TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Ho letto con vivo interesse e curiosità le “Dieci tesi sul diritto del lavoro” e l’appassionata enunciazione di Adalberto Perulli e Valerio Speziale di quel che dovrebbe essere il Diritto del lavoro per mantenere coerenza con i propri caratteri fondativi ed identitari. E ho apprezzato l’afflato etico nella difesa dei valori della persona attaccati o pretermessi da una deriva neoliberistica attenta soprattutto alle necessità e compatibilità del sistema imprenditoriale.
Interesse tanto più accentuato per la mia estraneità a operazioni culturali di così ampio respiro e per essermi identificato in quei “giuristi del lavoro (ndr: bacchettati nell’incipit dagli AA) che si sono per lo più limitati alla interpretazione del diritto nella sua continua evoluzione senza esprimere una reale capacità teorica di produrre discorsi sulle prassi trasfomatrici”; in quegli studiosi, insomma, poco inclini alla riflessione filosofica – politica sul dover essere della materia.
Forse solo in due occasioni (costruzione di un’area contrattuale “specifica” estranea alla contrattazione collettiva nazionale e riforma innovativa del TFR) mi sono avventurato in elaborazioni propulsive volte a intaccare assetti e prassi disciplinari consolidati. Per lo più sono rimasto fedele al ruolo di giurista positivo (spero non piattamente esegetico) attento agli equilibri regolamentari e, al massimo, alle potenzialità insiste nel diritto condito.
Ma questo tempo presente – hanno ragione i due Autori – è tempo di opportune e approfondite riflessioni sulla funzione e sulla identità del Diritto del lavoro e certo le contraddittorie politiche governative dell’ultimo decennio, così lontane dalla lineare spinta garantista degli anni ’70 nonché i cospicui mutamenti di scenario inducono interrogativi di ampio respiro.
Così dopo il “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile” di Bruno Caruso, Riccardo del Punta e Tiziano Treu e dopo il bel volume su “Valori e tecniche nel diritto del lavoro” curato da Riccardo Del Punta, anche questo pamphlet appassionato e polemico, di Adalberto Perulli e Valerio Speziale, si interroga sulle direzioni di marcia della nostra materia e sul perché essa abbia smarrito la primaria funzione di salvaguardia dei valori di dignità, libertà, solidarietà e sicurezza del lavoro, nel nome di una deriva spiccatamente economicistica,
Tuttavia se “Il Manifesto”, come dichiarato sin dall’incipit, intendeva condividere interrogativi prima che risposte e offrire stimoli di riflessione, le “Dieci tesi sul diritto del lavoro” risultano più nette, assertive e mosse da una ammirevole ispirazione etica non condizionata dal dubbio o dalla compromissione.
Il diritto del lavoro – secondo i due Autori -, pur caratterizzato da una costante tensione mediatoria tra i valori della persona e l’efficienza del sistema produttivo, in questi ultimi decenni ha virato fortemente verso la seconda, fino ad ecclissare o a rendere subalterni i principii di giustizia sociale, che pure ne costituiscono fondamento inalienabile. Ne sono testimonianza le riforme del 2012 e 2015 in tema di licenziamento, la modifica dello ius variandi, la sottrazione all’accordo sindacale e all’autorizzazione amministrativa del controllo informatico sugli strumenti impiegati per rendere la prestazione e, più in generale, la legge del 2010 (c.d. Collegato lavoro) che limita l’accertamento giudiziale dei poteri datoriali al solo presupposto di legittimità, escludendo ogni sindacato di merito circa le valutazioni tecniche, organizzative e produttive sottese alla scelta imprenditoriale.
Di qui l’auspicio, reiterato con convinzione ed efficacia nel volume, di un più equilibrato contemperamento tra i valori umani (stabilità occupazionale, realizzazione personale, esistenza dignitosa, retribuzione equa, assistenza previdenziale, sviluppo delle capabilities) e le esigenze di efficacia del sistema produttivo (flessibilità, produttività, utilità) (pag. 114) Riequilibrio che solo può restituire al Diritto del lavoro la sua più genuina identità e la sua ispirazione etica.
L’itinerario che porta a questo obiettivo viene indicato con riferimento a plurimi istituti, a partire da una nuova ricostruzione del campo di applicazione della materia e della sua portata protettiva. Che non può più identificarsi senza residui con la figura del lavoratore subordinato in quanto eterodiretto, ma deve estendersi, sia pure con tutele declinate in modo selettivo, oltre la subordinazione, ovunque si realizzi un lavoro svolto in condizioni di debolezza contrattuale e di dipendenza economica.
Dunque, non dilatazione forzata della figura della subordinazione con rivisitazione degli indici tradizionali, ma estensione delle tutele sociali, in modo gradualistico, nell’ottica di una ricomposizione universalistica del lavoro senza aggettivi, nel segno dell’art. 35 della Costituzione e in una prospettiva di aggiornamento del pensiero di Massimo D’Antona.
L’estensione soggettiva e parziale dello statuto protettivo del Diritto del lavoro consentirebbe di ricomprendere nel perimetro garantista della materia anche forme di lavoro autonomo caratterizzate da evidente vulnerabilità sociale.
La tesi condivisibile trova avallo in esperienze comparate. La opzione estensiva fondata su un ampliamento della nozione di subordinazione perpetua in fondo l’equivoco della sinistra classista di ricondurre ogni forma di lavoro al paradigma del lavoro salariato, laddove una simile equazione è sempre più smentita dalle caratteristiche odierne dei modi di produzione.
Tuttavia, per quanto la tesi sia suggestiva e ben argomentata, non sembra questa la linea sposata a tutt’oggi dal legislatore. Questi tende sì ad estendere oltre la subordinazione l’apparato di tutela (v. a. 2 D.Lgs. 81/2015), ma continua ad individuare i destinatari delle tutele lavoristiche attraverso connotati tecnico giuridici, sia pure declinati attraverso le varie sfumature della eterodirezione, eteroorganizzazione, coordinamento etc.. Il sistema ignora la nozione di dipendenza economica e valorizza piuttosto l’intensità e le modalità di svolgimento del potere esercitato dal datore nei confronti del lavoratore.
Per questo sono portato a leggere la proposta ricostruttiva di Adalberto Perulli e di Valerio Speziale come un ambizioso e complesso disegno di riforma piuttosto che come una fotografia del diritto positivo o delle sue linee tendenziali.
Anche sul tema dei poteri datoriali le linee guida del libro trovano svolgimento nell’auspicio di una maggiore sindacabilità di questi e di un recupero di limiti esterni volti a salvaguardare la tutela dei valori personalistici del lavoratore.
Sempre in un’ottica prospettica gli AA spezzano altresì una lancia in favore di un modello di partecipazione sindacale alla gestione dell’azienda o comunque di una maggiore istituzionalizzazione delle regole di funzionamento dei meccanismi delle relazioni sindacali, il cui tasso di anomia e di incertezza (a partire dalla nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo) appare insostenibile.
Se la prima idea - la partecipazione forte e compiuta - pare ancora molto lontana dalle prassi viventi delle relazioni sindacali e dagli intenti dei protagonisti, la seconda è largamente condivisa e diffusamente auspicata.
Gli Autori non ignorano certo il dualismo assiologico della nostra materia, ma ritengono con fermezza che sia stata superata la misura nel posporre alcuni capisaldi della cultura sociale agli imperativi della economia globale, che alcuna giustificazione trovi la flessibilità normativa nella improbabile e indimostrata correlazione con la spinta alla crescita dei livelli occupazionali e che la deriva neoliberista imboccata dal legislatore, sia pure sotto la spinta delle Istituzioni unieuropee, vada assolutamente ostacolata.
Ora, al di là di talune raffigurazioni eccessive o manichee di un quadro normativo che presenta invece almeno pennellate di segno inverso (come in tema di delocalizzazione, di contrasto al lavoro temporaneo etc.) e che incontra, comunque, significative resistenze ed argini nella giurisprudenza ordinaria e costituzionale, la rappresentazione dello stato della nostra materia appare in buona parte convincente.
A condizione però che: a) l’aspirazione ad un più equilibrato compromesso tra gli opposti interessi non sia di stimolo a “stravolgere” impropriamente in sede interpretativa e giurisprudenziale il dettato normativo; b) non si finisca (ma il rischio è evitato dagli AA) nella retorica, coltivata da una certa sinistra giuslavorista, della mutazione genetica o addirittura della fine del Diritto del lavoro, che vedrebbe appannata la sua ragion d’essere a motivo dallo squilibrio regolatorio realizzato in favore della impresa.
A mio avviso le pur significative tendenze recenti dell’ordinamento del lavoro si collocano pur sempre nell’orizzonte identitario della materia, restando inalterato il suo storico ruolo mediatorio, che inevitabilmente sposta il baricentro verso l’uno o l’altro dei due poli valoriali, in dipendenza della evoluzione dei fatti sociali, economici e culturali da cui il Diritto del lavoro è inevitabilmente influenzato.
L’attuale fase regolatoria, anche se registra un bilanciamento e un segno politico diverso dal passato, rappresenta soltanto la testimonianza della perenne e necessaria reattività della nostra materia alla evoluzione dei referenti sociali, economici, politici e financo, antropologici. Mutano la morfologia dell'impresa e le sue tecnologie, il lavoratore e le sue esigenze, si alterano le modalità qualitative e quantitative della prestazione, si amplia il perimetro della competizione tra le imprese: non poteva non risentirne il Diritto del lavoro, per sua natura ipersensibile ai mutamenti "strutturali" e ai “potenti vettori materiali di matrice economica: la globalizzazione, la finanziarizzazione, i mutamenti del mercato e della produzione indotti dall’innovazione tecnologica, il cambiamento della regolazione dei processi economici, la fine delle politiche keynesiane e l’imporsi di un mainstream neoliberale” (pag. 9 del volume qui commentato).
Al di là delle significative mutazioni di segno, il diritto del lavoro continua, infatti, ad essere il luogo (giuridico) in cui si ricerca dinamicamente un punto di sintesi e di bilanciamento tra gli interessi di chi detiene gli strumenti di produzione e persegue il profitto e quelli di chi è costretto a mettersi a disposizione per ricavarne il sostentamento; continua a dispiegarsi in una dinamica di forze antagonistiche. Dinamica che, nella sua configurazione di base, non muta sol perché nell'attuale momento storico il punto di equilibrio si è spostato a favore della impresa, anche sotto la spinta di vettori e di obiettivi in qualche misura ultronei rispetto agli interessi immediati delle parti del rapporto di lavoro: occupazione, produttività, competitività.
Questa permanente identità strutturale può essere negata solo da chi ritiene che il Diritto del lavoro sia un diritto di classe, che esaurisce la propria funzione nella difesa unilaterale e incondizionata del lavoratore; è invece condivisa da chi è convinto assertore del suo carattere storico e compromissorio, da chi, come ieri Massimo D'Antona - e oggi Riccardo Del Punta e gli Autori del libro - sostiene che esso ha ben poco di ontologico, è un costrutto storico, inevitabilmente esposto all'evoluzione dei modi e degli strumenti della produzione, delle forme della competizione, del mutevole dispiegarsi dei rapporti di forza tra gli attori.
Va infine segnalato che pur condividendo la sensibilità degli AA per le gravissime diseguaglianze presenti nel tessuto sociale, per gli insoddisfacenti livelli retributivi, per il “dolore sociale” che investe fasce sempre più ampie dei lavoratori subordinati e non, probabilmente gli antidoti alla deriva neoliberistica sono rinvenibili più che in ulteriori vincoli e strettoie per i poteri imprenditoriali e, dunque, più che sul piano della disciplina del rapporto di lavoro, in interventi efficaci sul mercato del lavoro in entrata e in politiche industriali, fiscali, antidumping a livello nazionale e internazionale. Il Diritto del lavoro deve infatti fare i conti con coordinate globali ed è astretto dalla necessità di salvaguardare il funzionamento del sistema capitalistico (almeno finché non se ne affermi un altro) e, dunque, dall’imperativo di bilanciare il garantismo sociale con l’efficienza e non solo con la sopravvivenza delle organizzazioni produttive: più di una mediazione maggiormente equilibrata e consapevole della necessità di salvaguardare almeno il nucleo duro dei valori in gioco, la nostra materia non può fare e non c’è ispirazione etica, per quanto condivisibile, che possa scalzare il ruolo sovra-strutturale del Diritto del lavoro.

 

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