Testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa.
Una delle principali questioni interpretative che, in questi dieci anni di vigenza della l. n. 92/2012, ha mantenuto vivo il dibattito dottrinale e giurisprudenziale creatosi in merito al rito Fornero concerne il rapporto esistente tra la fase sommaria e il giudizio di opposizione .
All’origine della questione si pone la struttura bifasica del procedimento, caratterizzata, appunto, da una prima fase sommaria non cautelare, destinata a concludersi con ordinanza immediatamente esecutiva e da una fase, eventuale, di opposizione proponibile “contro l’ordinanza”, da svolgersi nelle forme di un giudizio a cognizione piena davanti al medesimo tribunale in funzione di giudice del lavoro, scandita, a differenza della prima, da decadenze e preclusioni proprie del rito ordinario del lavoro e definita con sentenza “reclamabile” dinanzi alla Corte di appello.
La presenza di un testo legislativo lacunoso e la equivocità delle possibili interpretazioni hanno reso, tuttavia, alquanto controversa la sua configurazione in termini di procedimento «bifasico-monoprocessuale» ovvero «bifasico-biprocessuale». A tale riguardo, ci si è chiesti se il procedimento sommario e l’opposizione rappresentino o no fasi di un unico procedimento; se il giudizio di opposizione possa costituire una mera prosecuzione della prima fase; se sia un giudizio di primo grado ad ogni effetto ovvero se svolga una funzione anche impugnatoria.
La questione è piuttosto delicata non fosse altro per le ricadute che, in questi anni, la giurisprudenza di legittimità ha fatto discendere sul piano tanto del profilo della compatibilità tra il giudice della fase sommaria e quello dell’opposizione e dell’ipotizzato contrasto con i principii di terzietà e imparzialità, quanto dell’oggetto del giudizio di opposizione rispetto alla fase sommaria.

2. Il rapporto tra procedimento sommario e giudizio di opposizione.
Le sezioni unite hanno ricostruito il rapporto tra procedimento sommario e giudizio di opposizione in termini di procedimento «bifasico-monoprocessuale» sposando l’impostazione (confermata, univocamente, dai successivi arresti giurisprudenziali) secondo cui il procedimento sommario e l’opposizione rappresentano fasi di unico giudizio di primo grado.
In particolare, secondo Cass., S.U., 18 settembre 2014, n. 19674, il rito Fornero si caratterizza per «l’articolazione del giudizio di primo grado in due fasi: una fase a cognizione semplificata (o sommaria) e l’altra, definita di opposizione, a cognizione piena nello stesso grado». Quindi, «dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata […] il procedimento si riespande, nella fase dell’opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena» a mezzo di tutti gli «atti di istruzione ammissibili e rilevanti».
A sostegno di tale impostazione si è affermato che la prima fase, assimilabile al rito sommario di cognizione, è semplificata e sommaria, ma non già cautelare in senso stretto posto che «la sommarietà riguarda, quindi, le caratteristiche dell’istruttoria, senza che ad essa si ricolleghi una sommarietà della cognizione del Giudice, né l’instabilità del provvedimento finale» del quale invece è stata ribadita l’idoneità “al giudicato” .
Partendo da tali argomentazioni, si è ritenuto che l’opposizione non rappresenti un grado diverso rispetto alla fase sommaria neppure assumendo i caratteri della revisio prioris instantiae configurandosi, invece, come mera prosecuzione del giudizio di primo grado.
In favore della natura non impugnatoria del giudizio di opposizione , la giurisprudenza di legittimità, in perfetta consonanza con quanto asserito dalla Consulta , ha richiamato per un verso la mancanza di identità di res iudicanda che contraddistingue le due fasi e, per l’altro, la circostanza secondo cui «l’oggetto della seconda fase del rito non è circoscritto alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi dal giudice della prima fase» .
In sostanza, nell’opposizione si realizzerebbe una “espansione” della cognizione «in ragione non solo del nuovo apporto probatorio, ma anche perché in tale giudizio possono essere dedotte circostanze di fatto ed allegati argomenti giuridici anche differenti da quelli già dedotti nonché prove ulteriori, anche alla luce della pressoché totale assenza di preclusioni e decadenze per le parti» .

2.1. Segue. L’ (in)compatibilità tra giudice della fase sommaria e giudice dell’opposizione.
Va rilevato che la questione della natura bifasico - monoprocessuale del primo grado di giudizio del rito Fornero e della carenza impugnatoria del giudizio di opposizione è stata altresì affrontata dalla giurisprudenza per risolvere il delicato profilo della alterità del giudicante nel passaggio da una fase all’altra .
Il contrasto che, sin dalla entrata in vigore del rito Fornero, ha diviso giurisprudenza e dottrina è stato superato dalla citata sentenza n. 78/2015 con la quale la Consulta, richiamando altresì le suesposte argomentazioni addotte dalla Cassazione in ordine ricostruzione dei rapporti tra procedimento sommario e fase di opposizione, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 51, comma 1, n. 4, c.p.c. e 1, comma 51, l. cit., nella parte in cui non prevedono obbligo di astensione in parola, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. .
Ad avviso della Corte, se per un verso non è ravvisabile alcuna irragionevole disparità di trattamento ex art. 3 Cost. tra la disciplina censurata e quella del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. che rappresenta «una vera e propria impugnazione che “si propone al Collegio” del quale, appunto, “non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato”», per l’altro verso una significativa analogia andrebbe ravvisata, invece, con l’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione di cui all’art. 186-quater cod. proc. civ., il cui meccanismo processuale «offre alle parti una garanzia di maggiore ponderazione del contenzioso in sede decisoria» .
Anche la prospettata violazione degli artt. 24 e 111 Cost. è stata ritenuta infondata, in quanto il principio di imparzialità del giudice, cui è ispirata la disciplina dell’astensione, va affermato soltanto «quando il procedimento svolgentesi davanti al medesimo giudice [...] per la sostanziale identità di valutazioni da compiersi in entrambe le fasi [...] si articola in due momenti, il secondo dei quali assume il valore di vera e propria impugnazione, e acquista, pertanto, i caratteri essenziali di «altro grado del processo».
Ribadito, dunque, che la fase di opposizione di cui all'art. 1, co. 51, l. 92/2012 «non verte sullo stesso oggetto dell'ordinanza opposta [...], né è tantomeno circoscritta alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi dal giudice della prima fase», la Consulta ha ritenuto, del tutto inopinatamente , che l’attribuzione di entrambe le fasi al medesimo magistrato non confligga con il principio di terzietà del giudice rivelandosi addirittura funzionale «all'attuazione del principio del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata».

2.1. Segue. L’oggetto del giudizio di opposizione.
La carenza di funzione impugnatoria del giudizio di opposizione è anche la premessa dalla quale la giurisprudenza di legittimità è partita per risolvere il profilo dei limiti all’esercizio dello ius variandi nella fase di opposizione e, quindi, della proponibilità, nella fase di opposizione, di domande diverse da quelle articolate nella fase sommaria .
In particolare, fermo restando il possibile ampliamento sul piano oggettivo e soggettivo, desumibile dal comma 51, dell’art. 1, l. n. 92/2012, si è dibattuto se, con il ricorso introduttivo, l’opponente possa introdurre motivi di licenziamento ulteriori e diversi da quelli dedotti nella fase sommaria.
Sul punto, senza invocare il più appropriato orientamento giurisprudenziale in materia di mutatio libelli ed anzi scomodando le argomentazioni addotte dalla Consulta e dalla Cassazione a sostegno della natura bifasico-monoprocessuale , S.C. ha ammesso – poiché «fondata sugli stessi fatti costitutivi» – la deduzione, in fase di opposizione, tanto di una modulazione del rapporto subordinato diversa da quella prospettata nella fase sommaria , quanto di ulteriori motivi di invalidità del recesso, non trattandosi di domande nuove inammissibili per mutamento della causa petendi .
Parimenti, si è ritenuto che, nel giudizio di opposizione, le parti possano proporre ex novo nuove eccezioni in senso stretto (nella specie, quella di decadenza dall'impugnazione del licenziamento) ovvero offrire nuovi mezzi di prova rispetto alla fase precedente, essendo l'unitario giudizio di primo grado strutturato in due fasi e subentrando l'applicazione delle preclusioni e la cristallizzazione del thema decidendum soltanto nella seconda fase .
Il possibile ampliamento della cognizione del giudice nel corso del primo grado di giudizio ha imposto altresì un coordinamento con la proclamata idoneità al giudicato dell’ordinanza conclusiva della fase sommaria.
In particolare, la giurisprudenza ha dovuto chiarire se, in ipotesi di parziale e reciproca soccombenza all’esito del giudizio a cognizione sommaria, sussista in capo ad entrambe le parti l’onere di proporre tempestiva opposizione ovvero se l’opposto ha l'onere di spiegare opposizione incidentale oppure può limitarsi a riproporre le domande od eccezioni non accolte con la memoria difensiva ex art. 416 c.p.c., benché sia scaduto il termine per l'opposizione e senza necessità di formulare una domanda riconvenzionale.
Nella giurisprudenza di merito è stata dedotta l'inammissibilità dell'opposizione incidentale tardiva dal carattere non impugnatorio dell'opposizione .
Tuttavia, a partire da Cass. 26 febbraio 2016, n. 3836 , la Cassazione, pur accogliendo tale premessa, ha assertivamente affermato che «non è possibile ipotizzare la formazione del giudicato su alcune statuizioni e non su altre della ordinanza, atteso che quest'ultima è destinata ad acquisire il carattere della definitività nella sola ipotesi in cui l'opposizione non venga promossa» e ad essere integralmente sostituita dalla sentenza pronunciata all'esito della seconda fase soltanto in seguito all'opposizione .
Ne consegue che, qualora all'esito della fase sommaria la domanda di impugnazione del licenziamento venga accolta solo parzialmente, la instaurazione del giudizio di opposizione ad opera di una delle parti consente all'altra, rimasta a sua volta soccombente, di riproporre con la memoria difensiva le domande o le difese non accolte senza che sia necessaria la proposizione di una domanda riconvenzionale ex art. 418 c.p.c.
Secondo tale orientamento, l'onere di riproposizione delle domande ed eccezioni non accolte discenderebbe dal meccanismo di preclusioni e decadenze di cui al combinato disposto dei richiamati artt. 414 e 416 c.p.c., non trovando invece applicazione né il divieto di reformatio in peius dettato per le impugnazioni, né i principi in materia di giudicato parziale (che, a detta della S. C., in quanto non formatosi, non può essere mai fonte di preclusione, neppure per l'opponente) .
L’intervento nomofilattico della Cassazione si è reso altresì necessario per risolvere la dibattuta questione della possibile riduzione ad unità del procedimento previsto dal rito Fornero.
Dando seguito ad un orientamento anche dottrinale , la S. C., applicando il principio generale di prevalenza della sostanza sulla forma, ha ammesso che il provvedimento che conclude la fase sommaria possa essere oggetto di immediato reclamo innanzi alla corte di appello, senza la previa opposizione al giudice di primo grado.
Si è precisato, tuttavia, che tale evenienza processuale può verificarsi soltanto quando lo stesso giudicante della fase sommaria abbia espressamente conferito al procedimento la natura di piena cognitio ovvero nel caso in cui, a seguito di una valutazione ex post, sia consentito ritenere che il provvedimento sia stato emesso all’esito di una cognizione piena ed esauriente rivestendo i caratteri della decisività e definitività.
Al di fuori di tali ipotesi, valorizzando l’orientamento che propugna la natura bifasico – monoprocessuale del procedimento, si è individuato nel ricorso in opposizione l’unico rimedio esperibile avverso il provvedimento conclusivo della fase sommaria, anche quando in mero rito .
Avuto riguardo al rapporto tra fase sommaria e giudizio di opposizione, la giurisprudenza è stata interessata, infine, delle questioni sorte in tema sia di rilievo della incompetenza e delle relative preclusioni nel giudizio di opposizione sia di validità della notifica del ricorso in opposizione effettuata al procuratore domiciliatorio .

3. Conclusioni.
Il dibattito consolidatasi in seno alla giurisprudenza di legittimità, con l’avvallo anche della Consulta, se da un lato cristallizza l’insopprimibile esigenza di individuare un coordinamento tra il procedimento sommario e il giudizio di opposizione, dall’altro, tuttavia, non può dirsi del tutto appagante.
Anzitutto, l’attitudine “al giudicato” che l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario possiede, ove non opposta, non pare coniugarsi perfettamente con la natura di semplice prima fase di un unico giudizio di primo grado .
Va rilevato, inoltre, che i pochi elementi certi che pure emergono dal dato normativo inducono, invero, a propendere in favore della autonomia delle due fasi e a riconoscere al giudizio di opposizione, se non il carattere di revisio prioris instantiae, quanto meno una “doppia anima”: quella di procedimento di primo grado e quella di giudizio lato sensu impugnatorio .
In questo ultimo senso depongono sia l’espressione contenuta nell’art. 1, comma 51, legge cit. («contro l’ordinanza ..»), sia la previsione di un termine decadenziale entro il quale è ammessa l’opposizione , decorso inutilmente il quale l’ordinanza (tanto nel caso di accoglimento quanto in quello di rigetto) genera una preclusione parificata all’efficacia di giudicato.
Al contrario, se “contro” di essa è proposta opposizione, non sussistono limiti alla riproposizione né della precedente domanda né, tanto meno, di nuove domande, ferma restando l’esclusività dell’oggetto del giudizio .
Convincente appare allora l’opinione dottrinale secondo cui la tesi della natura “bifasico-monoprocessuale” del primo grado di giudizio, piuttosto che il frutto di un coerente esame delle caratteristiche strutturali del procedimento, sia stata elaborata «per disinnescare la mina vagante» dell’obbligo di astensione sancito dall’art. 51, comma 1, n. 4 c.p.c. e le conseguenze che dallo stesso discendono.
Tanto è vero che, ogni qualvolta tale impostazione è stata invocata per risolvere nodi interpretativi diversi da quello relativo alla sussistenza o no di un obbligo di astensione, la giurisprudenza, discostandosi dai principi consolidatesi in seno al procedimento ex art. 28 St. Lav. , è stata costretta a forzarne il contenuto, sino ad affermare che non si formi il giudicato sulla parte di ordinanza che non abbia formato oggetto di opposizione .
Conclusivamente, le persistenti incertezze interpretative – niente affatto appianate dagli approdi ai quali, sino ad oggi, è giunta la giurisprudenza – inducono a salutare con favore il progressivo abbandono delle forme processuali speciali volute dalla l. 92/2012, avviato dall’art. 11 del d. lgs. n. 23/2015 e culminato con l’obiettivo di «unificazione» e di «coordinamento» della disciplina dei procedimenti di impugnazione dei licenziamento enunciato nell’art. 1, comma 11, della l. delega 26 novembre 2021, n. 206 .
È evidente, infatti, che tale disposizione, pur non disponendo espressamente l’abrogazione del rito Fornero, segna inevitabilmente il suo destino, specie se letta in combinato disposto con le lettere b) e c) del comma 11 ove è richiamato il rito del lavoro ex art. 409 c.p.c.
Non resta che attendere allora l’intervento del legislatore delegato che si auspica mantenga effettivamente fede – anche in tale materia – agli enunciati principi di razionalizzazione ed unificazione.

 

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