Testo integrale con note e bibliografia

1. Genesi di una riforma
Ritornare oggi sulla genesi della riforma dell’art. 18, recata dalla legge n. 92/2012, potrebbe sembrare un fuor d’opera. Il Governo Monti, che quella riforma ha partorito, non ha mai goduto di buona stampa, né tantomeno ne ha goduto la sua Ministra Elsa Fornero (verso la quale c’è stato a lungo, anzi, un particolare e ingiustificato accanimento personale), per cui le vicende della riforma del mercato del lavoro, così come della riforma delle pensioni, sono state trattate da molti, e spesso ancora lo sono, come una pagina nera da lasciarsi alle spalle prima possibile.
Oppure, più fattivamente, come una pagina bianca da interpretare, visto che non appena la riforma ha guadagnato il mare aperto (per voto del Parlamento, si rammenti, e non per d.lgs.), gli interpreti hanno cominciato a governarla in modo sempre più invasivo, con una serie di operazioni ermeneutiche che hanno riscosso, alla fine, un innegabile successo.
E tuttavia, quantomeno in questa occasione, nella quale siamo a riflettere sulla risalente problematica del regime sanzionatorio del licenziamento prendendo spunto del decennale della riforma, credo che ricordare i modi e il contesto in cui essa è nata non sia superfluo.
Ad esempio, potrebbe sembrare facile farne un tutt’uno con il Jobs Act, e quindi vederla come una tappa saliente dell’offensiva neoliberista che secondo molti (con una valutazione che mi indurrebbe a una serie di distinguo che non interessano qui) ha dominato l’ultimo trentennio, una volta esauritosi il cosiddetto compromesso keynesiano-fordista.
Non c’è dubbio che ci sia, in questo, una parte di verità. La normativa sui licenziamenti era quella più esposta alle critiche neoliberali rivolte all’employment protection legislation e alla cultura degli indici di rigidità come quello OCSE, che di quelle critiche era figlia. Per quanto riguarda l’Italia, era poi fatale, in chiave di realismo politico, che nel cuore degli attacchi finisse, più di ogni altra norma, proprio l’art. 18, che pagava così la propria natura di simbolo, ormai da tempo acquisita in svariate vicende del paese.
Neppure si può dubitare che le tracce di quella visione fossero presenti nella lettera della BCE del 5 agosto 2011, a firma di Trichet e Draghi, che, tra le altre misure che sollecitava il Governo italiano ad adottare al fine di migliorare la competitività delle imprese e l’efficienza del mercato del lavoro, includeva “un’accurata revisione della disciplina dei licenziamenti”.
Ciò detto, il quadro sarebbe profondamente incompleto se non si ricordasse che il tutto si inseriva in una situazione di emergenza finanziaria che si concentrava proprio sull’Italia, oltre che naturalmente sulla Grecia. La situazione dei titoli di Stato italiani nei mercati era particolarmente grave, con l’esplosione dello spread con i titoli tedeschi fino a 574 punti a inizio novembre 2011. La lievitazione incontrollata degli interessi dovuti sul debito pubblico significava campane a morto per un paese già pesantemente indebitato come l’Italia. Non esagerava, quindi, chi preconizzava lo spettro di un default, con la conseguente distruzione del risparmio degli italiani, lavoratori ovviamente inclusi, che ciò avrebbe comportato.
Questo per dire che se si rilegge la lettera della BCE, che costituì la base dei principali impegni politici che sarebbero stati assunti dal Governo Monti, più che l’ideologia neoliberale vi si ritrova soprattutto l’ansia di spingere il Governo italiano ad adottare misure che rafforzassero la reputazione della propria firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio, in modo da rassicurare i mercati finanziari.
Il che poi si inseriva - neppure questo deve essere dimenticato -, in una situazione di forte sfiducia nei confronti dell’Italia, che nulla c’entrava col neoliberismo ma che dipendeva dal conflitto politico-culturale in atto tra i paesi del Nord, che si sarebbero poi detti frugali (ma tra i quali c’era, allora, anche la Germania, e non era una presenza da poco), e quelli indebitati del Sud dell’Europa, con i primi aspramente renitenti a coprire, anche in potenza, i debiti dei secondi.
All’origine della legge n. 92/2012 c’è stato, quindi, soprattutto uno stato di necessità finanziario, comunque si vogliano giudicare le misure che sono state adottate per contrastarlo (prima fra tutte la riforma delle pensioni). La riforma è stata figlia, insomma, di una situazione di emergenza, anche se poi ha cercato di finalizzarla in un’ottica di prima (e, certo, incompleta) realizzazione di una flexicurity all’italiana (ricordo al riguardo la riforma della CIG, che sarebbe stata ripresa in buona parte dal d.lgs. n. 148/2015, e la previsione dell’AsPI, poi diventata NAsPI).
Per tornare al paragone col Jobs Act, il d.lgs. n. 23/2015, di contro, non è nato in un contesto acuto di crisi, ed è stato costruito a partire dalle idee di un gruppo di economisti, certamente influenzate dall’approccio neoliberale per quanto anch’esse abbiano dovuto fare i conti con alcuni dati ordinamentali (come dimostra, ad es., la sopravvivenza della tutela reintegratoria nel licenziamento disciplinare ingiustificato).
Ciò detto sul contesto, tengo però anche a ricordare che, almeno per una parte di opinione, certo non maggioritaria tra i giuslavoristi, l’art. 18 presentava già da prima alcune oggettive criticità, che ne facevano una norma iperprotettiva dei lavoratori anche nella comparazione con le discipline dei principali paesi europei. Le critiche si appuntavano, in particolare sul fatto che il regime sanzionatorio previsto fosse unico per tutti i vizi del licenziamento, dai più ai meno gravi, nonché su quello che, complice la lunga durata dei processi, non vi fossero limiti all’ammontare dei danni che il datore di lavoro poteva essere condannato a risarcire al lavoratore, in aggiunta alla monetizzazione di 15 mensilità introdotta, come alternativa alla reintegrazione prescelta dal lavoratore, dalla legge n. 108/1990.
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2. Una legge di compromessi
Così riepilogato il contesto, è altresì risaputo quali sono stati gli eventi politici che quella situazione ha ingenerato. Precisamente la caduta per consunzione del Governo Berlusconi e la nomina “presidenziale” di un Governo tecnico presieduto da Mario Monti, che ha avuto l’appoggio bipartisan di tutte le forze politiche, eccettuata la Lega, e che ha concentrato il proprio impegno sul recupero della reputazione finanziaria dell’Italia sui mercati finanziari.
Questa caratteristica d’origine ha impresso all’opera del Governo, e quindi anche all’intervento sull’art. 18, una cifra esasperatamente compromissoria. E il compromesso concreto che il testo è stato chiamato a perseguire equivaleva, nello specifico, a una sorta di mission impossible: quella di ridimensionare la tutela reintegratoria – vale a dire il cuore del simbolo politico rappresentato dall’art. 18 – senza però eliminarla (e quindi, in certa misura, anche difendendola), consentendo in tal modo al Governo di confermare l’impegno a una riforma strutturale assunto con le istituzioni europee ed internazionali, e agli schieramenti partitici in campo di apparire, non già come vincitori ma almeno come non sconfitti.
Dopo di che, quando il Governo ha cominciato a diffondere le prime ipotesi di modifica, a febbraio-marzo 2012, il testo è finito in un vortice di spinte e controspinte.
Anzitutto, pressoché da subito, si è rivelata politicamente impraticabile una riforma dell’art. 18 tanto radicale da confinare la tutela reintegratoria al solo licenziamento discriminatorio, applicando per il resto la nuova tutela economica, cioè l’indennità risarcitoria tra 12 e 24 mensilità. Questa idea, peraltro, non era nei voti del Governo bensì in quelli delle associazioni imprenditoriali.
E’ seguita allora una fase in cui è parso che la scelta potesse essere quella di posizionare la linea di demarcazione fra tutela reintegratoria ed economica sulla frontiera verticale della distinzione tra licenziamento disciplinare e quello economico. Questa idea (della quale è un residuo, nel disposto definitivo, la norma di cui all’art. 18, comma 7, ultimo periodo, secondo cui “Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento (per giustificato motivo oggettivo) risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele..”) è rimasta in piedi sino alle ultime bozze del disegno di legge, quando anch’essa è stata respinta per l’opposizione del PD.
A quel punto l’unica scelta rimasta a disposizione è stata quella di far passare la linea tra le due tutele, orizzontalmente, attraverso entrambe le ipotesi di licenziamento ingiustificato, così da isolare, per ciascuna di esse, un’area di ingiustificatezza aggravata o qualificata, nella quale preservare la tutela reintegratoria, e una di ingiustificatezza semplice, nella quale chiamare a dispiegarsi la tutela economica.
Ma quando questo si è concretizzato, cioè quando la tutela reintegratoria in caso di giustificato motivo oggettivo è rientrata dalla porta principale, tale reinserimento è stato “pagato” politicamente dalla parte di sinistra dello schieramento con la riduzione del massimo dell’indennità risarcitoria dalle sin lì ipotizzate 27 a 24 mensilità e con aggiustamenti dell’ultima notte al testo (fatti direttamente in sede di Presidenza del Consiglio alla presenza dei leader di tutti i partiti coinvolti, Alfano Bersani e Casini), finalizzati a ridurre, nel regime dei licenziamenti economici, lo spazio della tutela reintegratoria, e consistiti nei frammenti di norma inerenti alla “manifesta” insussistenza del fatto e al “può altresì applicare”, sui quali si è appuntata, anni dopo, l’attenzione della Corte costituzionale.
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3. Un impianto che ha tenuto
La normativa è così passata nelle mani dei suoi interpreti, che le hanno riservato reazioni prevalentemente negative. Va detto, tuttavia, che diverse di quelle critiche iniziali sono state riassorbite, e, più in generale, che l’impianto della norma ha fondamentalmente tenuto.
Mi riferisco anzitutto alla tesi, sostenuta da alcuni commentatori della prim’ora, che il legislatore aveva modificato surrettiziamente le nozioni sostanziali di giustificato motivo, tra l’altro abolendo il giudizio di proporzionalità. Era evidente, invece, che tale giudizio era stato fatto pienamente salvo, potendo semplicemente accadere che alcune figure di licenziamento sproporzionato fossero passibili di una tutela diversa da quella reintegratoria (una conseguenza, peraltro, sempre più improbabile a seguito degli ultimi sviluppi giurisprudenziali: v. infra, § 4.1).
Neppure mi pare che abbia suscitato particolari problemi la nuova struttura “bifasica” (anzi, “trifasica” in caso di tutela economica: giudizio di ingiustificatezza del recesso, selezione della tutela, determinazione dell’indennità) della valutazione del giudice, una volta che si è compreso che essa non comportava alcuno stravolgimento del modello di controllo, ma si limitava a rendere questo più impegnativo, richiedendo al giudice non già un nuovo accertamento fattuale bensì un’ulteriore valutazione giuridica sulla base del materiale fattuale già raccolto.
Quanto ai contenuti delle tutele previste, non mi pare che siano state avanzate contro di esse censure decisive, in particolare di incostituzionalità.
Ciò vale, in primo luogo, per l’aspetto che rende “attenuata” la tutela ripristinatorio-reintegratoria in caso di licenziamento ingiustificato, ossia la limitazione a 12 mensilità dei danni riconoscibili al lavoratore per il periodo tra licenziamento e sentenza, che ha realizzato un parziale spostamento sul lavoratore del rischio inerente alla durata del processo.
A questo riguardo, peraltro, va ricordato che del pacchetto previsto dalla riforma Fornero è stata parte integrante la previsione di un rito processuale speciale prevedente una fase sommaria prima di quella a cognizione piena. In tanto il tetto delle 12 mensilità si giustificava, in quanto nel contempo erano adottate misure volte a ridurre i tempi di durata media dei processi in tema di licenziamento.
E’ noto che questo obiettivo è stato mediamente raggiunto (le cause di licenziamento sono riuscite ad arrivare in Cassazione in tempi altrimenti impossibili), anche se il rito Fornero ha manifestato criticità (alludo, in particolare, alla necessità di sdoppiare le cause in presenza di più domande) che gli hanno procurato fiere opposizioni, ad esempio da parte di AGI (dalla quale, in questo caso, mi dissocio). Per cui si sta per arrivare all’abolizione del rito, ma col rischio – da quanto si sa dei lavori della commissione sulla riforma del processo civile – che esso non venga sostituito da previsioni che riescano a istituire un’effettiva corsia privilegiata per le cause di licenziamento. Non potrà certo bastare apporre dei termini massimi alla durata dei processi.
Non ho registrato obiezioni decisive, in secondo luogo, neppure contro le tutele indennitarie previste, il vero varco del Rubicone operato dalla riforma (un’indennità risarcitoria da 12 a 24 mensilità in caso di ingiustificatezza del licenziamento, sulla base di vari criteri tra cui quello prioritario è l’anzianità del lavoratore, ed una da 6 a 12 in caso di vizi formali e procedurali e a seconda della gravità dei medesimi).
Questo non stupisce, trattandosi di importi significativi anche sulla base degli standard europei, ad esempio francesi spagnoli e tedeschi. Più puntualmente parlando osserverei che la tutela indennitaria (in particolare quella forte) soddisfa i requisiti previsti dalla sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale con riferimento all’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015: ciò sia sotto il profilo preliminare per cui la tutela in forma specifica non può dirsi costituzionalmente necessitata e può essere quindi sostituita da una tutela per equivalente a carattere indennitario (un concetto reiterato più volte dalla Corte e ribadito, di recente, dalle sentenze n. 59/2021 e n. 125/2022), che sotto il profilo specifico di come questa tutela indennitaria è congegnata, vale a dire lasciando al giudice un ampio potere di apprezzamento tra un minimo e un massimo sufficientemente distanziati e sulla base di una pluralità di criteri che la Corte costituzionale ha ricavato dall’art. 8 della legge n. 604/1966 e che dunque sono sostanzialmente gli stessi dell’art. 18, che proprio all’art. 8 si era ispirato sul punto.
C’è insomma, nell’art. 18, comma 5, un mix tra indicazioni legislative e discrezionalità giudiziale che sembra equivalente a quello che la Corte costituzionale n. 194/2018 ha inteso realizzare dichiarando incostituzionale l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 (e successivamente, con la sentenza n. 150/2020, l’art. 4 sui vizi formali e procedurali).
A ciò si aggiunga che, con riferimento al d.lgs. n. 23/2015 (e il giudizio è ovviamente estensibile all’art. 18, comma 5), un tetto di 24 mensilità è stato esplicitamente ritenuto adeguato dalla Corte nella sentenza citata.
A questo proposito segnalo, peraltro, uno scollamento (pur non produttivo di immediate conseguenze) tra la Corte e la giurisprudenza del Comitato europeo dei diritti sociali, nel dibattito sulla cui forza giuridica mi esimo dall’entrare in questa sede. La sentenza n. 194/2018 ha dichiarato illegittimo l’art. 3 anche per violazione, mediata dagli artt. 76 e 117 Cost., dell’art. 24 della Carta sociale europea; e ciò citando a sostegno la decisione del Comitato europeo dei diritti sociali resa contro la Finlandia a seguito del reclamo collettivo n. 106/2014. Ma successivamente, decidendo in data 11 febbraio 2020 sul reclamo n. 158/2017 presentato dalla CGIL contro l’Italia, lo stesso Comitato ha ritenuto inadeguato, rispetto a un integrale ristoro del danno patito dal lavoratore, persino il massimale di 36 mensilità previsto dal d.lgs. n. 23/2015. I due organismi non sembrano quindi concordi sul concetto di adeguatezza del risarcimento.
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4. La rivincita della reintegrazione…
Ma questa è soltanto una parte, e neppure la più attuale, dell’analisi. Ciò che deve essere vagliato è anche quanto abbiano retto, dell’impianto dell’art. 18, i presupposti delineati dal legislatore al fine di ripartire i compiti tra le due tutele previste in caso di licenziamento ingiustificato (mentre il licenziamento discriminatorio o comunque nullo non presenta alcun problema di ripartizione). E, mentre per l’intelaiatura della norma ho appena detto che essa ha retto, per i presupposti delle tutele – il vero scoglio che il regolatore aveva di fronte – si deve pervenire a una conclusione quasi diametralmente opposta.
Comincio col dire che, nel disegno del legislatore, le due tutele dovevano essere grosso modo bilanciate per quanto concerne i rispettivi ambiti di applicazione. Credo pertanto che non fosse idoneo a leggere la situazione lo schema regola-eccezione, sia che la regola fosse ancora identificata nella reintegrazione o rinvenuta, all’opposto, nella nuova tutela economica (entrambe le opinioni sono state espresse). Ritengo, piuttosto, che la legge contenesse un implicito invito a un equilibrio regolativo, e quindi a non marginalizzare nessuna delle due tutele che il legislatore aveva cercato di distribuire in modo approssimativamente salomonico.
Ciò sul presupposto che quella tra esse non fosse – come secondo me decisamente non era, e non è, diversamente da quanto uno potrebbe pensare leggendo diversa dottrina – una scelta tra civiltà giuridica e barbarie. Sarebbe la prima volta, se no, che ci troveremmo di fronte a una barbarie costituzionalmente legittima, visto che, come già rimarcato supra, la previsione in sé di una tutela economica è stata ripetutamente legittimata, anche in queste sentenze (v. in specie la n. 59/2021), dalla Corte costituzionale. Per tacere del confronto con i regimi sanzionatori in vigore negli altri principali paesi europei, che a livello di tutela economica si tengono in genere più bassi del sistema italiano (sia quello dell’art. 18 che quello del d.lgs. n. 23/2015).
Nei fatti, comunque, le cose sono andate, vistosamente, in una direzione sola, cioè in quella di ampliare l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria e di restringere, sin quasi ad azzerarlo, quello della tutela economica. Tra giurisprudenza costituzionale e ordinaria, l’art. 18 è stato oggetto di una manovra oggettivamente a tenaglia, favorita dall’essere, la prevalente sensibilità della magistratura del lavoro, decisamente dalla parte della reintegrazione. Il che non toglie che queste operazioni sono state assistite, in alcuni casi, da validi argomenti.
Provo perciò a mettere in fila i principali tra questi indirizzi giurisprudenziali (ne ho contati sei).
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4.1. …nel licenziamento disciplinare
Il primo orientamento pro-reintegrazione si è formato attorno al tema dell’“insussistenza del fatto contestato”. Al riguardo, come è noto, è sorto l’interrogativo se il fatto, la cui accertata insussistenza fa salva la tutela reintegratoria, debba intendersi in senso restrittivamente “materiale” o più ampiamente “giuridico”, cioè comprensivo, oltre che dell’elemento oggettivo del fatto, dell’imputabilità, dell’elemento soggettivo e di quello dell’antigiuridicità.
La giurisprudenza di Cassazione (v., ad es., Cass. n. 23699/2014, n. 20540/2015 e n. 29062/2017) non ha avuto dubbi a rispondere nel secondo senso, direi con piena ragione. L’unica accademica precisazione che mi sento di fare, rispetto a questo orientamento che ormai si è affermato, è che era fuor di luogo contrapporre il fatto “giuridico” a quello “materiale”, essendo il primo un concetto neutro che implica semplicemente che a un dato fatto, quale che sia, è ricollegata da una norma la produzione di dati effetti giuridici.
Il punto era ed è, invece, che il fatto rilevante, ai fini dell’art. 18, comma 4, non può che risultare da tutti gli elementi che sono stati contestati dal datore di lavoro ai fini disciplinari. In altre parole quello che conta è il fatto contestato in quanto inadempimento contrattuale e quindi illecito disciplinare.
Il secondo orientamento, anch’esso a mio avviso sacrosanto, ha equiparato all’insussistenza del fatto contestato, dunque non trattandola come un mero vizio procedurale passibile della tutela indennitaria ridotta, l’ipotesi del licenziamento disciplinare intimato in difetto radicale della contestazione dell’infrazione, giacché determinante l’inesistenza dell’intero procedimento disciplinare e non soltanto l’inosservanza delle norme che lo disciplinano (Cass. n. 25745/2016).
Il terzo orientamento da considerare è relativo all’altro presupposto della tutela reintegratoria nel licenziamento disciplinare ingiustificato, vale a dire l’inclusione del fatto, da parte delle previsioni dei contratti collettivi, tra le condotte punibili con una sanzione conservativa.
Personalmente sono sempre stato dell’idea che l’applicazione di questa previsione richieda che il fatto contestato sia stato tipizzato dal codice disciplinare contrattuale come una “condotta”, e dunque con unìapprezzabile precisazione dei suoi elementi costitutivi. Ciò in quanto soltanto in un caso del genere – nel quale la non punibilità di un dato fatto con il licenziamento era conoscibile in anticipo dal datore di lavoro - è possibile ritenere che il datore di lavoro abbia agito in dispregio del CCNL e abbia abusato consapevolmente del potere disciplinare, per cui “merita”, per così dire, di essere sanzionato con la reintegrazione.
Questo approccio era stato condiviso da alcune sentenze di Cassazione (v. ad es. Cass. n. 12365/2019, n. 13533/2019, n. 19578/2019, n. 31839/2019), ma con la pronuncia n. 11665/2022, emessa a seguito di una vicenda deliberativa interna che non c’è bisogno che riepiloghi, la S.C. (poi seguita da altre pronunce conformi: v. Cass. n. 17176/2022) ha mutato decisamente avviso, optando per un’interpretazione estensiva dell’art. 18, comma 4, secondo cui la tutela reintegratoria deve essere applicata anche nel caso in cui la condotta commessa, pur non tipizzata, sia sussumibile, a giudizio del magistrato, sotto una delle clausole generali previste dal contratto collettivo come ipotesi passibili di una sanzione conservativa.
Il primo argomento indicato contro la tesi sin lì prevalente è quello secondo cui essa si tradurrebbe in una violazione dei codici disciplinari collettivi, nel momento in cui impedirebbe al giudice di verificare se una condotta, pur non tipizzata, rientri in una delle clausole generali di cui sopra.
L’argomento non mi pare convincente, giacché la tesi criticata non sottrae nulla al potere-dovere giudiziale di sussunzione. Semplicemente, nel caso che una condotta venga ricondotta, dicasi come esempio, ai casi di “negligenza lieve” passibili di una sanzione conservativa o ad altre formule consimili, la conseguenza sarebbe, secondo questa lettura, l’applicazione della tutela economica e non di quella reintegratoria.
A ruota di questo, l’affermazione secondo la quale “la mancata tipizzazione di alcune condotte tra quelle suscettibili di essere punite con una sanzione conservativa non è di per sé significativa della volontà delle parti sociali di escluderle da quelle meritevoli di una sanzione più lieve rispetto al licenziamento” mi sembra fallace, perché qui non c’è da interpretare la volontà delle parti collettive bensì la norma di cui all’art. 18, comma 4.
L’altro argomento usato pesca esplicitamente dall’armamentario concettuale delle sentenze della Corte costituzionale in materia (c’è qui un chiaro gioco di rimandi tra le Corti), e in particolare dal principio di ragionevolezza di cui ancora dirò.
In questo spirito, la Cassazione ritiene che un’interpretazione restrittiva del disposto sia irragionevole perché “non vi sarebbe alcun nesso eziologico e valoriale tra la tipizzata previsione di una specifica condotta e la funzione di discrimine che le viene attribuita”. Si realizzerebbe, inoltre, un’ingiustificata e illogica disparità di trattamento tra lavoratori.
A me pare che questo discorso sia inficiato dal fatto di assumere l’angolazione del lavoratore, mentre la logica della norma, a rovescio, era quella di punire di più il datore di lavoro che avesse abusato consapevolmente del potere disciplinare. E mi sembra che questa scelta fosse criticabile quanto si vuole, ma che potesse legittimamente rientrare nella discrezionalità legislativa.
Comunque, qualunque cosa si pensi della nuova posizione della Cassazione, non mi sembra affermabile, come invece sostiene la Corte, che quella suggerita non è “una autonoma valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto”, bensì “una interpretazione del contratto collettivo e della sua applicazione alla fattispecie concreta”. Si tratta, sì, di un’interpretazione e applicazione del contratto collettivo, ma sta di fatto che il codice disciplinare del contratto collettivo è il principale veicolo attuativo del principio di proporzionalità.
Di fatto, a seguito di Cass. n. 11665/2022, la stragrande maggioranza dei licenziamenti disciplinari sproporzionati è ritornata nel fuoco della tutela reintegratoria, restandone fuori soltanto quei pochissimi se non numericamente irrilevanti casi in cui la condotta posta in essere non è riconducibile alle previsioni del contratto collettivo, per cui un eventuale giudizio di sproporzione della sanzione prescinde dall’applicazione del codice disciplinare contrattuale.
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4.2..e nel licenziamento economico
Col quarto orientamento pro-reintegrazione entriamo nel campo del giustificato motivo oggettivo. Al riguardo l’operazione più importante, anche se oggi data per scontata ma che qui merita rievocare, è stata quella di riportare nell’ambito della nozione di “insussistenza del fatto” non soltanto l’insussistenza della ragione determinante del licenziamento (la soppressione del posto) ma anche la mancata prova, da parte del datore di lavoro, dell’inutilizzabilità del lavoratore in altre mansioni (v., ad es., Cass. n. 32159/2018; anche Cass. n. 16702/2018 e n. 10435/2018).
Non è mai stato in dubbio, beninteso, che l’inutilizzabilità aliunde del lavoratore sia un presupposto del giustificato motivo oggettivo. Tuttavia, alcuni avevano ragionato sulla formula “insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” per sostenere che, situandosi l’inutilizzabilità a latere del fatto-base che aveva determinato il recesso (la scelta organizzativa), la sua insussistenza non poteva condurre all’applicazione della tutela reintegratoria.
Questa opinione non ha però avuto successo in giurisprudenza, con la conseguenza – anche qui - che quasi tutte le ipotesi di ritenuta ingiustificatezza obiettiva del licenziamento sono state riportate sotto l’ombrello della tutela reintegratoria. Ne sono rimaste fuori soltanto marginali eccezioni come quella – ricordata anche da Corte cost. n. 125/2022, in motivazione - del licenziamento dichiarato illegittimo per violazione dei criteri di correttezza e buona fede nella scelta dei lavoratori adibiti a mansioni omogenee (v. Cass. n. 19732/2018, n. 14021/2016).
Passo ora al quinto intervento, che è quello della sentenza della Corte costituzionale n. 59/2021, la quale ha dichiarato illegittima la famosa locuzione “può altresì applicare”, della cui genesi si è detto in avvio.
Su questa sentenza si sono scritte diverse cose, talvolta sovraccaricandola di significati (ad es. di ristabilimento generale dei valori a fronte di un’ottica economicistica). A me pare che il fulcro della motivazione sia, più riduttivamente, il principio di eguaglianza. La Corte in sostanza afferma: in questo microsistema normativo nel quale l’insussistenza del fatto, in quanto denotante il contrasto più stridente col principio di necessaria giustificazione del licenziamento, è assunta come fondamento comune della reintegrazione sia nei licenziamenti disciplinari che in quelli economici, il fatto che soltanto per questi ultimi il rimedio previsto sia, però, soltanto facoltativo, “è privo di una ragione giustificatrice plausibile”, e contrasta appunto col principio di eguaglianza.
Questo argomento ha effettivamente una sua persuasività, al punto che esso sarebbe stato sufficiente a giustificare l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale.
Tuttavia la Corte ha voluto dire anche altro, ponendosi sul piano di un sindacato di ragionevolezza oggettivamente piuttosto invasivo.
Su questo occorre soffermarsi un istante, perché quello della ragionevolezza ha rappresentato il treit d’union motivazionale di tutto il ciclo di sentenze della Corte in tema di licenziamento. Con la differenza che, mentre nella n. 194/2018 e nella n. 150/2020 la Corte si è mossa all’interno di un meccanismo sanzionatorio prevedente la tutela economica, riportandone a ragionevolezza il funzionamento interno (cioè eliminandone l’automatismo risarcitorio), nella n. 59/2021 e nella successiva n. 125/2022 la Corte ha fatto un salto di qualità, imboccando il sentiero stretto di ritenere irragionevole il ricorso a una soluzione – quella di una compensation economica - della quale ha ribadito, contemporaneamente (soprattutto la sentenza n. 59/2021), la legittimità costituzionale.
E’ noto che quello della ragionevolezza è oramai, in generale, un fiume impossibile da arginare nella giurisprudenza della Corte. Resta il fatto che quando si svincola dall’eguaglianza e dà luogo a un sindacato sui meccanismi interni delle leggi, come nei casi di cui ci stiamo occupando, il giudizio di ragionevolezza si inoltra in una terra incognita nella quale si richiede molta misura per non arrivare a lambire il giudizio valutativo ed invadere così le competenze del legislatore. Per quel che vale condivido, pertanto, il rilievo di Augusto Cerri, secondo cui quando procede per argomentazioni svincolate da un preciso parametro di raffronto questo tipo di sindacato dovrebbe richiedere, ai fini dell’accoglimento, un grado elevatissimo di evidenza del vizio della legge.
Dopo di che, tutto dipende dalle argomentazioni impiegate, che l’interprete ha l’onere di sottoporre a vaglio.
In questo caso, segnatamente, l’irragionevolezza è predicata, oltre che del testo di legge nudo e crudo, del criterio suggerito dalla Cassazione (v. Cass. n. 10435/2018; anche Cass. n. 2930/2019) di fare ricorso sistematico all’art. 2058 c.c., sì da trarne il suggerimento di applicare la tutela per equivalente a carattere indennitario, in luogo di quella reintegratoria, tutte le volte che quest’ultima risulti “eccessivamente onerosa” per l’impresa, in quanto incompatibile con la struttura organizzativa da essa assunta nel frattempo.
Secondo la Corte costituzionale si tratta, anzitutto, di un criterio indeterminato: ma questo non comprendo come possa affermarlo, visto che l’eccessiva onerosità è, per tacer d’altro, persino una causa di risoluzione del contratto ex art. 1467 c.c.
Ma l’argomento principale che viene speso a sostegno dell’irragionevolezza della soluzione è che il giudizio di eccessiva onerosità non avrebbe attinenza col disvalore del licenziamento e verrebbe a dipendere da una valutazione di compatibilità organizzativa riconducibile allo stesso imprenditore, col conseguente rischio di condotte elusive.
A me pare, invece, che la soluzione suggerita avesse una dignità giuridica. Ogni regime sanzionatorio è costruito su una base di bilanciamento di interessi, cioè guardando non soltanto all’interesse della parte lesa ma anche alle condizioni e al contesto di quella che ha commesso l’illecito. Per cui non trovo a priori inaccettabile che l’applicazione o no di una sanzione sia rimessa anche a una valutazione sullo stato dei rapporti tra le parti, e in particolare sulle possibilità di proficua prosecuzione della collaborazione.
D’altronde, se ne fosse continuata l’implementazione nella giurisprudenza, la tesi dell’eccessiva onerosità avrebbe dato origine a una prassi giudiziale in virtù della quale al datore di lavoro sarebbe stato richiesto di portare elementi di fatto e prove a sostegno della non proseguibilità della collaborazione per eccessiva onerosità. Per cui ne sarebbe scaturito, probabilmente, un meccanismo non troppo diverso da quello vigente in Germania sulla base del § 9, comma 2, KSchG (Legge sul licenziamento), secondo il quale il datore di lavoro è abilitato ad addurre al giudice i motivi che facciano apparire dannosa o non più proficua per l’impresa la prosecuzione della collaborazione, rendendo inevitabile la sua cessazione e quindi la sostituzione della reintegrazione con un indennizzo (che, per la cronaca, va da 12 a 18 mensilità a seconda dell’anzianità). Il giudice decide ponderando gli interessi in gioco.
In ogni caso, queste cose le ho dette soltanto per concedere il dovuto onore delle armi all’argomentazione della Cassazione, la cui valenza è ormai superata in ragione del dispositivo di incostituzionalità. Sulla sentenza n. 59/2021 mi riservo, pertanto, di tornare nel finale, allorché mi porrò il problema delle ripercussioni sul Jobs Act.
Vengo, infine, al sesto intervento, e cioè alla sentenza n. 125/2022, che nasce dall’essere stata investita la Corte, sempre da parte del Tribunale di Ravenna (nella stessa causa che aveva dato origine alla prima ordinanza di rimessione), della questione di legittimità costituzionale della necessità che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia “manifesta” per poter dar luogo alla reintegrazione.
Il percorso di ragionamento che la Corte ha seguito nel dichiarare illegittima questa norma è dichiaratamente simile a quello sviluppato con la sentenza n. 59/2021. A mio avviso, però, tra le due pronunce ci sono delle differenze abbastanza significative.
In effetti, nella sentenza n. 125/2022, la comparazione col regime del licenziamento disciplinare non viene praticamente svolta o al massimo è soltanto accennata. In altre parole, se non mi inganno, la Corte non ha ritenuto possibile semplicemente dire: la questione è fondata perché il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto è richiesto nel licenziamento economico e non nel licenziamento disciplinare.
Questo ha di nuovo spostato il fuoco della motivazione della Corte sulla asserita “irragionevolezza intrinseca” della norma. Ciò in nome di numerosi argomenti, dei quali prenderò quelli che mi sembrano i principali.
Si sostiene, anzitutto, che il criterio sarebbe indeterminato. Ma è naturale che sia così, visto che esso attiene alla valutazione degli elementi di prova.
Si sostiene, poi, che il criterio sarebbe “sbagliato”, visto che del fatto si potrebbe predicare soltanto la sussistenza o l’insussistenza, senza terze vie: il fatto o è o non è. A mio giudizio, invece, le terze vie rispuntano nella valutazione degli elementi di prova, atteso che i fatti entrano nel processo non nella loro oggettività materiale bensì attraverso le allegazioni e le prove. Come ha scritto Aurelio Gentili, anche se sembra che quando ricostruisce i fatti il giudice faccia delle asserzioni cognitive, in realtà sta dando dei giudizi.
Pertanto l’“oggettività” del fatto, cui fa riferimento la Corte, è pur sempre filtrata attraverso la verità processuale, e non mi pare che sia impedito dall’ordinamento di indicare al giudice un criterio che presuppone la valutazione, che soltanto il giudice può fare, di quella verità processuale e in particolare delle prove acquisite.
Inoltre, se uno inserisce in una banca dati di legislazione l’avverbio “manifestamente”, vi ritrova innumerevoli esempi di fonti normative che prevedono fattispecie connotate da questo requisito. Si tratta quindi di una tecnica normativa comune, che è riconducibile ad una clausola generale e quindi a una norma a contenuto aperto, per cui la conseguente sentenza rientra nel genere di quelle sentenze cd. determinative che presuppongono un potere interpretativo spiccato, ma pur sempre non creativo di una realtà giuridica. Si può dunque criticare il ricorso a tale requisito, ma non considerarlo un’anomalia sistematica.
La Corte avverte peraltro, più acutamente che nella sentenza n. 59/2021, la possibile contraddizione insita tra il ritenere eccessivo dare al giudice questo potere-dovere di valutazione sul carattere manifesto dell’insussistenza del fatto, e i precedenti (n. 194/2018 e n. 150/2020) che si sono risolti, al contrario, nella valorizzazione della discrezionalità del giudice. E’ un’excusatio non petita che cerca (legittimamente) di anticipare una critica prevedibile. Ma la Corte scioglie il dubbio osservando (§ 9.1) che nel caso del “manifesta” non viene in rilievo questo tipo di discrezionalità “buona”, bensì – la Corte non usa questa parola ma così pare di intendere – un mero arbitrio (quello stesso arbitrio sanzionato dalla sentenza n. 59/2021).
Anche qui rimango perplesso. Il giudice è già, per ovvia investitura istituzionale, il soggetto onerato della valutazione dei fatti dedotti in giudizio, e in questo esercita la sua sovrana discrezionalità (ad es. nell’apprezzamento delle testimonianze) e non un arbitrio. Ritenere che a questo stesso giudice non si potrebbe demandare la valutazione se l’insussistenza del fatto sia risultata, alla luce delle prove, manifesta o no, non mi pare convincente.
In conclusione, gli argomenti spesi dalla Corte nella sentenza n. 125/2022 non mi sembrano nel loro insieme persuasivi sotto il profilo della dimostrazione dell’irragionevolezza. Il che dà alla sentenza, dal mio punto di vista, un livello di persuasività inferiore a quello della n. 59/2021.
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5. I potenziali riflessi sul d.lgs. n. 23/2015
Credo che la rassegna fatta dimostri ampiamente come l’art. 18 sia stato piegato, dalla Corte costituzionale e dagli interpreti anche al massimo livello di legittimità, nella direzione di un ampliamento della tutela reintegratoria, che è tornata ad essere assolutamente dominante nel sistema sanzionatorio, al punto da relegare l’altra tutela a una casistica di nicchia (licenziamento disciplinare sproporzionato senza essere riconducibile a ipotesi di sanzioni conservative; licenziamento tardivo; licenziamento economico disposto in violazione dei criteri di scelta).
Sotto l’impianto più niente o quasi, si potrebbe quindi concludere, dando atto della resilienza dello spirito della reintegrazione.
Resta il fatto che questa evoluzione crea una discrasia sempre più netta col regime del d.lgs. n. 23/2015, che si appunta sostanzialmente su tre dati.
Il primo dato è l’aggiunta dell’aggettivo “materiale” come identificativo del fatto la cui insussistenza produce, anche qui, l’applicazione della tutela reintegratoria. Ma l’inserimento birichino di questo aggettivo non sembra tale da impedire che il fatto sia preso in considerazione in tutti i suoi elementi, così da equiparare, ad es., la non antigiuridicità del fatto alla sua insussistenza (v. Cass. n. 12174/2019). In questo caso, quindi, il gap con l’art. 18 è facile da riassorbire.
Ma le vere difformità tra i due regimi sono rappresentate dalla previsione della sola tutela economica nei casi di licenziamento disciplinare sproporzionato e di licenziamento economico ingiustificato.
Le scelta del legislatore delegato sono state qui sufficientemente nette, per cui non credo che possano essere riassorbite sul piano di un’interpretazione evolutiva o orientata che dir si voglia. L’unico intervento possibile per cambiare le cose potrebbe venire, in ipotesi, da parte della Corte costituzionale. Ma sulla base di quali argomenti?
Per quanto concerne il licenziamento sproporzionato (che qui include anche quello disposto per un fatto ritenuto passibile di una sanzione conservativa da parte del contratto collettivo), mi sembra problematico giungere a una valutazione di incostituzionalità, la quale, data la diversa gravità di questo licenziamento rispetto a quello con fatto insussistente, si ingerirebbe in modo troppo invasivo nella discrezionalità politica del legislatore.
Circa il licenziamento economico, la pietra di paragone è rappresentata dalla sentenza n. 59/2021, che più dell’altra ha ragionato sulla discrasia interna tra le sanzioni previste.
Non credo, però, che il suo ragionamento potrebbe essere puramente e semplicemente riproposto al fine di dichiarare incostituzionale l’esclusione del licenziamento economico dalla reintegrazione nel d.lgs. n. 23/2015..
Il punto mi pare essere il seguente. La Corte costituzionale n. 59/2021 ha ritenuto contrastante col principio di eguaglianza la differenziazione di regime tra licenziamento disciplinare ed economico in quanto tali, oppure l’ha ritenuta tale soltanto a partire da un peculiare contesto normativo (appunto quello dell’art. 18, comma 7) in cui era stato lo stesso legislatore a porre l’insussistenza del fatto come fondamento comune della reintegrazione nelle due ipotesi di licenziamento, ma aveva poi irrazionalmente e senza un motivo plausibile stabilito che tale reintegrazione era soltanto facoltativa nel licenziamento economico?
Se fosse vera la prima interpretazione, cioè se ogni differenziazione di regime sanzionatorio tra licenziamento disciplinare ed economico fosse bandita, ed al legislatore fosse quindi impedito di prevedere un regime diverso, e in ipotesi deteriore per il lavoratore, per il licenziamento economico, allora anche la normativa del d.lgs. n. 23/2015 rischierebbe probabilmente di cadere sotto la scure del principio di eguaglianza. Su questa strada, tuttavia, si realizzerebbe alla fine il paradosso di veder cadere, in nome dell’art. 3 Cost., tutte le soluzioni normative che, in un sistema prevedente anche la reintegrazione nel posto di lavoro, prevedessero però anche ipotesi non reintegratorie, e segnatamente di tutela economica. La sanzione più forte tornerebbe così a fagocitare quella più debole. Alla fine, qualcuno potrebbe pensare, per assurdo, di arrivare ad abolire la reintegrazione, per impedire ad essa di fare da pietra di paragone.
Se invece è vera, come credo, l’altra lettura, cioè che la Corte si è limitata a colpire un’irrazionalità interna a questo micro-sistema normativo, la sentenza n. 59/2021 non dovrebbe avere una ricaduta necessaria sul giudizio di legittimità dell’assetto di cui al d.lgs. n. 23/2015, visto che in quest’ultimo caso non c’è stata una scelta legislativa a monte tendente a porre l’insussistenza del fatto come fondamento comune della reintegrazione, anzi ce n’è stata una opposta.
Sono peraltro consapevole, da ultimo, che queste considerazioni non fanno che accentuare quella che a questo punto risulta come una spaccatura tra i due regimi, e dunque come un vulnus alla razionalità dell’ordinamento. D’altra parte, gli interventi della giurisprudenza sull’art. 18 si sono focalizzati sui presupposti delle tutele e non sull’impianto sanzionatorio, mentre quelli sul Jobs Act hanno riguardato, all’inverso, proprio l’impianto, e non i presupposti, che pure sono, come dire, molto divisivi. In certo senso, ha giovato al d.lgs. n. 23/2015 essere stato più netto ed estremo nella delimitazione di tali presupposti, mentre il più morbido art. 18 si è maggiormente esposto a censure.
Qualunque previsione è rischiosa, ovviamente, ma la mia impressione è che queste discrasie non potranno essere ulteriormente riassorbite a colpi di eguaglianza o di irragionevolezza intrinseca. Per cui la palla dovrebbe tornare, a questo punto, alla politica e al legislatore (come suggerito dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 150/2020), il cui compito, peraltro, è stato reso più difficile proprio dagli orientamenti che si sono illustrati, nella misura in cui hanno accentuato la distanza tra le due normative delle quali occorrerebbe fare una sintesi. Per tacere delle ulteriori complicazioni che discenderebbero dal rimettere sul piatto anche il regime del licenziamento nelle piccole imprese, del resto già al vaglio della Corte relativamente al d.lgs. n. 23/2015.
Sullo sfondo, il dilemma, e in buona sostanza lo stallo, di sempre: reintegrazione o risarcimento?

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