappropriata del controllo sull’amministrazione in via di fatto, scavalcando la burocrazia di ruolo .
L’art 110, comma 1, riserva allo statuto la scelta di coprire i posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione mediante la stipulazione di contratti a tempo determinato. In tal caso il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi fissa la quota disponibile, in misura non superiore al 30 per cento dei posti istituiti nella dotazione organica della medesima qualifica, garantendo almeno un’unità esterna.
Il comma 2 prevede invece che, negli enti in cui è prevista la dirigenza, il medesimo regolamento stabilisca limiti, criteri e modalità per l’attribuzione di incarichi dirigenziali a termine al di fuori della dotazione organica, anche a personale sprovvisto della qualifica, fissando un tetto del 5 per cento del totale della dotazione organica della dirigenza e dell’area direttiva e comunque per almeno una unità .
La ratio di siffatte previsioni, che autorizzano la chiamata di dirigenti esterni in percentuali ben più elevate di quelle previste dall’art. 19, commi 5 bis e 6, d.lgs. n. 165/2001 , è ancora una volta quella di consentire all’organo direttamente investito dal consenso del corpo elettorale di disporre di una quota di soggetti a sé vicini per attuare il programma di governo.
Nella prassi questa opportunità ha consentito di “piazzare” tali soggetti negli uffici strategici dell’amministrazione, in ragione della loro diretta consentaneità rispetto al soggetto politico che li ha scelti.
È peraltro inevitabile che a quantità più elevate di nomine fiduciarie corrispondano maggiori spazi di condizionamento politico, a fortiori ove si consideri che la sorte di tali incarichi dipende dall’organo di indirizzo nei due momenti cruciali della durata massima e minima: la prima non può eccedere il mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia in carica ex art. 110, comma 3; la seconda non viene affatto predeterminata dalla legge, in deroga alla regola generale di cui all’art. 19, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, che la fissa in tre anni.
Il che non esclude che vengano stipulati contratti a termine di durata eccessivamente breve, della cui legittimità sarebbe lecito dubitare alla luce dei principi fissati dalla giurisprudenza costituzionale sullo spoils system .
In definitiva, la condizione di debolezza strutturale in cui versa tale segmento della dirigenza locale è difficilmente contestabile .
Non è un caso che la magistratura ordinaria sia intervenuta a più riprese per limitare le distorsioni cui si presta il modello regolativo sopra descritto: la S.C. interpreta ormai con estremo rigore l’obbligo di motivazione ex art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165/2001, considerandolo un presidio fondamentale anche nel sistema delle autonomie territoriali, affinché il conferimento degli incarichi a soggetti esterni sia sottoposto ai requisiti della trasparenza e della controllabilità delle scelte discrezionali, a tutela dei principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione .
4. Le figure anfibie: il segretario comunale/provinciale e il direttore generale degli enti locali
La dicotomia politica/amministrazione è sottoposta a torsioni ancora più marcate nella disciplina sulla nomina dei segretari comunali e provinciali e dei direttori generali degli enti locali.
Per questi ruoli la logica fiduciaria che governa il conferimento dell’incarico assume la fisionomia dell’intuitu personae, radicandosi sulle funzioni di snodo che tali figure svolgono tra gli organi dell’esecutivo locale e il management di base.
La previsione di un simile legame amplifica l’instabilità delle funzioni amministrative assegnate ad entrambe le categorie, che dipendono dal potere politico del sindaco o del presidente della provincia .
L’art. 99 del Tuel prevede che la nomina del segretario avvenga a scelta libera del sindaco o del presidente della provincia tra i soggetti iscritti all’apposito albo ex art. 98 .
L’insindacabilità delle determinazioni riguardanti il conferimento dell’incarico, per le quali non è previsto obbligo di motivazione, è tuttavia temperata dal meccanismo concorsuale di accesso all’albo, accentrato su base nazionale ed improntato sulla selezione comparativa degli aspiranti al ruolo, che conduce alla costituzione del rapporto di lavoro con il Ministero dell’Interno e non con l’ente locale.
Tutto ciò attribuisce ai segretari comunali e provinciali una connotazione anfibia, sospesa tra fiducia politica e fiducia tecnica, in considerazione delle funzioni di diaframma attribuite a tali figure, che si affiancano a quelle storiche di controllo giuridico formale dell’attività amministrativa dell’ente, ma anche a quelle più strettamente gestionali.
Oltre a svolgere «compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti» , il segretario «sovrintende allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l’attività» , ma soprattutto «esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente della provincia» . E proprio l’ampiezza di quest’ultima previsione ha legittimato, nella prassi, l’attribuzione ai segretari comunali di funzioni tipicamente dirigenziali, sia di natura pubblicistica , sia di natura privatistica, come la gestione dei rapporti di lavoro .
Vi è poi il nodo dei rapporti del segretario con il direttore generale, la cui determinazione è rimessa dall’art. 97, comma 3, al sindaco o al presidente della provincia, secondo il criterio del «rispetto dei loro distinti ed autonomi ruoli», invero non sempre percettibile nella realtà effettuale .
Laddove sia stato nominato, anche il direttore generale si colloca in una posizione di cerniera tra indirizzo e gestione: esclusa la sua connotazione quale «organo di governo aggiunto» – non di rado praticata da alcuni enti in aperta violazione del principio di separazione fra indirizzo e gestione – si tratta di un ufficio posto al vertice dell’organizzazione amministrativa, che si suole accostare alla dirigenza apicale .
Ai sensi dell’art. 108, comma 1, al direttore generale spetta il compito di dare attuazione agli indirizzi impartiti dagli organi politici di governo dell’ente e di perseguire gli obiettivi stabiliti sulla base delle direttive generali fissate dal sindaco o dal presidente della provincia.
La disposizione incardina su tale soggetto il compito di sovrintendere alla gestione dell’ente, nell’ottica del raggiungimento di livelli ottimali di efficacia ed efficienza, prevedendone il coinvolgimento nella predisposizione degli obiettivi funzionali al controllo di gestione e nella formulazione del piano esecutivo di gestione.
Al direttore generale rispondono, nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, i dirigenti dell’ente (ad eccezione del segretario comunale/provinciale), ancorché ciò non avvenga nel quadro di un rapporto gerarchico, ma nei limiti del coordinamento funzionale dell’attività di questi ultimi.
Va infine osservato che le funzioni di direttore generale possono essere esercitate dai segretari degli enti locali qualora il sindaco o il presidente della provincia non abbiano nominato tale figura , o comunque non possano nominarla in base alla consistenza demografica dell’ente .
Nel modello astratto il direttore generale dovrebbe dunque fungere da trait d’union fra gli organi di rappresentanza politica e quelli di gestione, traducendo gli obbiettivi di governance in strategie riguardanti i tempi, le priorità e la ripartizione delle risorse finanziarie da destinare alla loro attuazione.
Tuttavia, non essendovi uno specifico divieto di legge, i regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi hanno sovente assegnato a tale figura anche la titolarità di compiti più minutamente gestionali, in ragione della sua posizione sovraordinata rispetto alla dirigenza tecnico-professionale.
Anche in questo caso, pertanto, si è di fronte ad una categoria professionale in cui convivono più anime, ma la cui legittimazione dipende essenzialmente dal gradimento politico, che non sempre conduce a valorizzare merito, formazione e competenze: ai sensi dell’art. 108, comma 1, l’ufficio è collocato fuori dalla dotazione organica e viene assegnato con contratto a tempo determinato, secondo i criteri rimessi ai regolamenti degli enti. E siccome tali fonti prevedono generalmente criteri molto vaghi, la scelta è rimessa di norma all’apprezzamento soggettivo del sindaco o del presidente della provincia , che talvolta selezionano soggetti non solo privi di esperienza o competenza professionale, ma perfino sprovvisti del titolo di laurea, in violazione di un requisito considerato indispensabile nel diritto vivente, in analogia con la disciplina sull’accesso alla qualifica dirigenziale .
La connotazione fiduciaria dell’incarico si estremizza infine nella fase di revoca dell’incarico, che può essere sciolto ad nutum dal sindaco o dal presidente della provincia ex art. 108, comma 2 del Tuel, non essendo previsto alcun presupposto legato al suo svolgimento, né richiesta una specifica motivazione.
Il che può trovare giustificazione soltanto nella dimensione della consonanza ideologica, o comunque nella contiguità di azione che presidia il legame fra i due organi, connotando il loro rapporto in termini di affidabilità personale: il direttore generale è organo di diretta interfaccia della politica, che vi ripone affidamento quale primo terminale operativo nella catena amministrativa dell’ente, orientandone tutte le scelte.
Naturalmente, anche in questo caso il modello astratto regge fintantoché l’attività di indirizzo non si traduca in gestione per interposta persona.
Ed infatti, se è vero che la legge non vieta alle figure di vertice dell’organizzazione locale di muoversi tra il supporto alla formazione dell’indirizzo politico e lo svolgimento di compiti più strettamente gestionali, non è difficile immaginare come la «carica politica» di cui sono intrisi il segretario comunale e il direttore generale possa generare un effetto a cascata, che si propaga lungo tutta la filiera delle posizioni dirigenziali presenti nell’ente, mettendo sotto pressione la burocrazia operativa .
In particolare, l’esperienza ha dimostrato che i direttori generali investiti di compiti di gestione concreta si scontrano non di rado con i segretari comunali e con il management di base, che ne esce indebolito anche di fronte alla compagine politica: «accade così assai di frequente che il dirigente, che sentirebbe di dovere resistere ad un tentativo di sconfinamento da parte dell’organo titolare di potere politico, finisca con il cedere perché si sente isolato o perché viene isolato» . E ciò vale a fortiori quando il segretario concentri su di sé le prerogative di direttore generale ex art 97, comma 4, lett. d) del Tuel.

5. Fiduciarietà e limiti alla legittimità costituzionale dello spoils system dei segretari comunali

La potenziale intercambiabilità tra la figura del segretario comunale e quella del direttore generale si riflette nella scelta legislativa di assoggettare entrambi gli incarichi ad uno specifico regime di spoils system, che costituisce l’altra faccia della fiduciarietà della nomina.
Ai sensi dell’art. 99, comma 2 del Tuel, l’incarico del segretario ha una durata corrispondente a quella del mandato del sindaco o del presidente della provincia e cessa automaticamente con la cessazione del mandato dell’organo che lo ha nominato, fatta salva la proroga nell’esercizio delle funzioni sino alla nomina del nuovo segretario.
Una disciplina similare è prevista dall’art. 108, comma 2, per l’incarico di direttore generale, la cui durata non può eccedere quella del mandato del sindaco o del presidente della provincia.
Come è noto, la Corte costituzionale ha dichiarato in parte inammissibili e in parte infondate le questioni di legittimità sollevate in relazione alle regole sulla nomina e sulla decadenza automatica del segretario comunale al termine del mandato del sindaco, operando una valutazione di sintesi circa l’equilibrio complessivo tra le funzioni tipiche (controllo di legalità e correttezza dell’azione amministrativa) e le funzioni aggiuntive (consultive, di collaborazione alla determinazione degli obiettivi di indirizzo politico, gestionali) incardinate dalla legge su tale organo .
La decisione non era per nulla scontata, tanto alla luce dei precedenti della stessa Corte, che non si era finora pronunciata sulla legittimità costituzionale dello spoils system per gli uffici di raccordo tra politica e amministrazione , quanto alla luce della varietà di opinioni presenti nel panorama dottrinale .
Naturalmente, il fatto che l’assetto disegnato dal legislatore possa dar luogo a «relazioni pericolose» tra chi determina l’indirizzo politico e chi dovrebbe creare le condizioni per la sua attuazione era ben chiaro al Giudice delle leggi, che per tale motivo si è destreggiata tra il polo della fiducia e quello dell’imparzialità con argomenti non sempre in linea con i principi affermati nei suoi arresti più celebri . Prova ne sia che il rigetto della questione è stato motivato attraverso il criterio del «più no che sì».
Il cuore della pronuncia consiste infatti in una serie di negazioni.
In particolare, la circostanza che il segretario sia chiamato a coadiuvare e supportare sindaco e giunta nella fase preliminare della definizione dell’indirizzo politico-amministrativo, influenzandola attivamente, «non rende irragionevole» la scelta legislativa di evitare, attraverso la decadenza automatica, che il sindaco neoeletto debba servirsi del segretario in carica, cioè di colui che ha contribuito all’elaborazione del programma politico precedente.
Parimenti, la possibilità che al segretario vengano attribuite funzioni di carattere eminentemente gestionale, specialmente laddove vi sia concentrazione con il ruolo di direttore generale, contribuisce ad accrescere il carattere fiduciario della carica, riflettendo «un non irragionevole punto di equilibrio» tra le ragioni dell’autonomia degli enti locali, da una parte, e le esigenze di un controllo indipendente sulla loro attività, dall’altra.
La conclusione è che la decadenza del segretario comunale alla cessazione del mandato del sindaco «non raggiunge la soglia oltre la quale vi sarebbe violazione dell’art. 97 Cost., non traducendosi nell’automatica compromissione né dell’imparzialità dell’azione amministrativa, né della sua continuità».
Con questa soluzione si può essere d’accordo o meno, come spesso accade quando si contrappongono valori egualmente tutelati dalla Carta fondamentale, che richiedono di essere bilanciati all’interno di una «gerarchia assiologica mobile» .
C’è però un dato che emerge univocamente da questa ennesima sentenza in tema di spoils system, e cioè che le relazioni fra politica e amministrazione non sono monolitiche, ma vanno scomposte in una pluralità di modelli che rispondono alle caratteristiche organizzative dei diversi sistemi ordinamentali, con ricadute tali da influenzare anche la disciplina della dirigenza pubblica.
Prova ne sia che, in un più recente arresto, il Giudice delle Leggi ha censurato la normativa regionale sul reclutamento e sullo status dei segretari degli enti locali del Trentino Alto Adige, rilevandone l’irragionevolezza alla luce dell’assenza di garanzie analoghe a quelle apprestate dalla disciplina statale per i passaggi chiave dell’accesso e della revoca dell’incarico: è vero che la competenza legislativa della regione a statuto speciale consente di conformare lo status giuridico dei segretari comunali delle province autonome, ma tale potestà deve operare sempre in «armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica». E nel caso di specie, la fisionomia del segretario comunale risultava profondamente trasformata attraverso l’innesto di elementi normativi che esasperavano gli elementi di fiduciarietà, innestando nella disciplina del rapporto di lavoro «rilevanti aspetti di vera e propria precarietà».
La possibilità di adattamenti e modelli differenziati deve dunque tener conto dei principi generali del sistema, rimanendo lecita fintantoché sia assicurato equilibrio tra le ragioni dell’autonomia degli enti locali e le esigenze di un controllo indipendente sulla loro attività, dall’altra: controllo che la figura del segretario comunale deve assicurare anche negli ordinamenti a statuto speciale .

6. Ripubblicizzare lo statuto giuridico dell’alta dirigenza locale?

La domanda che sorge, a questo punto, è se il polimorfismo della dirigenza pubblica possa non solo alterare i confini della relazione fra indirizzo e gestione, ma anche giustificare una modifica dello stato giuridico ed economico della categoria, plasmandolo in base alle caratteristiche delle amministrazioni territoriali.
Secondo una recente analisi, regioni ed enti locali potrebbero sfruttare le competenze normative che la riforma del titolo V della Costituzione ha loro attribuito in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa, per allentare la compattezza dell’unitario modulo privatistico. L’obiettivo è quello di separare la disciplina del rapporto di lavoro del dirigente locale attraverso l’introduzione di un doppio livello di incarichi, di base e generali: i primi andrebbero mantenuti nell’orbita del diritto privato, con limitati adattamenti allo specifico contesto locale; i secondi potrebbero essere riportati nell’alveo pubblicistico, in considerazione delle maggiori garanzie offerte da una legittimazione ex lege in relazione allo scopo di schermare l’alta burocrazia dai tentativi di condizionamento politico .
Al di là dell’indubbia capacità suggestiva, bisogna dire che l’ipotesi di una differenziazione così estrema non appare facilmente percorribile: è vero che il regime privatistico e quello pubblicistico sono entrambi compatibili col perseguimento dei principi di imparzialità e del buon andamento ex art. 97 Cost. , ma una volta che il legislatore ordinario abbia optato per la contrattualizzazione dei rapporti di lavoro di tutti i dipendenti pubblici, ivi compresi i dirigenti, la materia va ricondotta nell’ordinamento civile ex art. 117, comma 1, lett. l, Cost., dove lo Stato ha competenza di regolazione esclusiva .
A conclusioni analoghe si perviene se il punto di osservazione è quello dell’incarico dirigenziale: come afferma stabilmente la Corte di Cassazione, l’atto di conferimento dell’incarico costituisce l’esito di una determinazione negoziale che l’amministrazione assume con i poteri e le capacità del comune datore di lavoro , per cui anche questo segmento di disciplina può farsi rientrare nell’ordinamento civile.
D’altra parte, la stessa giurisprudenza costituzionale ha sinora ritenuto che la disciplina attinenti al versante organizzativo, cioè quelle su cui le autonomie territoriali devono essere coinvolte o possono intervenire con la propria potestà regolativa, riguardano i profili dell’accesso alla qualifica dirigenziale, della durata e delle modalità di conferimento degli incarichi . Non vi rientra invece l’individuazione delle categorie qualificatorie generali, che è rimessa alla legislazione esclusiva dello Stato, così come è stato affermato in occasione dello scrutinio delle norme sulla dirigenza a contratto ex art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165/2001 .
Infine, occorre considerare che i principi generali di organizzazione pubblica sono dettati dal legislatore statale a garanzia dell’unitarietà dell’ordinamento, e a tal fine gli artt. 1, comma 3, e 27, d.lgs. n. 165/2001, contengono apposite clausole di adeguamento degli enti territoriali .
In tale contesto è difficile pensare che le scelte regolative operate a livello decentrato possano frantumare il disegno complessivo della privatizzazione, ri-attraendo nell’orbita del diritto pubblico lo statuto giuridico di una categoria professionale che le riforme degli anni ‘90 hanno interamente ricondotto sotto l’egida del diritto comune .
Sul piano dell’opportunità, peraltro, non è detto che il traghettamento dell’alta dirigenza locale nel regime pubblicistico fornisca maggiori garanzie di neutralità rispetto alle incursioni degli organi di indirizzo politico: anzi, proprio la presenza di una bardatura formalmente garantista ha costituito, negli anni antecedenti alla privatizzazione, il principale fattore di deresponsabilizzazione della burocrazia di vertice, che è divenuta facile preda del perverso scambio «sicurezza contro potere» .
Il punto è che il malfunzionamento della macchina amministrativa non dipende dal regime giuridico cui è assoggettata la dirigenza, dovendosi escludere che esista un «nesso necessario fra statuto pubblicistico del dipendente e garanzia dell’imparzialità» .
A ciò va aggiunto che tale nesso non si costituisce automaticamente nemmeno se si adotta il modulo privatistico, per il semplice fatto che il cambiamento organizzativo non può essere affidato soltanto alla forza del diritto, né è realistico pensare che una managerialità “salvifica e neutrale” possa essere calata dall’alto, secondo una visione puramente tecnocratica dell’agere amministrativo : è vero infatti che una buona legislazione è un presupposto necessario per avere una buona amministrazione, ma qualità ed efficienza dipendono soprattutto dalla capacità dei protagonisti delle riforme di condividerne il senso ed accompagnarne l’attuazione nei singoli contesti. Se queste condizioni mancano, anche la migliore normativa è destinata a fallire.

7. Burocrazia professionale e fragilità della disciplina degli incarichi dirigenziali

Alla luce di quanto si è detto, l’azione legislativa dovrebbe concentrarsi, più che su una modifica di status, sulla correzione delle regole che impediscono al dirigente di operare con autonomia nelle pratiche operative reali.
Ci si riferisce soprattutto alla disciplina degli incarichi.
L’assetto varato a partire dalla seconda privatizzazione non ha dato i frutti sperati perché la temporaneità degli incarichi, introdotta per responsabilizzare la dirigenza, si è rivelata un meccanismo di fidelizzazione agli organi di governo: ancora oggi il titolare del potere di nomina può scegliere di non rinnovare ad nutum l’incarico giunto a scadenza, pur in presenza di valutazioni positive .
Questo assetto ha ingenerato aspettative di carriera legate più al gradimento personale che ai risultati di gestione , ma ha anche relegato il sistema di valutazione a mero adempimento cartolare, rendendolo incapace di misurare la performance in chiave selettiva e realmente meritocratica .
Tali fragilità si intensificano nel contesto istituzionale delle amministrazioni locali, dove tutti gli incarichi dirigenziali sono conferiti dal sindaco o dal presidente della provincia, ai quali spetta l’intera gamma delle decisioni riguardanti la nomina, la conferma e l’attivazione della responsabilità dirigenziale.
Anche su questo versante la giurisprudenza ordinaria ha giocato un ruolo di contenimento molto importante, ma non può essere trascurato che i rimedi discendenti dalla violazione della disciplina degli incarichi non sono in grado di assicurare una tutela pienamente satisfattiva, essendo ancorati alla natura discrezionale dell’atto di conferimento: sebbene sia stato sostenuto che il titolare dell’incarico non confermato, in qualità di aspirante al rinnovo, potrebbe esercitare un’azione di nullità facendo valere la violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte dell’amministrazione che lo abbia pretermesso rispetto ad un altro candidato , è pacifico che l’inadempimento delle clausole generali produce conseguenze meramente risarcitorie, fatta salva la sola possibilità di ottenere la ripetizione della procedura laddove la p.a. abbia del tutto omesso di motivare la scelta effettuata .
In seconda battuta vi è il nodo delle garanzie in fase di perdita anticipata dell’incarico ricoperto.
La regola per cui l’operato dell’organo gestionale può essere sindacato da chi conferisce l’incarico soltanto nell’ambito delle regole procedimentali che attraversano il circuito della responsabilità dirigenziale può essere facilmente infranta attraverso la tecnica della riorganizzazione fittizia degli uffici dirigenziali.
La dismissione anticipata degli incarichi dirigenziali interessati da processi di riorganizzazione della macrostruttura è ampiamente contemplata sia nella legislazione regionale, sia nella normativa regolamentare di province e comuni . Tale congegno è stato a lungo previsto anche della contrattazione collettiva, a ciò abilitata ex art. 109, comma 2, d.lgs. 267/2000 .
È altresì noto che l’art. 1, comma 18, d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. dalla l. 14 settembre 2011, n. 148, ha disciplinato una specifica fattispecie di revoca anticipata con passaggio ad altro incarico dirigenziale per motivate esigenze organizzative, dettando una disciplina applicabile in via generale a tutte le amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 .
Nell’ottica della salvaguardia dell’effettiva autonomia della dirigenza, consimili meccanismi sono ancora più insidiosi del mancato rinnovo ad nutum: come detto, la prassi amministrativa non è nuova all’allestimento di rapide trasformazioni delle strutture dirigenziali, il cui fine ultimo è sovente quello di ricollocare in posizioni non strategiche i soggetti considerati meno affidabili o sgraditi agli organi di indirizzo politico .
La dottrina ha prontamente rilevato come l’art. 1, comma 18, d.l. n. 138/2011 possa dar luogo a forme di spoils system mascherato, che dribblerebbero il momento fondamentale della valutazione e le garanzie previste per l’accertamento della responsabilità dirigenziale .
La magistratura ordinaria, dal canto suo, ne ha contrastato le applicazioni distorsive, esportando anche in questo campo la tecnica della motivazione rafforzata: la S.C. ha da ultimo affermato che la rimozione anticipata dall’incarico può ritenersi giustificata soltanto se le ragioni organizzative siano esplicitate e direttamente attinenti al settore cui è preposto il dirigente, non essendo all’uopo sufficiente addurre l’esigenza di una mera rotazione fra i diversi uffici dirigenziali presenti nell’assetto dell’ente .
Sul piano delle tecniche sanzionatorie, peraltro, quest’ultimo indirizzo postula il diritto dell’interessato alla riassegnazione dell’incarico che gli sia stato ingiustamente revocato, per il tempo residuo di durata e detratto il periodo di illegittima revoca. Il che costituisce un rimedio ben più penetrante di quello conseguibile nell’ipotesi del mancato rinnovo ad nutum, dove si ammette, come detto, la sola tutela per equivalente.
Nonostante questi correttivi, tuttavia, è evidente come il sistema continui a scaricare le proprie patologie soltanto sul corpo burocratico, omettendo di sanzionare adeguatamente i titolari delle funzioni di indirizzo politico, che rispondono delle loro azioni esclusivamente davanti al corpo elettorale. E ciò ancorché la magistratura contabile abbia dato una «stretta» significativa sulla condizioni che determinano l’insorgere della responsabilità per danno erariale a carico degli organi di indirizzo che abbiano abusato della discrezionalità politica .
In ogni caso «lo stato di dispersione delle responsabilità resta tuttora uno dei punti nevralgici rispetto alla tematica dell’inefficienza», tant’è vero che le proposte in campo per lenire le iniquità del sistema sono assai numerose, ancorché si collochino su un piano ancora meramente speculativo .

8. Le correzioni improprie: la clausola di salvaguardia ex art. 31 del Ccnl Area funzioni locali

In attesa che il sistema degli incarichi dirigenziali venga corretto per via legislativa, la contrattazione collettiva si è ingerita nella materia con alcune previsioni che fanno oltremodo discutere.
Ci si riferisce all’art. 31 del Ccnl per il personale dell’Area funzioni locali, sottoscritto il 17 dicembre 2020, che disciplina un’apposita «clausola di salvaguardia economica» a tutela del dirigente che abbia perso l’incarico in corso per effetto di un processo di riorganizzazione, vedendosene assegnare un altro con retribuzione di posizione inferiore .
In tale ipotesi la previsione negoziale stabilisce che al dirigente venga riconosciuto un differenziale di retribuzione di posizione, valevole nei limiti di un triennio e con importo che si riduce progressivamente nel tempo, in funzione perequativa del trattamento accessorio perduto .
Orbene, va detto subito che le meccanismi del genere non costituiscono una novità del sistema di relazioni sindacali: clausole di salvaguardia finanche più spinte di quella oggi in vigore erano già state sperimentate nei contratti delle tornate precedenti, dove si arrivava a garantire l’attribuzione di incarico equivalente a quello perso sui due piani economico ed organizzativo .
Sulla legittimità di tali previsioni la dottrina ha espresso più di un dubbio, ancor prima che l’art. 40, d.lgs. n. 165/2001, nella versione riformulata dal «Decreto Brunetta», vietasse esplicitamente all’autonomia collettiva di intervenire in materia di conferimento e incarichi dirigenziali .
Su posizioni analoghe si era fino ad ora collocata anche Corte dei conti, la quale aveva precisato che l’effetto di continuità retributiva assicurato da tali clausole avrebbe aggirato l’art. 19, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, nella parte in cui sancisce l’inapplicabilità dell’art. 2103 c.c. al passaggio fra incarichi dirigenziali diversi .
Alla luce di questi caveat era lecito attendersi che anche la nuova misura introdotta dall’art. 31 del Ccnl Area funzioni locali venisse censurata.
Senonché le Sezioni Riunite della Corte dei conti hanno reso parere favorevole sulla clausola in questione, inquadrandola come disciplina di attuazione del già citato art. 1, comma 18, d.l. n. 138/2011, nella parte in cui garantisce al dirigente transitato ad altro incarico per esigenze organizzative la conservazione del trattamento economico in godimento, fino alla scadenza del termine previsto .
Prevale dunque, ad avviso dei giudici contabili, l’esigenza di assicurare un bilanciamento «tra la flessibilità organizzativa dell’amministrazione e quella contrapposta del dirigente a mantenere una continuità stipendiale per il periodo di durata dell’incarico in corso»: affermazione, quest’ultima, che può essere condivisa sul piano delle finalità (evitare modalità di precarizzazione surrettizia degli incarichi dirigenziali) , ma non su quello delle scelte tecniche.
A ben vedere la clausola di salvaguardia è criticabile non solo perché in contrasto con l’assetto dei rapporti tra le fonti, ma soprattutto perché assicura una perequazione del trattamento economico con oneri indirettamente a carico della collettività, la quale è chiamata a sostenere sia l’aggravio finanziario imposto a tutela del dirigente passato ad un incarico di “minor peso”, sia il costo del trattamento economico del dirigente che subentri nella posizione rimasta scoperta .

9. Uno sguardo alle prospettive future: le modifiche al sistema di reclutamento introdotte dal d.l. 9 giugno 2021, n. 80, conv. dalla l. 6 agosto 2021, n. 113.

Come si è detto più volte, la scelta di distanziare la sfera dell’politica da quella gestionale ricorrendo ai moduli del diritto privato o a quelli del diritto pubblico ha un’incidenza tutto sommato relativa se la compagine dirigenziale non possiede una propria identità di corpo, né dispone dell’autorevolezza necessaria per resistere alle ingerenze della classe politica .
Il processo di riforma del sistema amministrativo, mai fermatosi negli ultimi trent’anni, ha fallito più sul piano organizzativo che su quello strettamente giuridico : sono mancate tanto la cultura della direzione politica nell’attività di programmazione quanto quella manageriale nell’attività di gestione, e ciò ha fatto sì che la distinzione tra politica e amministrazione rimanesse una mera costruzione giuridica, destinata a vivere più sul piano dei principi astratti che dell’esperienza concreta .
Nelle amministrazioni italiane queste condizioni stentano ad affermarsi per via di alcune barriere di lungo corso, come l’elevata età media dei dipendenti pubblici, la caratterizzazione in chiave giuridico formalistica delle procedure di reclutamento e l’assenza di politiche formative orientate allo sviluppo di competenze operative sul campo, specialmente in un momento storico che lega il «saper fare» all’utilizzo di tecnologie avanzate.
Su questi aspetti si discute da molto tempo , proprio perché in fondo vi è piena consapevolezza che soltanto una dirigenza preparata e autorevole può svolgere un effettivo ruolo di contrappeso alla parzialità delle scelte politiche, diffondendo la cultura dell’innovazione e modificando il tradizionale modo di concepire l’esercizio dei poteri pubblici .
Nel prossimo futuro un’importante svolta su questi temi potrebbe essere offerta grazie alla massiccia campagna di reclutamento aperta dal d.l. 9 giugno 2021, n. 80, conv. dalla l. 6 agosto 2021, n. 113, recante «misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia».
Tale decreto ha introdotto una serie di regole che modificano la disciplina sull’accesso alla dirigenza pubblica ex artt. 28 e 28-bis, d.lgs. n. 165/2001, qualificando queste ultime come princìpi fondamentali cui deve adeguarsi anche la legislazione regionale .
In particolare, l’art. 3, comma 3, l. n. 113/2021, ha inserito un nuovo comma 1-bis nell’art. 28 del T.u.pi., ai sensi del quale è previsto che «nelle procedure concorsuali per l’accesso alla dirigenza, in aggiunta all’accertamento delle conoscenze delle materie disciplinate dal decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, i bandi definiscono gli ambiti di competenza da valutare e prevedono la valutazione delle capacità, attitudini e motivazioni individuali, anche attraverso prove, scritte e orali, finalizzate alla loro osservazione e valutazione comparativa, definite secondo metodologie e standard riconosciuti» .
In secondo luogo, ed in linea con la complessiva revisione della disciplina delle progressioni di carriera dei dipendenti pubblici, viene introdotto un nuovo comma 1-ter, che permette l’accesso alla dirigenza di seconda fascia al personale a tempo indeterminato già in servizio nell’amministrazione reclutante, in possesso dei titoli di studio previsti a legislazione vigente e che abbia maturato almeno cinque anni di servizio nell’area o categoria apicale, nei limiti di una apposita quota di riserva del 30% dei posti disponibili , da calcolare in via residua rispetto alla percentuale minima del 50% destinata alla copertura dall’esterno tramite il corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola nazionale dell'amministrazione.
Si tratta di misure che, oltre ad abbracciare la prospettiva delle selezioni competence based, perseguono l’obbiettivo di contemperare le aspettative di avanzamento di ruolo del personale pubblico che abbia ricoperto posizioni apicali, con l’ineludibile principio del reclutamento dall’esterno mediante selezioni aperte al pubblico ed improntare ai criteri del merit system .
Naturalmente bisognerà vedere come capacità, attitudini e motivazioni individuali saranno concretamente giudicate, dovendosi individuare metriche di valutazione che garantiscano l’oggettività della selezione e l’imparzialità delle scelte .
Non va poi trascurato che, sempre ai sensi del nuovo art. 20, comma 1-ter del Tupi, «una quota non superiore al 15 per cento è altresì riservata al personale di cui al periodo precedente, in servizio a tempo indeterminato, che abbia ricoperto o ricopra l’incarico di livello dirigenziale di cui all’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165».
Quest’ultima novità è quella che desta maggiori preoccupazioni, poiché consente di fatto un accesso extra ordinem nei ruoli dirigenziali in favore di coloro che abbiano ricoperto incarichi esterni ex art. 19, comma 6, del T.u.p.i, dove le scelte seguono più facilmente la logica della cooptazione. Il che rende la deroga al principio del concorso pubblico quantomeno sospetta di incostituzionalità, ancorché anche qui sia prevista una fase di valutazione comparativa centrata sugli ambiti di competenza da valutare, da accertarsi con lo svolgimento di prove scritte e orali di esclusivo carattere esperienziale .
Ad ogni modo, il progressivo affermarsi dell’idea secondo cui le politiche di reclutamento non devono basarsi soltanto sull’accertamento di conoscenze formali – talvolta al limite del nozionismo – rappresenta un cambio di passo da non sottovalutare per il passaggio dall’amministrazione della legalità all’amministrazione di risultato.
Questa direttiva va seguita con serietà e convinzione: almeno se si vuole puntare all’ingresso di una nuova dirigenza qualificata, che conosca la legge e disponga del senso della legalità, ma che sappia anche migliorare i processi erogativi e recuperare efficienza, dimostrando di «saperci fare», anche quando si tratta di resistere ai «capricci» della politica .

 

 

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