Testo integrale con note e bibliografia

Un piccolo intervento di commento

E’ stato un pomeriggio denso, il nostro, e per me, debbo confessare, faticoso seppure così carico d’interesse e tanto stimolante. Prendo la parola ancora lievemente frastornato dall’intenso fluire ed accavallarsi d’impressioni e di idee diverse stimolate dalle tante relazioni che si sono succedute sin qui, e in modo cosi serrato. Non sempre, debbo dire, nei convegni anche di ottimo livello cui m’è accaduto di prendere parte ancora in questi miei anni avanzati, è stata così netta l’impressione della ricchezza problematica, della capacità di penetrazione delle tante questioni poste sul tappeto dagli autori dei vari interventi, ma anche delle grandi difficoltà che l’intero oggetto dei vostri studi e del vostro lavoro deve oggi affrontare. Il sentimento di preoccupazione che tutto ciò m’ha ispirato si confonde così, in me, con a sincera ammirazione per la ricchezza intellettuale che ci ha tanto stimolato nel corso di questa giornata.
Permeata anche, come credo sia evidente a tutti, da una viva e talora molto evidente dimensione d’affetto e d’amicizia che ha circolato tra noi in queste ore. E’ un aspetto, questo, che corona massimamente la bella storia accademica che, oggi, siamo stati chiamati tutti a festeggiare. Impastato di un diffuso sentimento di gratitudine: ovvia, ma tanta e tanto sentita invero, per il ruolo di guida e di maestro svolto da Pino Santoro Passarelli nel corso della sua lunga vita professionale, impastata di quell’affettuosità che ben comprende chi conosce la profonda e viva sua umanità. Talché, al termine di queste ore, insieme all’esausta e tuttavia non ancora sazia curiosità stimolata dalle tante occasioni di riflessione, s’assomma l’immediata consapevolezza di quanta amicizia sia stata il vero collante di questo evento. Che è anche la ragione per cui io mi trovo a prender la parola dopo tanti a tanto competenti relatori.
Perché è la grande amicizia che lega Pino e me in una storia comune ormai lunga: unica giustificazione della sua pervicace (e voi sapete quanto gli si addica tale aggettivo) volontà d’inserire un vecchio professore di diritto romano a prender la parola tra tanti illustri specialisti, ma anche ragione della mia incapacità di sottrarmi al ridicolo, non solo rassegnandomi ad esibirmi tra i relatori, ma, come ha poi immaginato lo stesso Pino nel redigere il programma, costretto a leggere il mio nome accanto all’incongrua indicazione: ‘conclusioni’. E’ chiaro che non ci si può certo attendere da me alcuna conclusione a proposito di questo incontro: e del resto, mi chiedo, quali conclusioni potrebbe proporre anche chi, diversamente da un vecchio romanista fosse anche qualificato da un’alta competenza negli argomenti qui affrontati?

A questa mia iniziale perplessità, tuttavia, quando poi ebbi ad aprire i volumi del nostro festeggiato e che oggi sono stati al centro della nostra attenzione, scorrendoli seppure velocemente ho anche avuto modo di rendermi conto di quanto forte fosse il mio rapporto con le problematiche e le preoccupazioni che in essi si potevano cogliere. Esse avevano infatti a che fare, seppure secondo variegati percorsi, con i due filoni centrali della mia stessa vicenda personale: la politica e la storia. Un’impressione che, oggi, ha trovato evidente e vivissima conferma in tanta parte di ciò che abbiamo ascoltato.
Non è un’affermazione, questa, che contrasti con quanto ho prima accennato circa l’alto tecnicismo e la qualità scientifica delle relazioni, talora di tale spessore da far perdere il filo allo sprovveduto ascoltatore che ero. E tuttavia l’esperienza di una vita m’ha aiutato a cogliere, sotto il vario andamento degli interventi e delle analisi contrastanti che si proponevano, con il vario intrecciarsi d’idee e di dissensi, il senso profondo dato a tutto ciò dal loro significato politico, in quel senso ‘alto’ che ho conosciuto e frequentato, seppure da spettatore appassionato, nella mia giovinezza e maturità.
Non solo per il motivo più semplice e diretto, che una materia come quella del diritto del lavoro – e se vogliamo andare nel particolare - temi come quelli relativi alla disciplina del contratto collettivo, al mutevole ruolo e significato del rapporto individuale di lavoro con le sue radici nel cuore stesso del sistema civilistico, ed al significato di rottura dello Statuto dei lavoratori, oltre che tutta la complessa variazione delle tipologie riferite al rapporto di prestazione subordinata e continuativa di lavoro attengono tutti ai punti d’evidenza in cui questioni di puro diritto s’intrecciano a forti conflitti d’interesse, individuali, ma anche collettivi. Dove appare immediata la rilevanza economico-sociale e, quindi, politica. Ma v’è di più, molto di più in ciò che oggi abbiamo ascoltato.
Perché man mano che le ore di questo pomeriggio avanzavano e si susseguivano tanti interventi che, partendo dalla molteplicità degli apporti dell’opera scientifica di Pino e dei suoi interventi nella materia viva del diritto del lavoro, variamente ne discutevano i risultati e ne cercavano riscontro negli sviluppi concreti che i vari aspetti normativi e istituzionali avevano ed hanno nelle aule dei tribunali e sui vari assetti d’interesse, un’idea s’è venuta imponendo alla mia coscienza. Rafforzata proprio dall’intensità del dibattito, dagli stessi garbati dissensi che pur era dato di riscontrare s’è imposta infatti in me la sensazione di trovarmi non solo di fronte a insigni magistrati ed accademici, a formidabili specialisti, spesso con grande esperienza pratica, ma anche e soprattutto in individui impegnati in prima fila in una difficile battaglia.
E’ m’è venuto in mente quanto tutto ciò sembri adombrare ancora una volta la debolezza sotterranea della nostra storia nazionale, dove da sempre e non già solo in quell’otto settembre del ’43, affiora improvvisa l’inadeguatezza degli stati maggiori, di chi è al vertice del sistema di governo. Perché, infine, è questa l’impressione che un non specialista come io sono finisce col ricavare dal dibattito odierno. Da esso traspare infatti la fatica dei vari protagonisti della vita del diritto – teorici, avvocati, giudici – nel cercare di far fonte alle straordinarie difficoltà e incertezze dell’intero sistema delle relazioni industriali e dei rapporti di lavoro indotte dalle enormi trasformazioni del quado economico e sociale intervenuto nell’ultimo quarantennio. Giacché, come del resto tanti altri settori-chiave della nostra società, questi processi paiono quasi abbandonati a sé stessi, mentre chi ha la responsabilità ultime del governo e della legislazione, nel nostro paese, nell’inseguimento del contingente, s’è rifugiato in una bulimia legislativa senza progetto, tale in ultima analisi da indebolire l’intero sistema. Bulimia che ha favorito, se non reso di fatto inevitabile, il progressivo allontanamento del nostro ordinamento dalla sua originaria fisionomia di un tipico sistema di ‘civil law’ a matrice codicistica.
Dove tuttavia non si può solo individuare l’assenza di progetto e la sostanziale estemporaneità delle politiche di governi e Parlamenti che si sono susseguite nell’ultimo trentennio, ma va anche riscontrato in quanto accomuna questa storia così italiana a tanta parte dei paesi europei, se non a tutte le società avanzate. Giacché l’indebolimento della ‘politica’ in senso alto, ‘weberiano’ è fenomeno ben più ampio che sembra connotare tutte le democrazie ‘mature’, associato alla complessiva polverizzazione delle strutture fondanti delle nostre comunità e società. Che, a sua volta, appare direttamente connessa a quanto è stato richiamato oggi, parlando della concentrazione temporale, coincidente approssimativamente all’ultimo mezzo secolo, di una duplice rivoluzione industriale d’immani dimensioni, di cui è tuttora difficile valutare l’efficacia ultima. Ma che sin da ora appare aver intaccato in profondità i sistemi di mediazione e di disciplinamento sociali che gli stati moderni avevano saputo creare. L’accelerazione dei tempi appare infatti determinante nell’aggravare in modo esponenziale l’effetto distruttivo del mutamento impedendo ai meccanismi d’aggiustamento sociale d’operare in modo adeguato.
Proprio per questo, e concludendo su questo aspetto, vorrei esprimere tutta la mia ammirazione per la tensione intellettuale, ma anche etica in senso alto, che ho avvertito in questa giornata. E proprio da ciò ricavo il convincimento di quanto sia utile l’orientamento di fondo che traspare dai saggi di Pino come dal dibattito odierno così impegnato a cercare i possibili punti d’incontro tra i concreti problemi originati dai rapporti di forza e dalle trasformazioni economico-sociali e l’esigenza di dar la massima efficacia possibile al nostro sistema normativo, per quanto complesso, lacunoso e talora contraddittorio. In quarta di copertina, nel volume di scritti di Santoro si richiama la sua costante attenzione per la “dignità del lavoratore come valore non negoziabile”, un richiamo che m’ha fatto immediatamente pensare a quei licenziamenti in massa comunicati via e-mail, alla spersonalizzazione della condizione di tanti lavoratori precari e via dicendo che la nuova ‘gig-economy’ et similia sta producendo. Dove s’impone alla nostra consapevolezza la drammatica debolezza delle microsovranità statali, malamente coperte dal mosaico europeo a fronte della radicalità e della forza di fenomeni globali atti a trascendere largamente l’efficacia degli ordinamenti giuridici nazionali. La loro effettività mi sembra infatti e sotto più profili direttamente minacciare le stesse strutture portanti dell’intera disciplina dei rapporti di lavoro, travolgendo quel sistema di relazioni la cui architettura è stata così compiutamente ricostruita da Pino nelle varie edizioni del suo manuale.

V’è però qualcosa d’implicito in questo suo testo che ne supporta l’architettura, seppure in modo meno evidente di quanto non sia dato cogliere nella restante e più analitica opera del nostro festeggiato. In effetti, se andiamo poi a sfogliare il quarto volume dei suoi scritti, s’impone alla nostra attenzione la coerenza ed il modo sistematico con cui le singole analisi in esso presenti sono impiantate – quasi ‘impastate’ – su una onnipresente attenzione per la dimensione storica. Questo riferimento costante alle radici storiche ed agli sviluppi della sua disciplina s’impone infatti per il suo carattere strutturale, a differenza dei tanti ‘cappelli’ che nella mia giovinezza incontravo nelle trattazioni giuridiche otto- e novecentesche, dove i consueti excursus storici costituivano una elegante e sapiente ouverture ad un percorso che si sarebbe poi rigorosamente attenuto al presente della propria disciplina ed al dibattito contemporaneo. Ed è in questo contesto che appaiono così bene illuminate figure chiave della nostra storia giuridica, da Carnelutti ad Ascarelli, da Polacco a Vivante, da Messina a Giugni, in una prospettiva quanto mai complessa che tiene insieme il percorso della civilistica italiana nel corso del Novecento insieme alla scienza commercialistica ed a quella, ancor più giovane, dei laboristi. Perché, in Pino l’analisi attraverso cui si ricostruiscono e si discutono le questioni di diritto positivo è costruita ripercorrendo il modo in cui le questioni giuridiche e gli stessi assetti d’interesse che vi si collegano sono venute maturando e si sono definite nel corso delle generazioni e nei vari contesti storici.
In tal modo la discussione dei problemi di diritto e la loro stessa storia diventano parte dello stesso meccanismo analitico (trovando, debbo dire, una sorprendente analogia che il mio personale metodo storiografico maturato nel corso di molti decenni, dove analisi delle questioni storico-giuridiche e storia della storiografia sono strettamente fuse insieme. Se ripercorriamo il primo capitolo del volume, ma anche la sua riflessione sulle ‘trasformazioni sociali del diritto del lavoro’ e le sue considerazioni sul significato dello Statuto dei lavoratori e sui successivi contesti in cui esso ha continuato ad operare noi troviamo conferma molto chiara di quanto la prospettiva storica sia costitutiva della stessa analisi giuridica che vi si propone: ciò che del resto è evidenziato proprio dallo svolgimento delle singole analisi condotte da Pino e che tanto risentono dei suoi valori e della sua sensibilità. E’ un aspetto quest’ultimo che già s’era imposto alla mia attenzione nel leggere i primi volumi dei suoi scritti, anche per il modo in cui il suo retroterra ideologico è comunque sempre temperato da una puntigliosa attenzione verso la realtà ed alieno da ogni svolazzo ideologizzante. Questa peculiare concretezza cui Pino che alimenta il suo approccio alle più generali questioni giuridiche come alle radici storiche dei problemi da lui studiati, la si ritrova, ovviamente, quando lui stesso fa i conti con vicende dove la rilevanza pratica di complesse questioni giuridiche s’intreccia in modo quasi perverso con aspetti fortemente ideologici, non privi d’immediati risvolti politici.
Sono stato particolarmente colpito, anche in ragione dei miei interessi, da alcune sue pagine, laddove egli, indagando appunto i processi che portarono poi agli schemi adottati dal Codice del ’42, sin dalla dottrina civilistica di fine Ottocento, passa a indagare le svolte che venivano maturando nella scienza giuridica italiana del secondo dopoguerra, sia in relazione alla maggiore rilevanza che gli studiosi di diritto commerciale erano riusciti a dare alla figura dell’impresa capitalistica, sia in relazione alla giovane disciplina del diritto del lavoro. Dove giusta attenzione è rivolta sia al valore di rottura rispetto ai precedenti orizzonti privatistici svolto dalla centralità assegnata al contratto collettivo dalla Carta del Lavoro del 1926, che al ruolo di Francesco Carnelutti nel dare autonomo rilievo allo stesso diritto del lavoro che riempie uno spazio atto a integrare, senza distruggere, “i due monumenti più insigni della nostra civiltà giuridica che sono la proprietà e il contratto”. E’ in quel contesto che il nostro, delineando nei suoi schemi di fondo l’operazione tutto sommato gattopardesca del grande giurista di matrice liberale passato all’adesione al nuovo regime corporativo affermato dal Fascismo, mette bene a fuoco la polemica che i “puri del regime”, come Volpicelli e Costamagna svolgono contro la posizione dello stesso Carnelutti, per la sua tendenza riduttiva rispetto al valore rivoluzionario della stessa costruzione corporativa, attraverso un processo interpretativo che tendeva a riportarla nell’alveo delle grandi architetture privatistiche del passato . Dove, in ultima analisi, emerge pienamente il lucido cinismo di Bottai a dello stesso Rocco – due grandi intelligenze al servizio del Fascismo – che non danno spazio a tale polemica. E questo come spiega bene Santoro, per la loro piena consapevolezza “della debolezza scientifica” di questi stessi estremisti impegnati alla radicale fascistizzazione del sistema civilistico.
E questa stessa debolezza la si coglie tutta anche in quella che esiterei a definire la ‘teoria corporativa’ dell’epoca, che si presenta a noi, depurata dalla contingenza storica in cui maturò, come un ammasso di enunciati con un debolissimo radicamento nella realtà e d’indicazioni programmatiche malamente mascheranti la persistente durezza dei rapporti di classe. Ma che si presentava allora con la forza che gli derivava da un’esigenza da tempo e largamente avvertita soprattutto nelle società europee più avanzate. Perché, sin dalla fine dell’Ottocento, s’era variamente cercato d’individuare una ‘terza via’ rispetto alla radicale rivoluzione sociale predicata da Marx ed ora concretamente attuata con la Rivoluzione d’Ottobre e gli aspetti più duri del regime capitalistico. Dalla dottrina sociale della Chiesa alle varie derive in senso socialdemocratico – da noi con Turati – non v’era paese in cui non si discutesse di tali prospettive. E a questa domanda la dottrina corporativista tendeva a dare una risposta, restando tuttavia sul terreno della propaganda.
Coronata peraltro da un certo successo, se ricordiamo l’attenzione e l’interesse suscitati dal nuovo regime politico italiano in tanta parte dell’opinione pubblica dei vari paesi europei, ma anche negli Stati Uniti. Il che ci aiuta a valorizzare l’osservazione di Pino circa la cautela con cui i ‘cervelli pensanti’ del Regime evitarono di farsi incastrare in una troppo pericolosa verifica delle loro stesse costruzioni ideologiche. Queste servivano a dar lustro al nuovo regime politico ed a suscitare una diffusa percezione della sua capacità di dare risposte efficace ai problemi dell’epoca, mentre è più che dubbio che Mussolini ed i suoi diretti e più autorevoli collaboratori intendessero stravolgere l’intero impianto civilistico per imporre una costruzione destinata a restare eminentemente politica. Che pure aveva una sua qual efficacia che. proprio l’adesione di Carnelutti parrebbe confermare, perché è vero che egli resta necessariamente fedele alle sue radici civilistiche, e la sua attenzione per il modo nuovo d’inquadrare le problematiche del diritto del lavoro nelle prospettive aperte dalle stesse teorie corporative .dimostra che è un uomo attento ai tempi che cambiano.

Ma è tempo di concludere questo mio vaniloquio, ricollocando queste opere di cui oggi abbiamo parlato all’interno di una storia illustre: quella della nostra facoltà sin dalle sue moderne origini tardo-ottocentesche. E’ vero, Pino: la mia, la tua generazione è quella degli epigoni, che molto malamente hanno cercato di ripercorrere la strada dei nostri maestri e dei maestri dei maestri. Una strada irraggiungibile, è vero: quante volte mi sono visto come un vecchio custode di un grande e desolato edificio, che s’aggira negli spazi vuoti, inseguendo memorie e perdute stagioni di splendore, sulla cui divisa rappezzata s’estende la polvere dell’oblio e dell’indifferenza! Ciò nondimeno abbiamo continuato il nostro lavoro, che all’improvviso è illuminato da giornate come questa, quando il nuovo irrompe e, con esso, la forza di nuove generazioni e di una vita che si rinnova e di una riaffermata continuità del futuro con il nostro passato.
Pino, tu hai fatto molto perché ciò avvenisse e di ciò tutti ti sono grati ed oggi molti l’hanno detto e dimostrato. Mentre io, aggiogato come un vecchio prigioniero con le catene dell’affetto al tuo carro di trionfo, ai tuoi meriti scientifici vorrei aggiungere il tuo spirito di servizio che ti permise di svolgere un lavoro esemplare quando volli che tu mi succedessi nell’avventura d’inventare e dirigere quella strana modernizzazione della vecchia nostra facoltà. La mia amicizia per te è così forte e sicura perché tu sei soprattutto e anzitutto, ancor prima che un ottimo studioso ed un accademico di vaglia, una ‘brava persona’. E’ un’espressione quasi indecorosa, certo lievemente volgare e fuori luogo, in quest’aula solenne che ci riporta ai nostri indimenticati maestri, alla nostra timorosa giovinezza, e che però quasi s’impone al mio discorso Essa appartiene in effetti alla gente qualunque, non al linguaggio dei grandi politici o degli uomini importanti e tanto meno degli intellettuali: del mondo del quale pur tu sei parte. Epperò, da parte di quegli uomini minuti che sono l’essenza della comunità in cui viviamo così si indicano coloro che hanno saputo tener fede al complesso di piccole virtù e di quotidiani infiniti ‘doveri di buon vicinato’ con cui si preserva e si rafforza quel tessuto vitale di cui ognuno di noi ha disperato bisogno di esser parte per poter preservare la propria umanità. Per questo, lo ripeto, tu sei una brava persona oltre che un grande amico.
Vale!

 

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