TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Credo che la Corte di cassazione debba essere grata agli studiosi, che, come quelli oggi presenti, compreso il Professor Marco Biasi, autore del volume che oggi viene presentato, Studio sulla polifunzionalità del risarcimento del danno nel diritto del lavoro: compensazione, sanzione, deterrenza, accettano di condividere con noi magistrati della Corte le loro riflessioni su temi cruciali per la giurisprudenza, come è certamente quello del risarcimento del danno, tema del quale ci occupiamo oggi.
Ascoltare la dottrina, che con le sue analisi può mettere in luce aporie e incoerenze che indubbiamente possono annidarsi nella giurisprudenza, fa parte dei doveri della Corte di cassazione, nella sua tensione verso l’ottimizzazione della sua funzione nomofilattica, che è funzione sociale, con importanti risvolti economici, prima ancora che funzione giuridica, comunque imprescindibile per il corretto funzionamento dello Stato di diritto, come ci dice costantemente la Corte europea dei diritti dell’uomo, cui si è aggiunta, oramai da diversi anni, con statuizioni parallele, anche la Corte di giustizia dell’Unione europea.
L’apporto della dottrina è dunque fondamentale per l’assolvimento da parte della Corte di cassazione di questa essenziale funzione.
Oggi parliamo del risarcimento del danno, tema centrale nella giurisprudenza della Corte di cassazione.
Marco Biasi sottolinea nel suo libro come, in materia di danno non patrimoniale, le istanze personalistiche sostenute dalla giurisprudenza attraverso una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 del codice civile abbiano dato luogo ad una proliferazione - secondo alcuni incontrollata - delle voci di danno, cui la giurisprudenza di legittimità ha cercato di porre un argine innanzitutto con le cosiddette sentenze di San Martino delle Sezioni Unite del 2008, cui è seguita un’ulteriore elaborazione giurisprudenziale, culminata con le cosiddette sentenze di San Martino del 2019 della Terza Sezione civile della Corte di cassazione.
Con le sentenze del 2008 le Sezioni Unite sembravano aver archiviato la categoria del cosiddetto danno esistenziale e ricondotto ad unità la categoria del danno non patrimoniale, affermando che quest’ultimo si risolve in una categoria unitaria omnicomprensiva, quindi, non scomponibile in sottocategorie; il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale, danno esistenziale), risponde ad esigenze puramente descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte sottocategorie di pregiudizio non patrimoniale.
Su questo assetto ha poi inciso la giurisprudenza successiva e anche il legislatore, che con la L. n. 124/2017, modificando l’art. 138 cod. ass., ha ricompreso nella nozione di danno non patrimoniale il cd. danno dinamico-relazionale, dando nuova vita al danno esistenziale.
Con le dieci sentenze di San Martino del 2019, il cosiddetto “decalogo” in tema di responsabilità medica, la Terza sezione civile sembra propendere per la scindibilità del danno non patrimoniale in singole voci di danno, che comunque siano denominate, necessitano, ai fini del risarcimento, di opportuna allegazione e prova.
Se si tratti di vera cesura rispetto alle sentenze del 2008 è questione che si discute, e che probabilmente verrà affrontata anche oggi.
Secondo alcuni la divaricazione sarebbe solo apparente, perché anche la più recente evoluzione giurisprudenziale ha mantenuto ben presente il senso profondo dell’intervento del 2008, ovvero quello di affermare, nella sua pienezza di estensione, i principi della necessaria integralità della riparazione del danno alla persona e del divieto di duplicazione risarcitoria.
Credo che questi principi siano validi anche nell’ambito del diritto del lavoro, come emerge dallo studio di Marco Biasi.
Claudio Scognamiglio, nel suo, mi permetto di dire pregevolissimo, perché l’ho veramente apprezzato, saggio introduttivo al volume che oggi si presenta, nel ricordare a tutti noi che il diritto del lavoro nasce da una costola del diritto civile, dal quale ancora oggi non si può considerare del tutto separato, ci dice che, certamente, il diritto del lavoro è un ramo della scienza giuridica che ormai elabora strategie argomentative e tecniche ricostruttive delle questioni affrontate in maniera largamente autonoma rispetto al diritto civile, ma, proprio per questo, finisce per mettere a disposizione di quest’ultimo schemi ricostruttivi originali e suscettibili di essere messi a frutto anche dal civilista.
Il Professor Scognamiglio individua una delle cause di questa vitalità della disciplina nel fatto che prima, oltre che più intensamente del diritto civile generale, il diritto del lavoro ha modulato le sue linee di sviluppo attraverso un dialogo intenso tra dottrina e giurisprudenza, e ci ripropone a questo proposito un pensiero di Paolo Grossi, che in un certo senso ci dice che il diritto del lavoro è “lacrime e sangue”, osservando egli che “il diritto del lavoro è realtà impura, intriso com’è di fatti sociali ed economici, specchio fedele del divenire mutevolissimo della società.”
Citerei qui un passaggio particolarmente efficace del volume di Biasi, quello in cui egli sottolinea che quando il discorso sul risarcimento del danno viene calato nel diritto del lavoro è la dimensione dell’”essere” piuttosto che quella dell’”avere” che campeggia e prende la scena. Mi sembra un’osservazione in linea con la posizione centrale che al lavoro è stata assegnata dalla nostra Costituzione, e anche con un documento internazionale importante che l’ha preceduta di qualche anno, la Dichiarazione di Filadelfia del 1944 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, un documento che ha affermato con decisione il principio per cui “il lavoro non è una merce” e che fissa con lungimiranza i principi per guidare lo sviluppo dei nostri sistemi economici e sociali che devono realizzare le esigenze e le aspirazioni delle persone piuttosto che perseguire il mero raggiungimento di tassi di crescita o di altri obiettivi statistici.
Il Professor Biasi ci propone l’analisi della polifunzionalità del risarcimento del danno nel diritto del lavoro da tre punti di vista, che lui definisce elegantemente “specole”: quella del danneggiato, quella della norma primaria e della garanzia della sua effettività e infine quella del danneggiante.
Ciascuna delle tre trattazioni contiene spunti ed analisi di notevolissimo interesse.
Non avrebbe senso, naturalmente, in questo breve intervento, soffermarsi su questa o quella questione che viene brillantemente sviluppata, come il ruolo centrale della riparazione del danno e l’analisi del tema risarcitorio nel mobbing nella prima prospettiva; la nozione originale del concetto di sanzione, imperniato non sull’idea di punizione del responsabile, bensì su quella della predisposizione di uno strumento utile a presidiare un canone di comportamento che, in questo modo, rinviene nel rimedio il suo necessario completamento nella seconda prospettiva; infine, nella terza prospettiva, quella del danneggiante, la funzione deterrente della responsabilità civile e i differenti risultati che la stessa può in effetti perseguire, tra punizione, dissuasione e adempimento.
Mi pare che il Professor Biasi, svolgendo il suo discorso sulla polifunzionalità del risarcimento del danno nel diritto del lavoro stabilisca un ponte tra la sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale sulla tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo nel vigore del Jobs Act, e quella delle Sezioni unite n. 16601/2017 sulla delibabilità di una sentenza straniera di condanna alla corresponsione di punitive damages: un’apertura all’idea di polifunzionalità della responsabilità di diritto civile.
Un’apertura moderata, però, ed in linea con quei principi, probabilmente ancora validi, delle sentenze di san Martino del 2008, cioè i principi della necessaria integralità della riparazione del danno alla persona e del divieto di duplicazione risarcitoria.
Infatti, dopo averci proposto un’interessantissima analisi di diritto comparato, centrata sull’esperienza statunitense, sulla prassi dei punitive damages – espressione difficilissima da tradurre in italiano! – il Prof. Biasi conclude nel senso che non vi è ragione, nell’esperienza italiana, per forzare il principio che esclude che il danneggiato si arricchisca per effetto della condanna al risarcimento del danno di chi ne è responsabile, privilegiando un impiego alternativo della sanzione civile in funzione di incentivo all’adempimento, mediante l’uso del danno cosiddetto normativo, cioè predeterminato o di ottemperanza all’ordine giudiziale, mediante l’uso delle cosiddette astreintes, cioè delle misure di coercizione indiretta, superando l’esclusione delle cause di lavoro attualmente prevista dall’art. 614 bis del codice di procedura civile.
Sullo sfondo c’è l’accettazione del metodo della law and economics, approccio da tenere assolutamente distinto dall’analisi economica del diritto, questa sì in contraddizione frontale con la posizione del lavoro nella Costituzione italiana e anche con la Dichiarazione di Filadelfia.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.