Testo integrale con note e bibliografia

1.- La lettura di “Dieci tesi sul diritto del lavoro” di Perulli e Speziale è una salutare boccata di ossigeno per chi soffre le gabbie del quotidiano. Ma anche per chi fosse abbastanza preoccupato per le sorti del lavoro e del suo diritto davanti alle fosche previsioni per il futuro della Repubblica democratica fondata sul lavoro. In circa 150 pagine, densissime, si possono infatti ritrovare idee e materiali per una trionfale ripresa delle “speranze deluse” dal tormentone della “modernizzazione”. Che, per constatazione diffusa, ha fatto fare parecchi passi indietro nel tempo al progresso sociale e alla cultura dei diritti.
In effetti i due autori sono da sempre tra i critici più tenaci dell’ormai ultradecennale tendenza a ridurre il diritto del lavoro a un “semplice dispositivo tecnico” pronto a farsi strumento di “una vera e propria tirannia del valore economico” (ce lo ricordano subito: p. 12). E anche la loro proposta alternativa è nota nei suoi tratti di fondo, pur se riproposta in modo congiunto e perciò stesso innovativo: ridare uguale dignità nei rapporti di lavoro “al valore essenziale dell’esistenza umana” (p. 19). Le “Dieci tesi” però offrono una visione globale della critica e della proposta e, soprattutto, inscrivono il loro ragionare da giuslavoristi di vaglia in un orizzonte molto ampio: “la ricerca di una filosofia politica, che si interroga sulle condizioni necessarie per delineare i tratti e i contenuti di un nuovo diritto del lavoro” (p 20).
Non è facile cimentarsi con questa sfida, che mi pare la vera sfida che gli autori lanciano alla comunità scientifica, accusata di gravi colpe. Prima fra tutte un doppio cedimento: alle “secche del pensiero debole” (p. 16) – che ha avvolto quello critico in “una coltre di nebbia”: (p. 12) – e al disincanto nichilista (p. 15). E la sfida è particolarmente ardua perché, nonostante un inizio cauto e problematico nelle primissime pagine, non sembra sufficiente per salvarsi l’anima rimanere sensibili all’esigenza di realizzare la giustizia sociale garantendo a tutti i lavoratori “una nuova cittadinanza sociale” (p. 16). A me pare in fondo che questo molti giuslavoristi lo abbiano fatto, almeno sul piano del discorso tecnico-giuridico (io, immodestamente, credo di essere tra questi). Ma il problema per gli autori è proprio quello di contrastare frontalmente il pensiero debole in generale che, a loro parere, “ha caratterizzato la riflessione dottrinale lungo la tradizione post-fordista” (p. 16). E per questo la tesi n. 0 è che “l’approccio nichilistico della norma come pura tecnica formale “deve lasciare il passo ad un pensiero trasformatore che guarda al sistema normativo come ad una sfera rinnovata quanto ad autorità e autonomia assiologica” (p. 20).
Perulli e Speziale sanno bene però che quanto chiedono è davvero complicato, anche per chi ama “la contrapposizione dialettica tra pensiero trasformatore e riconoscimento del razionale nel reale…”. Quella contrapposizione, pur condividendone il senso, non si risolve infatti affermando che “è necessario attribuire al conoscere un valore produttivo e dinamico, di attività pratico-critica, non limitata alla pura esegesi” (p.7). Il giurista che di mestiere fa il ricercatore, lo studioso, l’intellettuale, in effetti non può mai essere un mero esegeta, anche se tende occasionalmente a indossare questa maschera (una tra le tante). Da mero esegeta non avrebbe alcuna credibilità proprio nella comunità di riferimento, tanto scientifica quanto professionale. Perciò il problema è molto più complesso. Pur avendone parlato in tante occasioni, è utile tornarvi in maniera elementare. Ciò che è davvero difficile da chiarire è quale confine separi il giurista come esperto del sistema normativo da assumere come dato di realtà – cioè di principi e regole prodotte secondo determinate categorie concettuali e procedure di legittimazione delle autorità normative a ciò abilitate – e il giurista come creatore di sistemi normativi non reali ma potenziali, affidati a equilibri e combinazioni politiche di cui ovviamente il medesimo giurista non può farsi carico. Il mestiere del giuslavorista è al riguardo improbo, essendo la nostra materia sempre in bilico tra una ricchissima, inesauribile ed eterogenea casistica applicativa e una vivace progettualità politica, l’una e l’altra frequentabili a varie “altezze problematiche”. Guai a cadere da una parte o dall’altra: al varco il giuslavorista (non come singolo, ma come declinazione specifica del giurista) è atteso da un giudice severo – la storia del pensiero e del diritto – addirittura spietato dinanzi a una caduta nel vuoto del silenzio (non solo e non tanto dei suoi colleghi “intellettuali”). Perciò il primo problema del giuslavorista che si avventura lungo percorsi inusuali o controcorrente è di avere interlocutori interessati e vivaci, anzitutto tra coloro che rendono il diritto vivente ed operante, e che non manifestino interesse per l’espace d’un matin. In mancanza di questi interlocutori ogni sforzo intellettuale rischia di schiantarsi al suolo come un volo senza paracadute.
Le “Dieci tesi” non corrono naturalmente questo rischio. Non solo infatti siamo qui a discuterne, ma gli autori sono abbastanza esperti da miscelare la nuova sfida “filosofica” con un piano discorsivo assai più consueto, anche per il giurista poco interessato all’elaborazione troppo astratta. Al riguardo Perulli e Speziale colgono in pieno un obiettivo importante, esplicitato nella prima tesi. Affermata la polivalenza teorica del diritto del lavoro – che viene rivisitata in chiave di “ibridazione tra tre grandezze: civica, mercantile e industriale (p. 22) – i due autori si ripropongono infatti di ridare centralità alla “giustificazione civica…in un rinnovato spirito di emancipazione e di libertà delle persone, di cui il diritto del lavoro, pur con i suoi limiti, continua a essere unica garanzia nei luoghi della produzione” (p. 40 e 38). E questa tesi vale, da sola, a ricongiungere gli obiettivi del volume con quelli da sempre perseguiti da studiosi e operatori del più novecentesco dei diritti.
2.- Nelle altre nove tesi vengono coerentemente affermate le seguenti proposizioni:
a). Non si deve arrestare il processo di razionalizzazione dei valori iniziato con le Costituzioni sociali del Novecento e che si traduce in una morale condivisa, basata sul mutuo riconoscimento e su un primato della libertà come libertà sociale: cioè rispetto, riconoscimento intersoggettivo e idea neo-repubblicana di non-dominio (p. 49). Qui vedo molti problemi di metodo e di concreta praticabilità. Gli autori auspicano un approccio teorico che favorisca una sorta di nuova personificazione dell’impresa, senza la quale non è possibile riconoscersi l’un l’altro in una dimensione umana. Mi pare molto giusto. Ma il presupposto è davvero complicato nell’età della disarticolazione e smaterializzazione organizzativa e del neo-dominio. Nella rivitalizzazione della nostra Carta poi gli autori “arruolano”, in prima fila, la Corte costituzionale. Mi pare più problematico di come la raccontano. Anzitutto le sentenze – anche quelle per così dire “più progressiste” – si muovono sempre su argomentazioni non univoche; e anche le conclusioni a volte salvano scelte legislative poco in linea con la filosofia politica preferita. Al riguardo l’arruolamento della Corte nel sostegno a una filosofia politica è sempre pericoloso, direi simmetrica alla sua denigrazione (ci saranno sempre entrambe le posizioni). In pratica, cioè a essere realisti (nel senso del realismo giuridico), occorre vedere “quale” Corte costituzionale. Ciò detto la prima tesi proposta è molto chiara, legittima e condivisibile. Purtroppo non da tutti è condivisa e non ci sono argomenti inconfutabili per farla condividere a chi non l’ha finora condivisa.
b). Sulla questione dell’ambito delle tutele, si riprende la tesi, giusta, di andare oltre la subordinazione secondo l’approccio dell’universalismo selettivo. Tesi ormai ampiamente condivisa, anche se mai come in questo caso il diavolo si nasconde nei dettagli.
c). Sui poteri datoriali, si sposa un approccio innovativo improntato al valore del “non-dominio”. Ne derivano tesi abbastanza innovative sui limiti al licenziamento economico, sulla rivalutazione di una importante, ma da anni negletta, sentenza della Corte costituzionale (103/1989), sui limiti del nuovo ius variandi e sulla necessità di rafforzare l’obbligo formativo. Tutte proposte interessanti e intelligenti, da rimettere al centro del dibattito, dove peraltro spesso già sono.
d). Sulla soggettivizzazione regolativa gli autori sposano una tesi non convenzionale, volta a ribadire l’assoluta predominanza delle tutele legali e sindacali, ma valorizzando un’autonomia individuale basata su una sorta di predeterminazione di moduli negoziali da offrire alla scelta delle parti. Assumono come emblematico il lavoro agile e la centralità, nella l. 81/17, dell’accordo individuale. Si tratta di idee suggestive e probabilmente feconde. La mia impressione è che rimangano idee astratte, oggi più di ieri, specie alla luce di un’esperienza di smart working che, pur nelle tenebre della pandemia, ha evidenziato come l’accordo individuale sia più un ostacolo che un vettore di diffusione di questa innovativa modalità di lavorare.
e). Nella dimensione collettiva gli autori esprimono posizioni moto robuste a sostegno di un rilancio del sistema di relazioni sindacali. Con coerenza propongono una decisa istituzionalizzazione della contrattazione collettiva, una scelta per il sistema duale della rappresentanza nei luoghi di lavoro, la realizzazione in Italia della democrazia industriale all’insegna di modelli partecipativi forti. Tutto con l’idea che il “non-dominio” neo-repubblicano deve dar vita anzitutto a una Workplace Democracy. Concordo su tutto, ma anche qui non vedo nuovi argomenti che possano convincere chi ostacola questo corso in Italia (da tempo per me necessario) ormai da quasi 70 anni.
f). Quanto alla regolamentazione del mercato del lavoro, gli autori sono per un deciso superamento della flexicurity, ormai a loro parere abiurata anche a livello europeo. L’alternativa però non mi pare vada oltre un recupero della flessibilità interna e un (giusto) riconoscimento della validità di politiche di sostegno al reddito anche in forma di reddito di cittadinanza (peraltro a parer loro da rivedere in modo da distinguere politiche attive e passive secondo la versione oggi politically correct).
g). Quanto alla nuova tendenza del diritto del lavoro sostenibile, gli autori nutrono sospetti (pur essi da me condivisi) e contrappongono un diritto della sostenibilità in generale più convincente, ma non per questo a portata di mano. Non aumenta la concretezza della proposta una riproposizione del lavoro agile in chiave di sostenibilità complessiva, e ambientale in particolare, perché anche su questo mi paiono fare di nuovo capolino non poche illusioni.
h). Sulla globalizzazione del diritto del lavoro, si individua una strada parzialmente nuova volta a rilanciare il ruolo degli Stati nazionali per riportarla a una dimensione più misurata sui territori (v. p. 138, dove si menzionano le cd “catene corte del valore”). Mi pare quasi una strada obbligata; e qui colgo più realismo che in altre tesi. Però non manca una prospettazione alquanto ottimistica sull’effettività dell’attuale regolazione sovranazionale, molto documentata e basata anche su best practices, ma poco riscontrabile nella frequente riproposizione di vicende socialmente devastanti, legate alla spregiudicatezza del nomadismo imprenditoriale in Europa e nel mondo.
i). L’ultima tesi riguarda i temi più attuali: “tutela della salute” ; “rivoluzione digitale” (dove s’invoca calma e gesso); “giustizia eco-sociale”; “diritto del lavoro delle migrazioni climatiche”. Più che una tesi, è un florilegio di accurata informazione e buoni suggerimenti, quasi tutti pienamente condivisibili.
3.- Le tesi ripercorse hanno molti punti di forza: specie per coerenza, chiarezza dei principi, ricchezza dei riferimenti. In fondo le proposte sono intessute con parole nuove – (neo-repubblicanesimo; libertà sociale; teoria del riconoscimento) – che valgono a consolidare ricostruzioni sistematiche antiche (come le lezioni di Mancini, Giugni, Ghezzi, Scognamiglio, Persiani, Grandi). In sintesi, si può parlare di un rilancio alla grande di un diritto del lavoro all’insegna del compromesso tra forze produttive: una vecchia idea socialdemocratica. O di un neo-statalismo intriso comunque di un socialismo avverso al liberismo (direi “pre-blairiano”). È una prospettiva suggestiva. Personalmente mi piacerebbe molto. Dubito però che sia una strada davvero aperta, un nuovo corso che può vincere dove ha perso la vecchia socialdemocrazia.
Molti sono invero anche i punti di debolezza, soprattutto nell’analisi delle dinamiche del mutamento e delle forze in campo. Nel complesso mi pare che l’analisi – forte sul versante delle teorie filosofico-giuridiche e socio-economiche – pecchi un pò di senso storico, almeno quanto a un marcato mutamento di registro nel passare dal pessimismo sul presente a un corposo ottimismo sul futuro.
Certo la pandemia, dramma gigantesco e mondiale, ha anche inopinatamente generato in Europa e in Italia varie energie e idee positive e innovative. Ma subito dopo c’è stata la guerra e la crisi energetica! Quanto incidono sull’analisi e sulle prospettive delle dieci tesi (forse però scritte prima del febbraio 2022)?
Certo è sempre ben possibile puntare su un rilancio della nostra Costituzione, letta alla luce della modernità. Ma cosa si fa dopo che alle elezioni italiane del 25 settembre ha prevalso un centrodestra costituzionalmente “ambiguo” e/o “frigido”? La Corte costituzionale è un argine a deturpazioni troppo profonde, ma – come insegna la recente esperienza statunitense (pur con le profonde diversità) – finché i Giudici che la compongono non esprimeranno sistemi valoriali diversi. Si può sperare che da eccessive regressioni ci salverà l’Europa? Ma oggi, proprio oggi, dopo la guerra in Ucraina, l’Europa è più debole o più forte? Le “democrature”, non solo esterne, insidieranno i fondamenti del sistema pluralista e ancor di più la teoria pluralista del diritto del lavoro? E gli USA riprenderanno il loro ruolo egemone nel mondo? Dai nuovi equilibri mondiali ai affermeranno forze che sosterranno davvero un nuovo corso socialista nel diritto del lavoro nazionale o sovranazionale?
Mi viene il sospetto che i nostri autori ricalchino troppo quell’Hemingway secondo cui, se è difficile stabilire quando abbiano inizio le epoche, “tutti sono perfettamente sicuri di quando finiscono”. Io non ho tante sicurezze. Ma magari il loro sforzo propositivo, contraddetto dalla più immediata attualità, tornerà a indicare strade praticabili tra pochi mesi.
Insieme alla gratitudine per la boccata d’ossigeno, esprimo comunque un dubbio di fondo di carattere essenzialmente deontologico, che è anche (se non soprattutto) metodologico: “Dieci tesi” apre la strada a una diversa filosofia politica per il diritto del lavoro? Certamente sì, se si pensa che il diritto del lavoro è oggi dominato dalla tirannia dell’economico. Invece no, se si pensa che il diritto del lavoro ha un secolo di vita, maturato prima e dopo lo Statuto dei lavoratori.
In fondo le tre grandezze da cui parte il volume - civica, mercantile e industriale - ci appartengono da sempre. Magari occorrerebbe individuarne altre. Sorprende per esempio che il lavoro pubblico compaia solo di sfuggita a p. 135 parlando di lavoro agile. Ma l’ingresso di questo vasto mondo nel diritto del lavoro non dovrebbe far pensare a qualche altra “grandezza” da ibridare (come l’interesse/valore pubblico rivisitato alla luce di un concetto non solo industriale di “modello organizzativo”?). Magari occorrerebbe davvero andare molto oltre la nostalgia per il capitalismo sociale che partorisce l’utopia del capitalismo che si suicida (è davvero immaginabile un capitalismo del “non-dominio”, senza cadere in nuove mistificazioni autoconsolatorie?).
Forse occorre una teoria pluralista davvero autonoma da una opzione costituzionale soltanto nazionale. Ma da dove può venire? Dubito che, a convincere la comunità scientifica dei giuslavoristi, possa essere un pur intelligente collage di multimateriali, per quanto ricchi, molti di pregiatissima provenienza e pieni di buone intenzioni. Delle quali potrebbero alimentarsi nuove filosofie politiche. Contribuire a farle nascere è al contempo un merito, un dovere e un onore. Ma un nuovo diritto del lavoro può nascere solo da una maturazione collettiva di un soggetto politico-istituzionale forte, in grado di tenere insieme molteplici culture disposte a non fagocitarsi e contemporaneamente produrre regole in grado di incidere in modo omogeneo nelle realtà cui sono destinate. E in questo parto ai giuristi, come categoria professionale, tocca anzitutto un compito preciso: fornire categorie chiare e tecniche solide, strumenti praticabili e ben assemblati, che affondino le loro radici anche nelle più antiche tradizioni pur con la massima sensibilità verso le innovazioni sociali, tecnologiche e ambientali (la famosa “apertura cognitiva”). Al giurista critico tocca anche (direi: anzitutto) il compito di denunciare e ostacolare tutte le costruzioni regolative pasticciate e friabili, come molte di quelle prodotte negli ultimi dieci anni. Non svaluterei questi importanti contributi – compresi quelli di marca giuslavoristica – che la teoria giuridica ha dato e può continuare a dare per contrastare un comodo adattamento alle mode culturali, prima ancora che alla tirannia dell’economico. Sugli altri piani – e anche su quello della filosofia politica (ovviamente cruciale per la nascita di qualsiasi soggetto politico) – per ora accontentiamoci, con i nostri due autori, d’invocare una nuova razionalità kantiana, pacifica e radicata: tanto nella moralità degli individui e nell’etica pubblica quanto nella fede nei diritti e nelle libertà fondamentali.

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