TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Heri dicebamus. Sono trascorsi quasi diciotto anni da quel 3 dicembre 2004, dove ebbe luogo nell’aula Calasso della Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza la presentazione degli scritti di Mattia Persiani, ma possiamo ben parlare di ieri, non solo per il silente corso del tempo, apparentemente negato dal ritrovarsi oggi tanti protagonisti di allora, ma per il senso rivestito da questo incontro, che riprende un discorso solo sospeso. Ma se pur sembrerebbe doveroso rinviare a quanto si disse allora sull’intensa produzione del nostro autore, si può anche prescinderne, perché quella successiva, dal 2004 in poi, si snoda con una ammirabile continuità nei principi ispiratori, ripresi e difesi come irrinunciabili per un giurista doc, come ebbi occasione di qualificarlo allora. Nessun altro, a mio giudizio, è riuscito a influire così intensamente su tutti i tre rami classici del diritto del lavoro, a partire dalle monografie divenute classiche, partorite in quel decennio 1962-72 rimasto epocale per l’evoluzione della materia, dalla normativa paternalista e individualista del passaggio dagli ’50 ai ’60 a quella costituzionalista e promozionale dello Statuto dei lavoratori. Mi riferisco, come ben noto a quel decennio intenso che vide apparire, nel 1962, “Il sistema giuridico della previdenza sociale”, nel 1966, “Contratto di lavoro e organizzazione”, nel 1972, “Saggio sull’autonomia privata collettiva”.
Se, ieri, dedicai il mio intervento a un giurista doc, oggi, oggi penso di farlo ad un giurista contemporaneo, per rimanere tutt’ora ben presente nel dibattitto scientifico, ma, soprattutto, per essere rimasto straordinariamente attuale, pur restando sempre fedele a sé stesso.
Si può ben dire che per Persiani il problema pregiudiziale sia stato sempre quello del metodo, di cui ebbe modo di avere due referenti, Emilio Betti e Francesco Santoro-Passarelli, ma certo fu il secondo a influire maggiormente, senza dedicarvi un corso preliminare, perché impegnato più che a discuterne, a farne oggetto di applicazione. Tanto è che Persiani, in una intervista concessa a Valerio Maio (Intervista a Mattia Persiani, in Lavoro, Diritto, Europa, 2020/3), dopo aver ammesso di aver seguito le lezioni di diritto civile e di diritto del lavoro di Santoro-Passarelli dal 1957 al 1969, commenta “quelle lezioni mi hanno insegnato a ragionare partendo dalla legge – si faceva lezione con il codice in mano – e, al tempo stesso, mi hanno consentito di apprendere le tecniche dell’interpretazione utilizzando il metodo dei concetti e non, come a volte si dice, dei dogmi” (ivi, p. 5).
Non si deve isolare questo rapporto maestro e allievo dal particolare contesto storico in cui si venne formando il giovane Persiani, a cominciare da quello accademico, che, come da lui ricordato nella citata intervista, lo vide studente in una Facoltà di “mostri sacri”, che tali ci appaiono ancor più a distanza di oltre due terzi di secolo: Gaspare Ambrosini, Piero De Francisci, Gaetano Arangio Ruiz, Tullio Ascarelli, Alberto Asquini, Emilio Betti, Carlo Arturo Jemolo, Francesco Calasso, Francesco Carnelutti, Francesco Santoro-Passarelli, Filippo Vassalli. Non solo, come assistente volontario di Santoro-Passarelli, ebbe modo di avere scambi culturali con altri suoi allievi, Giuseppe Benedetti, Nino Cataudella, Nino Freni, Angelo Lerner, Nicola Lipari, Giuseppe Suppiej; nonché con collaboratori di altre cattedre privatistiche, Giovanni Ferri, Agostino Gambino, Duccio Libonati, David Messinetti, Stefano Rodotà e di altre materie, Vittorio Bachelet, Giuliano Grifo, Elzo Fazzalari (Intervista, p. 6).
Ho ripreso tutti questi nomi, restituiti dal ricordo nostalgico di Persiani, per evidenziare il clima dominante, quale creato da una élite capace di declinare effettivamente al più alto livello la ricerca come propedeutica alla didattica, una aristocrazia del sapere giuridico fondata sull’autorità della dottrina vis-à-vis della giurisprudenza - la teoria che influenza la pratica - cui si era sollecitati ad appartenere, attraverso una lunga e faticosa acquisizione della tecnica necessaria. La cultura condivisa era prevalentemente quella privatistica, fondata sulla autonomia della società civile, ancora vista e vissuta come bisognosa di difesa rispetto alla espansione della deriva pubblicista. Ne costituiva la strumentazione quella contenuta nel Codice civile del 1942, rivista e rivissuta alla luce di una lettura costituzionale, ben consapevole dell’equilibrio faticosamente raggiunto in sede di Assemblea costituente nel rapporto fra lavoro e mercato.
Proprio con riferimento al Codice civile del 1942, per quanto riguardava il diritto del lavoro si creava un problema teorico e pratico, visto che questo risentiva in modo evidente dell’influsso corporativo, già a partire dalla sua inclusione in un Titolo V, dove sotto la rubrica “Del lavoro”, veniva disciplinato sia il lavoro che l’impresa, nel contesto di una economia finalizzata all’interesse nazionale, con una enfasi interclassista. Ma, a prescindere da tale enfasi, rimasta largamente a livello di affermazioni letterali, la disciplina era articolata sulla regolamentazione sia delle fonti corporative, primo fra tutte il contratto collettivo corporativo, sia del rapporto di lavoro subordinato, sottratto al regime dei contratti tipici di cui al libro IV. Ora, a farsi carico del traghettamento nel nuovo sistema furono i professori di diritto civile, con a protagonista principale proprio il maestro di Persiani, che rinviene nel testo costituzionale le basi della sua ricostruzione all’insegna della dottrina privatistica e civilistica. Quanto al diritto sindacale, rispetto a cui già si era mossa la rinata Cgil e la prima giurisprudenza di merito, Francesco Santoro-Passarelli vede consacrata dall’art. 39, co. 1, Cost. l’autonomia privata, nella sua variante collettiva, riprendendo dal cod. civ. le nozioni di associazione non riconosciuta per il sindacato e di contratto collettivo di diritto comune, per il contratto collettivo. A sua volta, quanto al diritto del rapporto individuale, vede recepita, fin dall’art. 1 Cost. - per poi trovare un’articolata espressione negli articoli seguenti - una sua origine formalmente paritaria, in forza di un contratto, ma che mette capo ad una subordinazione puramente funzionale, cioè limitata strettamente all’esecuzione della prestazione.
Queste sono le coordinate in cui si muoverà Persiani, se pur proponendo soluzioni innovative, destinate ad avere forte impatto sulla dottrina, senza, peraltro, rimanere prigioniero della prospettiva privatista, laddove non sembra conforme alla carta fondamentale; tanto da prendere una posizione decisamente pubblicista, una volta spostatosi sul terreno, allora del tutto vergine, del diritto previdenziale, affrontato con la prima monografia, chiamando in causa l’art. 3, co. 2, Cost. Al riguardo avrà occasione di difendersi dall’accusa di aver contribuito alla lievitazione senza fine della spesa pensionistica, col sostenere che un libro non si poteva ritenere dotato di una tale influenza sul legislatore, comunque l’art. 38, co. 2, Cost. si riferiva “a mezzi adeguati alle … esigenze”, non certo ai livelli di reddito conseguiti.

2. Non sono sicuro, ma sospetto che Persiani non si sarebbe impegnato nel discorso sul metodo, se, con quel cambio di una parte autorevole della dottrina avvenuto a partire dal decennio ’60, non fosse stato sotto attacco, in quanto cultore di un diritto civile spregiativamente etichettato come borghese. Come tale meritevole di essere avversato e rovesciato, nella forma soft di un sindacato di costituzionalità diffuso e radicale, sulla presunzione di una anticostituzionalità congenita della legge; o nella forma hard dell’“uso alternativo del diritto”, come se la nostra carta fondamentale fosse una qual sorta di democrazia progressista con una accentuata tinta socialista.
Nella intervista citata, afferma di servirsi di una ermeneutica dei concetti e non dei dogmi (Intervista, p. 5), facendo capire che i concetti di cui si serve non sono assiomi, indimostrabili e invariabili posti ex cathedra dalla dottrina come nella pandettistica, ma categorie dedotte dal diritto positivo, quindi, destinate a mutare nei contenuti col mutare di quel diritto. Il primato è sempre assegnato alla legge, secondo lo spirito e il dettato della Costituzione, che, quindi, deve essere rispettata nell’attività interpretativa della dottrina e della giurisprudenza, dandone una lettura che non la prevarichi o addirittura la disattenda. In tale senso riesce chiarissima la formula costituzionale per cui “i giudici sono soggetti solo alla legge, non hanno nient’altro a cui dar conto, ma proprio per questo la devono rispettare.
Che cosa è esattamente il ricorso alla giurisprudenza dei concetti, che, pure, è stata contrapposta a quella degli interessi, come più neutra e obbiettiva, non inquinata dalla interferenza di valori sociali ed economici? Nel materiale pubblicato in questo volume, il tema viene affrontato in polemica col guru della sinistra pura e dura, Umberto Romagnoli, che lo aveva qualificato “creatura angelica”, tutt’altro che un complimento, visto che dipendeva da un deficit cognitivo, non essere stato in grado di comprendere “l’intreccio che lega strettamente cultura, politica e diritto”.
La mossa è stata quella di rispondere con la voce di Massimo D’Antona, nel contributo commemorativo (Diritto lavoro. Ricordando Massimo D’Antona, ancora sulla questione del metodo nel diritto del lavoro, pp. 3 ss.) trattandosi di un autore che - per spessore scientifico e spirito riformatore, di cui è stato testimone a costo della vita - non poteva certo essere visto come uno di parte; e lo eleva a “modello significativo del giurista moderno”, in cui evidentemente si riconosce. Tutto questo verrà ripreso e arricchito negli scritti successivi (Diritto del lavoro, Conflitto industriale e conflitto generazionale (cinquanta anni di giurisprudenza costituzionale, pp. 15 ss., Osservazioni sulla dottrina giuslavoristica nel trentennio dopo la Costituzione, pp. 35 ss., Ancora sul diritto civile e il diritto del lavoro, pp. 71 ss., Diritto del lavoro e sistema di produzione capitalistico, pp. 71 ss.) a partire dalla regola aurea del compromesso, che, come tale è stata assunta dalla giurisprudenza costituzionale. Applicata nel diritto del lavoro, non significa certo la riesumazione di una concezione interclassista o classista, ma di una considerazione che sia basata su una contrapposizione non antagonista, ma dialettica, senza essere squilibrata tutta da una parte, quella lavoratrice. Una posizione, questa, che Persiani manterrà ferma, contando anzitutto sul testo costituzionale che, nel riconoscere la proprietà privata e la libertà di impresa, fa proprio il modello capitalista occidentale; ma confortandolo con l’osservazione, scontata alla luce dell’esperienza, che senza l’impresa non si dà occasione di lavoro. Si, può, oggi provare sorpresa circa il fatto che tale opinione sia stata contestata fino a creare scandalo, ma per quanto si sia giurato e spergiurato contro, oggi il connubio stretto fra il modello capitalista che non per niente si definisce occidentale, temperato fin che si vuole, costituisce lo scenario in cui può prodursi e radicarsi il nostro regime democratico.
Tale regola aurea del compromesso deve presiedere all’attività sia del legislatore, sia dell’interprete. Nel delineare il percorso dell’interprete riesce chiaro come Persiani non faccia propria la storica contrapposizione fra giurisprudenza dei concetti e giurisprudenza degli interessi, perché questi ultimi rilevano nella fase preliminare, quella della precomprensione, intesa come “ragionamento problematico e valutativo”, che tiene conto di tutti quelli in gioco, se e in quanto configurabili come valori costituzionalmente rilevanti. Nella fase successiva, però, “l’individuazione del punto di vista giuridico non può e non deve essere influenzata dalle valutazioni corrispondenti alle opzioni di fondo dell’interprete, in quanto quel punto di vista esprime le valutazioni accolte dal legislatore, quindi dal diritto positivo”. In questa fase l’interprete diviene un “tecnico”, termine che Persiani rivendica con orgoglio, perché tale da caratterizzare il vero giurista, un professionista padrone di una “tecnica”, che non si può affatto improvvisare, ma solo acquisire attraverso scienza ed esperienza. Servono i concetti, che, per quanto già elaborati, devono essere sempre aggiornati nei loro contenuti, in ragione dei mutamenti legislativi sopravvenuti. Questo vale per il contratto, per l’atto illecito, per la responsabilità civile, via via arricchiti da una evoluzione dello stesso diritto civile, che a questo punto, in ragione dello sforzo di correggere la parità formale esistente nei vari rapporti con la protezione sostanziale del contraente debole, ha perso molto del suo presunto carattere borghese.
Dunque, le categorie civilistiche sono i contenitori recepiti dal codice, cui ricondurre le singole norme, per condividerne le rispettive discipline, ma sono contenitori variabili negli ambiti ricoperti e nei regimi applicabili, in forza del fluire della legislazione extra-codicistica. Peraltro, tali categorie sono necessarie per rendere le norme applicabili, anche se poi Persiani nulla dice dell’effettiva tecnologia richiesta, cioè quella racchiusa nell’art. 12 delle preleggi. Ma sa bene che tramite tale tecnologia, composta da criteri attinenti alla lettera e all’intentio, elevata a ratio con una molteplicità di varianti, fra cui essenziale per lo stesso Persiani quella sistematica, è possibile giungere a interpretazioni differenti, tutte compatibili con gli interessi/valori perseguiti dalla norma, sì che la scelta è affidata alla capacità di argomentare in maniera persuasiva, che deve essere quella del professore, al servizio della legge e non quella dell’avvocato al servizio della clientela. Non manca, peraltro, una apertura al “diritto vivente”, dato da una interpretazione giudiziale consolidatasi nella giurisprudenza e nella dottrina, intesa quale quella uscita vincente fra le varie potenzialmente applicabili ai sensi dei principi costituzionali, come tale la legge stessa nella sua lettura acquisita come del tutto prevalente o addirittura esclusiva. Se, poi, nessuna delle interpretazioni praticabili riesca conforme a tali principi, sì da rendere impossibile una interpretatio secundum constitutionem, non si deve procedere oltre, ma rimettere la questione al Giudice delle leggi, il solo competente al riguardo, auto-limitazione, questa, che Persiani, con una controllata amarezza, reputa non sempre rispettata come si dovrebbe (Diritto del lavoro, La residua tutela reale del lavoratore illegittimamente licenziato e la recente giurisprudenza, p. 397)

3. Se in apertura dei saggi dedicati al metodo, Persiani fa parlare Massimo D’Antona, in quella dei contributi relativi al diritto sindacale, chiama in causa lo stesso Francesco Santoro-Passarelli (Diritto del lavoro, Rileggendo “l’autonomia dei privati nel diritto dell’economia, pp. 109 ss.), cui riconosce il merito di fondatore del diritto sindacale post costituzionale, per aver basato il suo impegno ricostruttivo sul primo comma dell’art. 39 Cost., in una prospettiva strettamente privatistica. Una prospettiva, questa, destinata a rimanere ferma anche in caso di una legge sindacale attuativa dei commi seguenti, ritenuta comunque tale da non rimettere in discussione un sistema fondato su una autonomia privata. Declinata, questa, non solo come individuale, ma anche come collettiva, in forza di un interesse collettivo, definito come “indivisibile nel senso che non può essere soddisfatto soltanto per alcuni, mentre se è soddisfatto lo è per tutti”. In quanto tale, secondo quella definita da Persiani una felice intuizione del maestro, l’interesse collettivo è superiore all’ individuale, perché riferibile “ad una di quelle formazioni sociali nelle quali l’uomo ‘svolge la sua personalità’ e che trovano testuale riconoscimento nell’art. 2 della Costituzione”. Il che è reso possibile senza uscire dall’ambito del diritto privato, con l’utilizzo del mandato conferito tramite l’iscrizione nell’interesse di altri, sì da riuscire irrevocabile ai sensi degli artt. 1723 e 1725 cod. civ. Una costruzione del maestro, questa, peraltro, non condivisa, poi, da Persiani, che fa derivare la irrevocabilità dallo stesso art. 39, co. 1.
Ma Persiani non si mostra affatto inavvertito circa tre problematiche sorte in dottrina, a cominciare dalla teoria dell’ordinamento intersindacale, che, elaborata da Gino Giugni all’inizio del decennio ’60, sarebbe stata coronata da una straordinaria fortuna ancora lungi dallo spegnersi. L’obiezione è quella classica mossa alla antesignana teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, se intesa come la coesistenza di più ordinamenti tutti originari; cosa, peraltro, che non sembra essere stato condivisa dallo stesso Giugni, sia che la intendesse una formula destinata a risvegliare l’attenzione della dottrina per la reale articolazione del fenomeno sindacale; sia che la ritenesse una ricognizione della effettività dell’ordinamento intersindacale, considerato “dal suo interno”, a quanto intuisce Persiani, cioè a prescindere dall’ordinamento statale, chiamato in causa solo successivamente per verificare se tale effettività vi trovi rispondenza e addirittura promozione. A conferma di questa intuizione vale la dissonante presa di posizione di Giugni con riguardo al conflitto collettivo, elevando lo sciopero nell’ordinamento intersindacale ad autentico garante e sanzionatore dell’equilibrio fra le parti sociali, ma declassandolo a diritto individuale nell’ordinamento statuale,
Persiani ne tace, ma penso che il suo atteggiamento critico rispetto alla teoria dell’ordinamento intersindacale, sia riconducibile al rifiuto di considerare coperte dall’art. 39, co. 1, Cost. entrambi le parti, lavoratrice e datoriale, trovando quest’ultima una collocazione nell’art. 41, co. 1 Cost., con una relazione tutt’affatto asimmetrica nella legittimazione costituzionale. Questa risulterebbe fondata rispettivamente sulla libertà di organizzazione sindacale di cui all’art. 39, co. 1 e sulla libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41, co. 1; sì da non poter fondare un ordinamento intersindacale rilevante per quello statuale, costruito su un rapporto costituzionalmente paritario fra le due componenti. Ne segue in Persiani una sottovalutazione della parte obbligatoria rispetto a quella normativa, su cui è concentrata tutta la sua attenzione, con particolare riguardo circa la natura e l’efficacia del contratto collettivo, assunto nella sua singolarità. Insomma, la parte obbligatoria resta del tutto sfumata nella sua ricostruzione, per la vaporosa rilevanza giuridica. A cominciare con la condivisa equiparazione di efficacia fra contrattazione nazionale e aziendale, che ridimensiona le clausole di rinvio, se pur con la possibilità di farle valere tramite l’art. 28 St. lav.; e a seguire con la dimostrata tiepidezza verso gli accordi interconfederali, con cui dovrebbe essere recepito nell’ordinamento statuale il sistema di Giugni. Richiama l’accordo del 2011, relativo alla contrattazione aziendale, per ricavarne la regola della maggioranza nelle delibere della Rsu; ma è ben consapevole che la Rsu riguarda la presenza sindacale in azienda promossa dal pur amputato art. 19 St. lav., senza incidere direttamente sul sistema contrattuale.
Passando oltre, del tutto rilevante, è la difesa nei confronti della critica mossa a Francesco Santoro-Passarelli di coltivare l’idea di categorie esistenti a priori, come ambiti predefiniti in cui poter dar vita ad organizzazioni sindacali, una eredità del sistema corporativo, almeno in apparenza fatta propria dall’art. 39, co. 2 ss., Cost. L’argomentazione è sottile, non esistono categorie a priori, deducibili dalla realtà produttiva né introducibili ad opera di una normativa pubblica; esistono solo dei gruppi che nell’atto stesso in cui si costituiscono in funzione di un interesse collettivo, individuano i loro ambiti operativi, conclusione che vede confermata dal ridimensionamento giudiziario dell’art. 2070 cod. civ.
Non poteva mancare una netta presa di distanza dalla ricostruzione del contratto collettivo di diritto comune come fonte di diritto, sostenuta dalla dottrina pubblicistica, con conseguente efficacia generale; trattasi, infatti, di una questione di effettività, non di efficacia. Ricostruzione, questa di fonte di diritto, ripresa dalla dottrina giuslavorista all’indomani della privatizzazione del pubblico impiego, con conseguente funzionalizzazione del contratto, cosa ritenuta del tutto incompatibile da un punto di vista privatistico. Ma, attenzione, Persiani, sembra quasi ignorare tale riforma, che forse sente estranea per la forte ingabbiatura legislativa che la caratterizza con riguardo alla contrattazione collettiva, proprio per assicurarle una efficacia generale.

4. L’apporto originale di Persiani riemerge negli scritti successivi (Diritto del lavoro, Ancora sull’autonomia privata collettiva, pp.127 ss., Osservazioni sulla revisione della dottrina del diritto sindacale, pp.135 ss., Ancora sulla sopravvenuta illegittimità costituzionale dell’art. 19 della legge n. 300 del 1970, pp. 149 ss., Osservazioni sui limiti della concorrenza fra sindacati, pp. 253 ss.), dove affronta il problema del modus operandi del contratto collettivo sul contratto individuale. C’è un primo passaggio in cui pare condividere l’orientamento diffuso per cui l’efficacia del contratto collettivo opera ex latere della parte datrice, tenuta ad applicarlo a tutti i dipendenti, per il principio di non discriminazione. Ma, poi, in un secondo passaggio, qui ex latere della parte lavoratrice, si concentra sulla adesione al sindacato che, comunque non è di per sé al singolo contratto collettivo, con una incorporazione in quello individuale. Se ci fosse una tale incorporazione ne risulterebbe congelato quel potere sindacale direttamente attribuito dall’art. 39, co. 1, Cost., in funzione di un interesse collettivo proprio, individuato e attivato con la stessa costituzione del gruppo. L’adesione iniziale o successiva del singolo lavoratore costituisce solo una precondizione della prevalenza di detto interesse collettivo rispetto al suo interesse individuale. Qui andrebbe rivenuta l’efficacia reale del contratto collettivo, senza necessità alcuna di richiamare la sopravvivenza dell’art. 2070 cod. civ., come fatto dalla giurisprudenza, né il novellato art. 2113 cod. civ.
Ma quale contratto collettivo vis-à-vis del moltiplicarsi delle organizzazioni sindacali? Persiani parte da un principio base, cioè quello del reciproco riconoscimento fra le parti destinate a sedersi al tavolo negoziale, se pur prendendo atto che esiste una contrattazione delegata, cui devono essere ammesse le confederazioni comparativamente più rappresentative, ma qui non si tratterebbe più di contratti collettivi di diritto comune, ma di regolamenti delegati che sembrerebbero avere per Persiani una efficacia eteronoma. In questa prospettiva il problema del dissenso non poteva che uscirne fortemente ridimensionato, una volta sottoscritto da un sindacato il contratto collettivo non può essere rimesso in discussione né dagli iscritti a quel sindacato eventualmente dissenzienti né dagli iscritti ad un altro sindacato non firmatario. Una soluzione coerente con la sua ricostruzione sistematica, ma, mi verrebbe da dire, con la stessa nettezza con cui viene sostenuta, sembra voler superare nella teoria la problematicità della frammentazione della contrattazione collettiva suscitata dalla pratica.

5. Si deve dare atto a Persiani di averci lasciato come lascito, quanto al metodo, il criterio di un compromesso fra due valori, lavoro e impresa, correggendo l’accentuato strabismo del diritto del lavoro così come ricostruito da un corposo indirizzo dottrinale e giurisprudenziale, diventato in passato del tutto dominante; e, quanto al diritto sindacale, il modello di un contratto collettivo di diritto comune, ripreso dal suo maestro e affinato, reagendo al tentativo di farne una fonte di diritto, con carattere pubblico.
Ma il lascito più grande e più noto attiene al rapporto individuale di lavoro, ricondotto tutto e unicamente al contratto, visto e ricostruito come fonte della stessa organizzazione, sì da indurlo a contrastare con una penna da polemista agguerrito le teorie istituzionaliste, che riconducevano in tutto o in parte il contenuto del debitore di lavoro allo stesso inserimento nell’impresa (Diritto del lavoro, Considerazioni sulla nozione e sulla funzione del contratto di lavoro subordinato, pp. 215 ss.). I suoi strali colpiscono la visione codicistica, che, sotto l’influenza della dottrina organicistica tedesca, vedeva nell’impresa una istituzione operante nell’ambito di una economia guidata dall’interesse pubblico, l’imprenditore capo gerarchico e il lavoratore suo collaboratore. Una volta aggiornata la ormai anacronistica visione codicistica, i suoi strali non risparmiano quella che battezza neo-istituzionalista, per cui il contratto di lavoro darebbe vita solo al potere direttivo, mentre l’inserimento nell’impresa la darebbe al potere gestionale, con distinte posizioni giuridiche, che servirebbero ad individuare limiti al suo stesso esercizio. Qui Persiani riprende e ribadisce la tesi avanzata con la sua terza monografia, che, cioè, “la funzione del contratto di lavoro si specifica essere oltre che un contratto di scambio a prestazioni corrispettive, un contratto di organizzazione, proprio perché consente al datore di lavoro di ottenere il risultato del coordinamento, o organizzazione, della prestazione in funzione della soddisfazione del suo interesse risultato dell’organizzazione del lavoro” (ivi, p. 227). Il che andrebbe inteso come una riconduzione alla volontà espressa nel contratto dell’intero carico debitorio del lavoratore, che quindi, contrariamente a quanto contestato da un certo indirizzo dottrinale, non comporterebbe un aggravamento dell’oggetto contrattuale, bensì, tutto al contrario, un suo contenimento nell’ambito convenuto, cui devono essere ricondotti sia il mutamento delle mansioni sia il cambio del luogo di adempimento. Con un certo eccesso di autocompiacimento, Persiani giunge a dire che la sua costruzione “è stata in genere condivisa al punto da essere ‘tacitamente assurta a lessico della materia’” (ivi, p. 229). Solo che subito dopo Persiani deve dare atto che l’intervento dello Statuto dei lavoratori del 1970 ha riproposto un rilievo autonomo dell’organizzazione, ospitando la tutela di interessi non solo individuali ma anche collettivi, ma senza per questo arretrare di un passo, in quanto ritiene che sia pur sempre il contratto a far da presupposto della tutela alle relazioni interindividuali creati dalla copresenza nella stessa realtà produttiva.
Su questa premessa ricostruttiva si basano i due contributi dedicati al potere direttivo e al potere disciplinare, ripresi qui dal Tratto di diritto del lavoro, co-diretto da Persiani e dal sottoscritto (Diritto del lavoro, Lineamenti del potere direttivo, pp. 233 ss. e, rispettivamente, Preliminari al potere disciplinare, pp. 261 ss.). Nel riscattare il potere direttivo da una sua derivazione dall’organizzazione considerata come una entità autonoma, ne viene ribadita la riconduzione allo schema del rapporto di lavoro, pur concedendo che possa esserlo “ad una pluralità coordinata di rapporti di lavoro” (Diritto del lavoro, Lineamenti del potere direttivo, p. 239). Se così non fosse, tale potere potrebbe essere non solo contestato dal sindacato, per conto dei lavoratori che vi sono soggetti, ma anche sottoposto ad un controllo di merito da parte del giudice, nel suo stesso fondamento, a prescindere dal modo del suo esercizio.
Né miglior gradimento da parte di Persiani riceve la tesi della considerazione del potere direttivo come “espressione di una supremazia originaria derivante, o connessa con la titolarità dell’impresa”, dato che pur sempre si muove da un punto di vista teso a svalutare il rilievo attribuito al contratto, che finisce per essere qui visto in un senso tanto ampio da essere esaustivo dell’intero potere riconosciuto dal codice al datore. Tanto ampio da sostanziarsi non solo “nel potere di dettare ‘le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro (secondo comma dell’art. 2104 Cod. Civ.); ma anche nel potere disciplinare (art. 2106 Cod. Civ.) e nel potere di assegnare le mansioni che devono essere eseguite, siano quelle previste al momento della stipulazione del contratto individuale di lavoro o quelle diverse purché professionalmente equivalenti (art. 2103 Cod. Civ., che prevede lo jus variandi)” (Diritto del lavoro, Lineamenti del potere direttivo, p. 250). A tale potere direttivo espanso a tutto campo corrisponde lo stato di soggezione, tipizzato come subordinazione, la quale, appunto, finisce per essere definito in via riflessa dalla stessa estensione di quel potere. Potere direttivo, questo, che - proprio in virtù di una legislazione extra codicistica che ne ha circondato l’esercizio attraverso limiti esterni - ha reso la stessa subordinazione sempre più funzionalizzata alla prestazione, intesa non come mera messa a disposizione di energie, ma come attività svolta, così come di volta in volta tradotta nel passare dalla determinabilità contrattuale alla determinazione esecutiva. Più oltre Persiani, in una sorta di processo di affinamento, restringe il potere direttivo al potere di conformazione, relativo alla scelta da parte del datore fra le mansioni previste contrattualmente definite di quelle da eseguire, come tale non configurabile come esercizio di un diritto potestativo; e lo distingue sia dal potere unilaterale di modifica delle mansioni e del luogo dell’adempimento convenuti, sia dal potere disciplinare, questi, sì, ricostruibili come svolgimento di un diritto potestativo.
Proprio tale potere disciplinare ha favorito lo strascico di un punto di vista anti- contrattuale, pur dopo il tramonto delle teorie istituzionalista, in quanto “speciale”, “anormale”, “anomalo”, non riconducibile come quello direttivo al previo accordo ma all’inserimento in un contesto organizzativo, dove l’apparato sanzionatorio civilistico dell’inadempimento riuscirebbe tardivo ed inefficace, per la lentezza della sua applicazione e per la scarsa esigibilità in forma risarcitoria.
Persiani, sulle tracce di Mengoni, dà atto dell’elemento contraddittorio costituito per cui tale potere apparterebbe all’imprenditore non in quanto parte contraente ma capo dell’organizzazione in cui il lavoratore viene inserito tramite il contratto. Ma taglia il nodo ermeneutico appellandosi al diritto positivo, che, con l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, lo avrebbe definitivamente contrattualizzato, sottoponendolo a rigide garanzie sostanziali e procedurali. Ma quale sarebbe l’intento di quel filone dottrinale che ha continuato ad escludere che il potere disciplinare derivi dal contratto di lavoro? Tale esclusione servirebbe “anche a riproporre la separazione tra obbligazione di lavorare e subordinazione e, quindi, a ritenere che la responsabilità civile, connessa all’inadempimento di quella obbligazione, sarebbe diversa e distinta dalla responsabilità disciplinare” (Diritto del lavoro. Preliminari al potere disciplinare, p. 284). Ma anche a venire in aiuto al nostro autore è lo stesso Codice civile che risolve il problema, laddove con l’art. 2106 ricollega le sanzioni all’inosservanza dell’art. 2104, senza distinguere fra i due commi, così facendo ritenere che anche l’inadempienza all’obbligazione di lavorare attivi una responsabilità disciplinare.

6. Tutto bene, dunque, per il nostro autorevole autore. Niente affatto, a partire dai due scritti che aprono la parte dedicata al rapporto di lavoro individuale (Diritto del lavoro, Individuazione delle nuove tipologie tra subordinazione e autonomia, pp. 174 ss.; Subordinazione e autonomia nel rapporto di lavoro, pp. 197 ss.). Ad entrare in crisi è stata proprio la nozione che tipicizza il diritto del lavoro, cioè quella della subordinazione. A dire il vero neppure nella sua definizione iniziale offerta dall’art. 2094 cod. civ., obbligo “a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”, poteva dirsi puntuale, forzata com’era dalla sottintesa visione interclassista, già evidente nella spendita della parola “collaborazione”; ma evidenziata a pieno dalla copertura inclusiva assicurata dall’art. 2095 cod. civ., sì da ricomprendere dirigenti, impiegati e operai. Eppure, fin dalla sua codificazione, la questione della definizione risultava strategica per essere non solo inclusiva per il lavoro subordinato ma anche esclusiva per il lavoro autonomo che, a sensi dell’art. 2222 cod. civ., trovava il suo tratto distintivo proprio nell’essere “senza vincolo di subordinazione”, sì da costituire l’autentica linea di confine fra lavoro subordinato e autonomo. Una linea, questa, ad alta tensione, per la totale asimmetria delle discipline applicabili, hard e soft, sì da rendere il lavoro subordinato dotato di una particolare vis attractiva, peraltro tale da provocare una duplice reazione contrastante: una nella giurisprudenza, battezzata come “pan- subordinazione”, l’estensione del lavoro subordinato; l’altra nella pratica, etichettata come “fuga dal diritto del lavoro”, l’emersione del lavoro autonomo non genuino e sommersione del lavoro nero.
All’ambiguità di partenza la giurisprudenza reagì valorizzando come criterio meglio spendibile rispetto all’universo di riferimento, cioè quello offerto dalla “direzione”, concentrandosi proprio sull’esercizio puntuale e continuo del potere direttivo, trovandosi però a dover fari i conti con il deficit ermeneutico del classico criterio sussuntivo; sì da dovere ripiegare su quello tipologico, cioè il ricorso a ‘criteri sussidiari’ che segnalassero la presenza di tale potere, se pur in modo approssimativo, quali quelli ben noti dell’inserimento nell’impresa, del rispetto di un orario di lavoro, del pagamento scandito nel tempo, dell’esonero dal rischio ecc.
Di questo Persiani è ben consapevole, ma tutt’altro che soddisfatto, tanto da osservare “che il metodo tipologico non offre maggiori certezze rispetto a quelle offerte dal metodo sussuntivo. Anch’esso, infatti, finisce inevitabilmente per assegnare rilevanza a valutazioni soggettive in quanto ‘fonda il procedimento qualificatorio sull’“intuizione dell’interprete” e su un giudizio per “approssimazione”’ e ‘comporta l’affidamento delle sorti del procedimento stesso a qualcosa che si avvicina al puro “stato d’animo” dell’interprete e che si sottrae all’autorità del punto di vista giuridico” (Individuazione, p. 182). Un buon servito schietto e crudo, che se dovesse essere preso sul serio dal lettore, comporterebbe di mandare al macero tutta la giurisprudenza consolidata, ma è espressione dello stato d’animo di un giurista che persegue il mito di una incontestabile autorità del punto di vista giuridico, ben consapevole di non poterlo vedere realizzato, ma proteso verso un adeguamento sempre più ravvicinato fra fatto e diritto.
Dunque, una risposta persuasiva non l’ha data la giurisprudenza ordinaria, ma neppure la giurisprudenza costituzionale chiamata “a sindacare la legittimità costituzionale di disposizioni della legge che, direttamente o indirettamente, incidevano sulla qualificazione di rapporti di collaborazione, ovvero ne presupponevano la qualificazione” (Subordinazione, p. 200). In una rapida ma completa rassegna, Persiani individua fasi di questa giurisprudenza costituzionale: la prima, inaugurata da Corte cost. n. 51/1967, che rimetteva alla legge la qualificazione del rapporto di lavoro subordinato; la seconda, aperta da Corte Cost. n. 121/1993, che la riservava alla Costituzione, dato che era propedeutica all’applicazione di una dote garantista ispirata dalla stessa Carta. Quale fosse la definizione costituzionale sarebbe venuta a precisarlo la ben nota Corte Cost. n. 30/1996, con la copresenza di due caratteristiche peculiari, quali date dall’alienità dal processo produttivo e dal risultato. Persiani non si avventura nella discussione dottrinale suscitata da tale sentenza circa la indisponibilità del tipo così “costituzionalizzato”, che nulla dice sul quantum del corposo regime protettivo debba essere applicato, in blocco o in modo selettivo. Non lo fa, perché squalifica la definizione della doppia alienità come sociologica o economica, quindi extragiuridica, comunque priva di validità ermeneutica come d’altronde l’esperienza dottrinale e giurisprudenziale avrebbe dimostrato, a prescindere da qualche forzatura destinata ad essere riassorbita.
Un equilibrio instabile destinato a rompersi con il passaggio dalla fase fordista a quella post-fordista, terminologia peraltro non usata da Persiani, che comunque ne sottolinea la caratteristica fisica più evidente il venir meno dell’assoluta centralità della realtà produttiva della grande e media impresa, ancora assunta a referente dallo Statuto dei lavoratori, come tale capace di assicurare una occupazione a tempo pieno e indeterminato. Accanto a questa realtà destinata comunque a sopravvivere, se ne afferma un’altra che tende a trasformare e a ridurre l’area della subordinazione: trasformarla dentro l’azienda, col sostituire alla soggezione l’autonomia esecutiva; ridurla, coll’introdurre fuori dell’azienda una intera “famiglia” di collaborazioni, a copertura di una “area grigia”. A questa ultima fenomenologia che mette in crisi la classica dicotomia fra autonomia e subordinazione, senza che la legge se ne faccia carico, la dottrina del decennio ’90 reagisce con una ragguardevole attività propositiva che rimette in discussione la secca alternativa proposta dagli artt. 2094 e 2222 cod. civ., con una sorta di graduazione circolare delle tutele nella dimensione unitaria del lavoro sans phrase o con l’inserzione di una tipologia intermedia chiamata appunto tertium genus. Persiani conferma la sua originaria propensione per il tertium genus, trovandone la conferma - al momento in cui scrive l’Individuazione, nel 2014 - nella stessa evoluzione della legislazione: dall’introduzione delle collaborazioni “continuative e coordinate”, che in quanto non qualificabili come subordinate, sarebbero altrimenti rimaste fuori dall’area coperta dal nuovo processo del lavoro, fino alla previsione del lavoro a progetto dalla c.d. legislazione Biagi, da lui accolta con estremo favore, come una vera rivoluzione tipologica. Se pur consapevole della finalità antielusiva di tale legislazione, Persiani ne valorizza la capacità di rispondere ad una effettiva esigenza emersa nella realtà produttiva, liberata dalla camicia di forza costituita dalla dicotomia lavoro autonomo e lavoro subordinato, anche se deve constatare con una punta di rammarico che la stessa disciplina è risultata costrittiva, verrebbe da aggiungere specie nell’interpretazione giurisprudenziale. Tant’è che nella quaestio sorta a proposito della “genuina temporaneità” del contratto a progetto, si spinge a negarla, adducendo che la realizzazione del progetto può avere tempi lunghi o incerti. Dissente così dall’indirizzo dominante dell’essere tale contratto finalizzato proprio ad impedire un rapporto non subordinato affidato solo al trascorrere del tempo, ma così ne attenua il carattere antielusivo del progetto, come tale destinato ad essere realizzato in un tempo più o meno definito. Il che, però, gli permette di affermare una “contiguità logica e giuridica tra le collaborazioni coordinate istituite ai sensi della disciplina dettata dal legislatore del 1973, quando siano ‘rivisitate’, e il lavoro a progetto previsto dal legislatore del 2003” (Individuazione, p. 191), sì da farle appartenere ad una stessa famiglia, battezzata come tertium genus fra i due tipi tradizionali del lavoro subordinato e del lavoro autonomo, se pur pare considerarlo comunque lavoro “autonomo genuino”. Come individuare il carattere differenziale di questo tertium genus? Verrebbe da dire che per Persiani è tutto nel suo carattere anfibio, perché diversamente dal lavoro autonomo c’è il coordinamento e diversamente dal lavoro subordinato il coordinamento deve essere deciso di comune accordo, nonché realizzato non con direttive ma con istruzioni, nel rispetto dell’autonomia nella esecuzione lavorativa del collaboratore.
Persiani, poi, segue l’evoluzione legislativa, a cominciare dall’intervento correttivo della l. n. 92/2012 (Diritto del lavoro, Considerazioni sulla nuova disciplina delle collaborazioni non subordinate, pp. 297 ss.), dove polemizza duramente contro quella che considera una perturbazione della ricostruzione originaria del lavoro a progetto - pur ritenuta composita nelle finalità perseguite e approssimativa nelle tecniche utilizzate - per avervi ricondotte “prestazioni rese in regime di lavoro autonomo” eseguite da soggetti titolari di partite Iva, in presenza di almeno due delle condizioni previste, con la sfacciata ipocrisia di ammettere la prova contraria. Nell’eventualità di tale presenza, non superata da una prova contraria, ne segue quella battezzata in dottrina come la “doppia trasfigurazione”, cioè, prima, la riduzione a collaborazione coordinata e continuativa, poi, per essere priva di progetto, la trasformazione in rapporto di lavoro subordinato. Confesso di aver trovato in queste pagine l’ironia glaciale e corrosiva del miglior Persiani, che applicata alla legge fa pensare, mentre applicata alla dottrina qualche volta fa male.

7. Ulteriore tappa di questa panoramica sulla produzione del nostro autore con riguardo alla copertura legislativa dell’area compresa fra il lavoro autonomo e subordinato, è data da uno scritto, presentato con il titolo riduttivo di Note, relative alla problematica sollevata dall’art. 2, co. 1 (Collaborazioni organizzate dal committente) del d.lgs. n. 81/2015 (Diritto del lavoro, Note sulla disciplina di alcune collaborazioni coordinate, pp. 325 ss.). Persiani si sbarazza con noncuranza della disputa dottrinale circa la differenza fra etero-direzione e etero-organizzazione, non fosse altro perché metterebbe in causa la sua ben nota ricostruzione del contratto di lavoro come di organizzazione; e se ne sbarazza sostenendo che la prima può essere intesa come una specificazione della seconda e viceversa.
Essendo rimasto lo scenario lo stesso, con il ritorno in vigore dell’art. 409, n. 3 c.p.c. e con il mantenimento degli artt. 2094 e 2222 cod. civ., il problema si ripropone nei termini già considerati del divario fra subordinazione e coordinamento, se pur con un tratto differenziale, perché quando il “committente non si limiti a esercitare il potere di impartire istruzioni di una prestazione già definita contrattualmente, ma organizzi ‘anche’… i ‘tempi’ e il ‘luogo’ del lavoro, deve trovare applicazione ‘la disciplina del lavoro subordinato’” (ivi, p. 327-328). Senza, però, che il rapporto sia per questo equiparabile ad uno di lavoro subordinato, perché l’oggetto convenuto in termini di mansioni da svolgere rimane immodificabile. Riemerge qui quello che Persiani, civilista doc, costituisce l’elemento fisionomico del contratto di lavoro subordinato, cioè l’esistenza dello jus variandi, inteso come potere di modificare le stesse mansioni di assunzione, cioè l’oggetto stesso inizialmente convenuto.
Fra le molte interpretazioni proposte dalla dottrina, il nostro autore finisce per condividere esplicitamente quella per cui l’art. 2, co. 1, abbia introdotto “una presunzione relativa o assoluta che sia, dell’esistenza di una situazione analoga a quella della subordinazione” (ivi, p. 328), dove a dover essere sottolineata è proprio la spendita della parola “analoga”, quindi non coincidente, con la precisa finalità di arginare una ‘fuga dal lavoro’, che, d’altronde non sarebbe stata contenuta neppure dall’introduzione del lavoro a progetto.
Com’è suo costume, quando dalla sistematica si passa all’interpretazione letterale, Persiani lavora col bisturi del chirurgo maxillo-facciale, sì da escludere che il riferimento ai “tempi” e al “luogo”, debba considerarsi una endiadi inscindibile, essendo parole che designano situazioni profondamente diverse, per cui i giudici potranno in relazioni alle previste istruzioni impartite dal committente ritenere determinante l’elemento temporale o l’elemento logistico. Ma, se si vuol salvare la riconducibilità della figura di cui all’art. 2, co. 1 nella famiglia caratterizzata dal coordinamento, bisogna interpretare la conseguente attribuzione della “disciplina del rapporto subordinato” come riferita solo al lavoratore, non anche al committente, perché altrimenti quest’ultimo usufruirebbe anche del potere direttivo, risultando parificato in tutto e per tutto al datore di lavoro. Il che sarebbe successo se il legislatore avesse lavorato anche sulla fattispecie, eliminando il coordinamento a favore della subordinazione, ma in verità lo ha fatto solo sugli effetti, come prova un dato puntuale, che, cioè, la normativa in parola è applicabile solo a decorrere dal 1° gennaio 2016. Comunque, se pur ridotti gli effetti alla sola disciplina del rapporto di lavoro posta la protezione del collaboratore, questa non si applica integralmente, restando fuori la tutela previdenziale, se non altro per ragioni di bilancio.
Una volta uscita la circolare del Ministro del lavoro n. 3/2016 (Diritto del lavoro, Ancora note sulla disciplina di alcune collaborazioni coordinate, pp. 337 ss.), ne contesta sia la affermazione che l’endiadi tempi e luogo debba considerarsi inscindibile sì da richiederne una presenza congiunta; sia che la disciplina applicabile debba ritenersi comprensiva di qualsiasi istituto legale o contrattuale normalmente applicabile in forza di un rapporto di lavoro subordinato, ivi compreso l’inquadramento previdenziale. Persiani non fa mai riferimento all’art. 2, co. 2, che pur è stato molto richiamato e utilizzato in dottrina, ma, avendo configurato la fattispecie di cui all’art. 2, co. 1 come collaborazioni coordinate, non intravvede problemi di disponibilità del tipo nelle eccezioni ivi previste.

8. A modo di congedo da questa tematica (Diritto del lavoro, Ancora sul concetto di coordinamento, pp. 403 ss.) l’autore riafferma la sua tesi dell’esistenza di un tertium genus, costituito dalla famiglia delle collaborazioni coordinate di cui all’art. 409, n. 3 c.p.c. cui ricondurre in debita sequenza sia il lavoro a progetto che il lavoro di cui all’art. 2. Trova occasione per ritornarvi nell’uscita di Cass. n. 1663/2020, che, a proposito dei rider, ha considerato la posizione del collaboratore di cui all’ art. 2, co. 1, ‘equiparabile’ a quella del lavoratore subordinato, in ragione e in forza di ‘indici fattuali’ vaghi e tautologici, come “prestazioni di lavoro prevalentemente personali” e “organizzazione dei tempi e del luogo di lavoro”, considerati equivalenti agli ‘indici sussidiari” utilizzati dalla giurisprudenza per accertare l’esistenza della fattispecie di cui all’art. 2094 cod. civ. Invece di negare esplicitamente l’esistenza di un tertium genus, la Cassazione avrebbe dovuto individuarne il tratto differenziale rispetto al lavoro autonomo e al lavoro subordinato, quale dato sua appartenenza alla famiglia delle collaborazioni coordinate, cioè il coordinamento convenuto fra committente e collaboratore ed eseguito tramite non direttive ma istruzioni da parte dello stesso committente.
Su questa via trova un ostacolo nel testo della dell’art. 15 della l. n. 81/2017, che integra l’art. 409, n. 3 c.p.c. aggiungendo “la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento, stabilite di comune accordo, dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”. Solo che se lo si dovesse prendere nel suo significato letterale, secondo il nostro autore, costituirebbe “un non senso, perché lo stesso concetto di ‘coordinamento’ presuppone che ci sia un soggetto coordinante e uno coordinato, cioè, un soggetto che esercita un potere, sia pure diverso da quello direttivo, e un soggetto che a quel potere è assoggettato... D’altro lato, il ‘coordinamento’, proprio perché costituisce una attività, si realizza nel tempo, onde non può essere assimilato, né confuso con l’‘accordo’ che si realizza soltanto nel preciso momento in cui il contratto è concluso anche se da questo, come avviene anche nel caso delle collaborazioni di cui trattasi, deriva un rapporto giuridico di durata” (ivi, p. 411 s.).
Di fronte alla carenza della lettera, Persiani pare uscirne con ricorso a quella ermeneutica per concetti che privilegia. Una volta ricondotte le collaborazioni coordinate alla famiglia di cui all’art. 409, n. 3, queste devono essere assunte come caratterizzate da un coordinamento inteso come programma negoziale convenuto all’inizio, restando al committente il solo potere di dare istruzioni. Ora la fattispecie di cui all’art. 2, co. 1, appartiene a tale famiglia, per cui se ne deduce che la sua lettera deve essere interpretata di conseguenza. Una lettura, questa, che non sarebbe scalfita dalla modifica dell’art. 2, co. 1, attuata nel 2019, con riguardo alla soppressione della espressione relativa ai “tempi” e al “luogo”; mentre resterebbe più problematica la conversione dell’avverbio “esclusivamente” con “prevalentemente”. Solo che, a seguito di queste due modifiche, la definizione della fattispecie di cui al novellato art. 2, co. 1, diventa ancor più simile a quella di cui all’art. 409, n. 3 c.p.c., che è priva di qualsiasi limitazione ai ‘tempi’ e al ‘luogo’, nonché provvista di una espressione comparabile a quella di “lavoro prevalentemente personale”, quale offerta da “opera… prevalentemente personale”. Il che rende discutibile la differenza di disciplina che consiste, per l’art. 409, n. 3 c.p.c., in una tutela processuale e in una limitata tutela previdenziale, mentre per il novellato art. 2, co. 1, in una protezione identica a quella assicurata in caso di subordinazione, se pur qui manca proprio la subordinazione.

9. È sull’istituto centrale del rapporto di lavoro subordinato, cioè il licenziamento disciplinare che nel gruppo di saggi qui raccolti si dispiega tutto il potenziale ermeneutico di Persiani che unisce all’intento costante di un approccio sistematico, un impegno quasi certosino nell’esame del dato letterale, col procedere per blocchi di ragionamento, con un linguaggio essenziale e consegnati a paragrafi distinti, ma uniti da un unico filo rosso, quale costituito dal risultato interpretativo perseguito, che così appare fornito di un denso impatto persuasivo.
Mi pare meritevole privilegiare due saggi significativi del contesto in cui si muove Persiani. Non è affatto vero che non sia consapevole del quadro politico e sociale tenuto presente dal legislatore, basta riprendere in mano Confessioni di un giuslavorista nonagenario sui limiti al potere di licenziamento (Diritto del lavoro, pp. 377 ss.), che ricostruisce il percorso limitativo del potere di licenziamento dal codice del 1865 ad oggi, scandendolo nei suoi passaggi significativi, sì da offrirne un panorama unico. Basta rileggere quel saggio per trovarvi un autore sempre ben consapevole del contesto sociopolitico dove è maturato ogni intervento legislativo, sì da poterne declinare l’intentio, ma al tempo stesso senza farne una regola interpretativa, essendo la sua effettiva portata giuridica rimessa all’interpretazione diretta a dedurne, mi verrebbe da dire, la ratio. Non manca neppure una valutazione complessiva di questo percorso fatto in ragione di una persistente tensione verso la tutela reale, che ha portato a enfatizzare l. n. 300/1970 rispetto alla l. n. 604/1966 e a ravvisare un vero e proprio riflusso verso la tutela obbligatoria nella involuzione legislativa iniziata dalla legge Fornero. Qui il giurista chiama in causa l’avvocato per testimoniare l’autentica mitizzazione della tutela reale, che sembrerebbe significare una reintegra effettiva che, non potendo essere imposta, resta rimessa ad una volontà datoriale del tutto ostativa sì da risolversi quasi sempre in una transazione su base monetaria. È la presa d’atto di una posizione dominante nella pratica, che, però viene richiamata per sottolineare l’insipienza insita nella rivendica di una tutela reale che tale non è e non può essere, il legislatore dovrebbe per rendere dissuasiva economicamente la mancata reintegra, senza dover escludere l’adozione di qualcosa di simile all’attempt at the Court proprio della cultura giuridica anglosassone, se pur in una prospettiva molto lunga.
Peraltro, in La sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018: parturiunt montes (Diritto del lavoro, pp. 377 ss.) prende atto con riserva del rigetto della questione di costituzionalità circa l’ambito di applicazione di cui all’art. 1, co. 1 (Campo di applicazione), riservato ai lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo, ritenuto dalla Corte conforme alla finalità occupazionale perseguita, nonché ragionevole. Ma concentra la critica il fatto di aver considerata l’indennità risarcitoria, pur elevata a 36 mensilità, “adeguata” e “dissuasiva”; nonché quello di aver concesso un largo potere discrezionale al giudice nel decidere il quantum, lasciando spazio ancora una volta ad un “incontrollabile soggettivismo giudiziario”, in senso del tutto contrario ad un legislatore intenzionato a permettere al datore un calcolo preventivo del costo del licenziamento una volta che sia stato impugnato e ritenuto illegittimo dal giudice. Sullo sfondo di questi saggi, che, a mio giudizio andrebbero letti per primi, si collocano gli altri contributi dedicati al d.lgs. n. 23/2015, che riprendono e motivano ampiamente la sua riserva circa il rigetto dell’eccezione di costituzionalità relativo al campo di applicazione di cui dell’art. 1, co. 1, così come motivata da Corte cost. n. 194/2018; e sottoponendo ad un esame oculato spezzoni significativi dell’art. 2 (Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale, riguardo alla espressione “altri casi di nullità previsti esplicitamente dalla legge”) e, soprattutto dell’art. 3, co. 2 (Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa) riguardo alla frase “in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”, smembrata nelle sue parti, per renderne meglio osservabili. Qui si conferma la capacità di Persiani di lavorare su una lettera legislativa tecnicamente abborracciata fino al limite di risultare priva di qualsiasi significanza, per curvarla a misura del sistema normativo di riferimento.
Anticipata da due Notarelle (Diritto del lavoro, Noterelle su due problemi di interpretazione della nuova disciplina dei licenziamenti, p. 315 ss.; Altra notarella su un problema di interpretazione della nuova disciplina dei licenziamenti, pp. 321 ss.), l’analisi viene ripresa nella lezione tenuta alla Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci, con una panoramica della giurisprudenza intervenuta al riguardo (Diritto del lavoro, La residua tutela reale del lavoratore illegittimamente licenziato e la recente giurisprudenza, pp. 387 ss.).
Nel mentre considera ormai non problematica l’interpretazione dello inciso “rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” che gli sembra consolidata nel senso che “la proporzionalità del licenziamento all’infrazione, una volta esclusa la tutela reale, rileva ormai, esclusivamente al fine di applicare, o no, la tutela indennitaria” (ivi, p. 390); costata come la discussione rimanga accesa sia sulla sostituzione di “fatto contestato” con “ fatto materiale contestato”, sia con l’aggiunta per cui l’inesistenza di tale fatto materiale contestato debba essere “direttamente dimostrata in giudizio”. Quanto a quest’ultima la ritiene infelice, senza poter condividere alcuna delle interpretazioni proposte, non ultima quella di imporre al lavoratore l’onere di provare l’inesistenza del “fatto materiale”, dato che violerebbe sia il principio dell’unicità della prova, “in quanto il datore, per poter dimostrare che il licenziamento è giustificato deve necessariamente dimostrare che il ‘fatto contestato’ esiste”, sia il principio della prossimità della prova, “se non altro perché il lavoratore che non avesse commesso il ‘fatto contestato’ nemmeno potrebbe conoscere le circostanze in cui si è verificato” (ivi, p. 391). Ma, alla luce della regola per la quale non è possibile ritenere una disposizione priva di qualsiasi senso, ripiega su una conclusione già avanzata, ma senza fortuna, con una coerenza rispetto a sé stesso ostinata, all’insegna della ben nota massima ‘amico Plato sed magis amica veritas’, che deve essere al limite difesa anche in perfetta solitudine.
Il più scabroso dei problemi resta proprio l’espressione “fatto materiale contestato”, pur dopo Cass. n. 12174/2019, che, l’ha equiparata a “fatto disciplinarmente rilevante’, con una motivazione che ha suscitato in Persiani insuperabili perplessità, per essere incorsa in quella spendita di argomentazioni come “diritto vivente” e “interpretazione costituzionalmente orientata”, non di rado utilizzata per coprire un bypass della legge, la sola fonte costituzionalmente rilevante.
A chiusura di questa ricognizione della lettura offerta da Persiani circa la problematica aperta dalle leggi del 2012 e 2015, con riguardo licenziamento disciplinare, metterei la sua valutazione circa la sospensione della decorrenza della prescrizione dei crediti del lavoratore, in vigenza del rapporto di lavoro: decisa da Corte cost. n. 63/1966, come disciplina speciale in deroga a quella civilistica, è stata, poi, temperata da Corte cost. n. 174/1972, che l’ha esclusa in presenza di una “stabilità adeguata”. (Diritto del lavoro, Situazione psicologica di timore, stabilità e prescrizione, pp. 351 ss.). Una volta evaporata la tutela reale, ciò che preoccupa il nostro autore è la prevedibile tentazione della giurisprudenza a ritornare sulla disciplina speciale introdotta da Corte cost. n. 63/1966, considerando rimossa in maniera automatica quella limitativa apportata da Corte cost. n. 174//1972. Qui, Persiani ritiene auspicabile un intervento del legislatore o del Giudice delle leggi, ma in difetto, secondo l’impegno a non lasciar mai scoperto un vuoto normativo, destinato ad essere riempito senza rispetto del sistema, si impegna a fondo, offrendo un esempio di una capacità interpretativa del tutto peculiare. Risale fino ad un obiter dictum della motivazione di Corte cost. n. 63/1966, circa il rilievo da accordare alla situazione psicologica del lavoratore, quale caratterizzata da quel metus del rischio di essere licenziato che avrebbe finito per costituire il leitmotiv della giurisprudenza successiva, se pur segnata dalla discontinuità di Corte cost. n. 174/1972, con l’introduzione di una “adeguata stabilità”. Ma non si può dire che quella situazione psicologica sia ancora tale da richiedere una tutela reale, peraltro destinata di regola a convertirsi in una indennità risarcitoria, può ben essere ravvisata, alla luce della discrezionalità del legislatore, nella tutela obbligatoria introdotta dalle leggi del 2012 e del 2015, si da giustificare la sopravvivenza di Corte cost. n. 174/1972.
Vale la pena di ricordare en passant il giudizio favorevole con cui Persiani ha accolto Cass. n. 25301/2015, che ha innovato rispetto ad un indirizzo contrario, sul significato del giustificato motivo obbiettivo, considerandolo legittimo anche quando finalizzato alla ricerca di “una migliore efficienza gestionale o produttiva” o di “un incremento produttivo”, quindi, se del caso del profitto (Diritto del lavoro, Giustificato motivo oggettivo del licenziamento e autorità del punto di vista giuridico, pp. 343 ss.). Vi vede un perfetto esempio di quel compromesso costituzionale fra la libertà dell’imprenditore e la tutela del lavoratore subordinato, che costituisce il filo rosso del suo pensiero, quale criterio che legislatore e l’interprete dovrebbero tenere ben presente. Così, stando alla motivazione, che si basa sia sull’art. 41, Cost. sia sull’art. 3 della l. n. 604/1966, se, da un lato, la tutela del singolo lavoratore non può prevalere sulla efficienza produttiva, a costo di metterne a rischio l’occupazione complessiva, dall’altro non può neppure tradursi in un perseguimento del profitto tramite un mero abbattimento del costo del lavoro.

10. Ho voluto leggere il volume che viene oggi presentato in vista non di una recensione critica, ma di una semplice ricognizione del sistema che vi è delineato, con una organicità e completezza non diminuita dalla copresenza di contributi distribuiti nell’arco di diciotto anni. Non ho avuto bisogno di farmi carico della loro continuità rispetto alla produzione precedente, contraddistinta da una originalità che ne ha assicurato la sopravvivenza scientifica, perché Persiani è un autore estremamente conservatore nel suo approccio, tanto da ritrovare sempre l’eco delle su monografie fondamentali, senza per questo essere inconsapevole del cambiamento, come si è visto a proposito della subordinazione. Posso dire di essere stato confortato dalla lettura a posteriori della bella introduzione scritta da due suoi allievi, Michel Martone e Valerio Maio, due colleghi e amici che ben testimoniano il valore del loro caposcuola, ma nel chiudere questo mio intervento, capisco di non aver soddisfatto il pubblico eletto qui richiamato dal prestigio scientifico di Persiani, dietro all’indiscusso maestro quale uomo si nasconde. Nell’intervista rilasciata a Valerio Maio, c’è un passo significativo, “Sul versante umano i rapporti col professore Francesco Santoro-Passarelli sono stati sempre molto formali, forse in ragione del suo e del mio carattere. Se mai per spiegare meglio cosa intendo, posso riferire che il prof. Walter Bigiavi, che aveva scritto di lui che ‘a quelle altezze non si respira’, quando gli fui presentato a Bologna mi portò in un bar e, mentre aspettavamo la consumazione, mi chiese con l’ironia che lo caratterizzava “ma il tuo maestro ti ha mai offerto un caffè?” (Intervista, p. 5). Ecco Persiani è cresciuto in un clima aristocratico, dove il criterio di ammissione era dato dall’aspirare ad essere una autorità dal punto giuridico, uno parlava coi suoi scritti, che dovevano essere purgati da riferimenti confidenziali, questi erano più che irrilevanti, capaci solo di inquinare i ragionamenti astratti e neutri, se usati nella comune frequentazione segni di debolezza caratteriale. Riservatezza che pare tradursi in una attenzione graduata solo sulla capacità scientifica di cui Persiani si riserva una valutazione in esclusiva, che è andata evolvendo in una crescente percezione pessimistica, con la dissoluzione di quel mondo di eccellenza in cui si era formato, referente obbligato della giurisprudenza. Da qui la sua diffidenza, ma, lasciatelo dire ad uno che ha avuto occasione di conoscerlo da vicino, non è necessario essere considerato al suo livello, che credo conceda a fatica al suo stesso maestro, ma dargli prova di essere una persona leale su cui fare affidamento, non come subalterno ma come amico. Ma per quanto possa riuscire corrosiva a chi ne è destinatario, la sua ironia è espressione della sua umanità, nell’essere rivolta anche a sé stesso, denudato dei molti tocchi e stole attribuitegli nel corso della vita.
Ne volete una prova, bene leggete la poesia di Trilussa che fa da premessa al Trattato, “Lunga è la strada, ma er dippiù l’ho fatto. So dove arrivo e non me pijo pena”. A me fa pensare che “Lunga è la strada, ma er dippiù l’ho fatto”, rappresenti il giurista che si congeda coi due ultimi scritti, Ancora sul concetto di “coordinamento” e Considerazioni di un giuslavorista nonagenario sui limiti del potere di licenziamento, che suonano come testamenti scientifici di un lungo percorso sui temi del tertium genus e del licenziamento; mentre “So dove arrivo e non me pijo pena” rappresenti il credente che vede il suo punto di arrivo stagliarsi prossimo, spogliato ormai di quel paludamento vaticano sotto cui ha cercato di occultare l’alito religioso e proiettato in uno spazio senza tempo.

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