Testo integrale con note e bibliografia

Una regressione irrazionale
«Adesso si tratta di premiare il merito, migliorare la produttività e misurare la soddisfazione dei cittadini che sono i clienti e i controllori». Affermazioni del generees primono bene il livello a cui è scaduto il dibattito sul lavoro. L’attenzione alla «produttività», la «misura» e il «controllo», e la totale disattenzione per ciò che il lavoro rappresenta nella vita di chi lo compie sono diventate un buon senso diffuso alla luce del quale si stabiliscono in ogni luogo di lavoro, magari con il beneplacito di una gran parte degli interessati e delle loro rappresentanze sindacali, dispositivi di rigore ed efficienza. Siamo agli antipodi delle speranze degli anni 70, quando si ragionava di liberazione del e dal lavoro, o di ricongiun¬gimento di lavoro manuale e intellettuale. Ma anche delle riflessioni che genera¬zioni di intellettuali illuminati, da André Gorz ai teorici del Mauss, a Ulrich Beck, hanno sviluppato sull’«immateriale», sulla ‘fine del lavoro o sull’ampliamento della sfera del lavoro socialmente riconosciuto. Sogni infantili di tempi irrimediabilmente perduti?
Certo in apparenza sembrerebbero tornati i tempi premoderni in cui il lavoro veniva inteso come sacrificio obbligatorio e condanna, magari del peccato originale. Che cos’altro è infatti un lavoro che si vuole sempli¬ficato, ridotto a quantità ben precise ed equiparabili, controllato con i tornelli o con l’occhio vigile del capufficio? Da questo punto di vista gli elementi più sospetti e recalcitranti sono gli intellettuali, che in virtù di non si sa bene quale eccezione ritengono che il loro lavoro sia qualitativamente superiore e non misurabile. Una virulenta campagna mediatica è stata lanciata, con qualche successo, per convincere l’opinione pubblica che è ora di smetterla con certi privilegi.
La coscienza (non necessariamente la cattiva coscienza) di svolgere un lavoro privilegiato è in effetti presente in tanti rappresentanti del lavoro cosiddetto immateriale. Ma il privilegio non consiste nell’orario di lavoro, nelle ferie più lunghe e neppure nello stipendio, equiparabile o inferiore a quello di tante carriere di pari impegno e responsabilità. Sta invece nel fatto che le attività una volta denominate «arti liberali» rappresentano, più di altre, modi di manifestazione personale. Richiedono, per essere com¬piute, condizioni parzialmente diverse da quelle di altre occupazioni: di tempo, di luogo, di autonomia. Per questo non è raro che ci affezioniamo ad esse e non ce ne stacchiamo anche oltre i limiti dell’età della pensione.
È vero che negli ultimi decenni le cosiddette riforme hanno decisa¬mente peggiorato le condizioni della ricerca e della didattica. Pure ciò malgrado, nell’insieme il vituperato lavoro del ricercatore-insegnante resta un possibile modello di ciò che il lavoro dovrebbe poter essere per tutti. Persino ora la didattica a distanza, con tutti i rischi di alienazione che comporta, è diventata un test per inventare nuove relazioni educative vitali. Sì, perché questo è il punto: non si tratta di difendere un certo stile di vita come un privilegio esclusivo, ma come una meta possibile per i lavoratori in genere. Sappiamo che le trasformazioni tecnologiche degli ultimi decenni hanno reso possibile un incremento della dose di creatività e indipendenza di molte specie di lavori – molti dei quali si sono persino disancorati da un luogo preciso di produzione. Per questo la pretesa di ricondurre i lavori, possibilmente tutti i lavori, entro le regole del lavoro operaio o impiegatizio poco qualificato appaiono quanto mai irrazionali. L’unico vero controllo efficace del lavoro, e, aggiungerei, l’unico vero fattore di produttività, è l’affezione che si arriva a creare tra un’attività e chi la compie: in questo caso ci si sottopone a una specie di auto¬sfrut¬tamento e non si calcola quanto tempo si dedica all’attività, e, se non ci fosse (provvidenzialmente) qualche moglie o compagna a protestare, nep¬pure se si lavora dopo cena o nei giorni festivi.

L’utopia del superamento della divisione del lavoro
Quest’idea di un’attività libera, non sottoposta a controlli, con una forte componente intellettuale e scientifica, creativa, ma anche varia, alternata cioè ad attività manuali ed espressive, non è nuova, fa parte del patrimonio di idee degli utopisti sociali da vari secoli. A metà Ottocento ha trovato una formulazione efficace nel giovane Marx, che nell’Ideologia tedesca così descrive gli effetti della divisione del lavoro: «Appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico [cioè un intellettuale puro, un topo di biblioteca] e tale deve restare se non vuole perdere i mezzi per vivere».
Qual è l’alternativa? Sappiamo che Marx la indicava nella «società comunista». Ma questa formula, che nel 1845 era capace di suscitare entusiasmi, almeno nella parte svantaggiata della società, ha oggi certo un’assai minore capacità di attrazione. L’idea di una rivoluzione che ricrei l’intera vita sociale su fondamenta diverse ci lascia ormai scettici. Tuttavia quel mito non può essere abbandonato senza valutare se alcuni degli ele¬menti che lo componevano non conservino la capacità di mobilitare ener¬gie per trasformazioni reali delle nostre vite. Uno di questi elementi, forse proprio quello che Marx indica come centrale, è un diverso assetto delle condizioni di lavoro. Il passo appena citato prosegue così: «Nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quest’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico critico».
Marx, a dire il vero, non è poi sempre restato all’altezza di questo ele¬vato ideale. Ha sempre mantenuto nel suo orizzonte quello che nel Capi¬tale designa «regno della libertà», ma questo dominio di attività libera «sorge sulla base del regno della necessità», non può nascere cioè a suo giudizio senza una preliminare razionalizzazione del regno delle attività produttive, da sottoporre al controllo degli stessi produttori. Si tratta di una strategia in due tempi – prima il pane e poi le rose – che suscita per¬plessità: se la felicità dell’azione non viene messa subito all’ordine del giorno, è probabile che venga rinviata a tempo indeterminato. Molti seguaci critici di Marx hanno visto in questo rinvio le tracce di una residua ideologia del lavoro che lo legherebbe alla cultura del vecchio mondo, borghese e capitalistico. Uno di loro, Marcuse, ha insistito sul legame stretto tra quei due regni: l’appartenenza al regno della libertà, la pratica cioè delle attività che sono fine a se stesse, rifluisce sulle modalità stesse del lavoro, cioè delle attività produttive dirette a colmare i bisogni primari di sopravvivenza e benessere.

La costruzione plurale dell’identità
In altri autori della seconda metà del Novecento invece, il collegamento di lavoro e libertà è venuto meno. La più autorevole rappresentante di questa tendenza è Hannah Arendt. Nel suo Vita activa (1959) troviamo un’opposizione netta tra il labour, il lavoro inteso nel senso di un’attività (ripetitiva) che mira a colmare i bisogni più elementari di sopravvivenza (e di felicità), e l’azione – attività propriamente umana e inventiva mediante cui gli individui regolano i modi della loro convivenza. Il contrasto in questa forma così netta, che disancora la politica da ogni base materiale e svaluta la materialità dei processi produttivi, è poco credibile; tuttavia questo modo di impostare il problema ha avuto un certo successo perché corrisponde in ogni caso all’evidenza del minor peso che le attività lavorative in genere esercitano nella costruzione dell’identità personale. Così sono stati in molti da allora (per esempio il Movimento anti¬utilita-ristico per le scienze sociali, Ulrich Beck e i rappresentanti del gruppo Krisis in Germania), che, messi di fronte alla circostanza ben tangibile della scarsità del lavoro a disposizione e del minor valore che il lavoro riveste nella considerazione sociale, hanno imboccato la strada di una co-struzione plurale dell’identità, poggiandola per un verso sul tempo di non lavoro ma anche su attività di cura, di volontariato e di impegno civile, a cui occorrerebbe dare un riconoscimento sociale ed anche economico, se si vuole affrontare il problema altrimenti insolubile della disoccupazione.

L’ambivalente impresa della produzione di sé
Più interessanti ancora, e più in linea con l’evidente funzione stabiliz¬zatrice che il lavoro continua ad esercitare, mi sembrano i tentativi di misurarsi con i mutamenti strutturali che lo stesso lavoro ha subito. Un autore francese, André Gorz, che ha dedicato tutta la sua vita ad analizzare le metamorfosi del lavoro, ha scritto nel 2001 un breve saggio illuminante, La persona diventa un’impresa. Egli ha dato una rappresentazione convincente del ruolo che la produzione di sé gioca nell’attuale organizzazione del lavoro. Il capitale umano delle imprese è rappresentato in misura crescente dallo svolgimento di una serie di attività di valorizzazione di sé, lavorative e non, che coprono l’intera area della vita. Ogni precario che compila il proprio curriculum alla ricerca di un’occu¬pazione sa di che cosa sto parlando. Queste attività di autocreazione, sottolinea Gorz, hanno un carattere prevalentemente immateriale e in parte ludico. La società nel suo insieme è responsabile della formazione di questo capitale umano, che è però al tempo stesso un capitale personale, in quanto suppone un processo di appropriazione da parte del soggetto. Questo processo è funzionale alle esigenze delle imprese, tuttavia eccede il bisogno che ne hanno le imprese, acquista cioè senso per se stesso.
La situazione descritta non è senz’altro liberatoria. Da un certo punto di vista la regola del lavoro invade la vita privata più di quanto accadesse in epoche precedenti; d’altra parte agli individui viene attribuita una re¬sponsabilità crescente della formazione di sé e dei relativi esiti pro¬fessionali. Non solo, ma essi diventano titolari di una capacità che po¬trem¬mo chiamare ‘politica’ di autoorganizzazione, che produce cambiamenti reali, svuotando di sostanza il potere delle istituzioni. Si realizza a questo modo l’obiettivo latamente anarchico di «cambiare il mondo senza pren¬dere il potere».

Difesa del lavoro intellettuale
I dibattiti a cui ho accennato ruotano tutti, in un modo o nell’altro, intorno al dilemma se il regno della libertà debba essere inteso come un totale trascendimento delle attuali forme della produzione o invece intrec¬ciato con esse, con un esito ancora più radicale, perché in questa seconda ipotesi il lavoro non è abbandonato a se stesso e alle leggi della necessità ma ridefinito nei suoi stessi contorni. Spesso, ragionevolmente, si è rite¬nuto che questa auspicata «liberazione del lavoro» dovesse essere coniu¬gata con un consistente incremento del tempo disponibile per attività supe¬riori (otium).
Queste ipotesi furono formulate, si badi bene, in tempi in cui le possi¬bilità tecnologiche di aumento della produttività erano ancora relati¬va¬mente scarse. Ora che, dopo la svolta informatica, un’accele¬ra¬zione inau¬dita di tutti i processi produttivi è stata resa possibile, ebbene, noi stiamo retrocedendo a un modo di pensare non intonato a questa nuova situazione. La cosa più grave non è che i produttivisti predichino di inseguire i cinesi sul terreno del «pluslavoro», e additino al pubblico ludibrio i lavo¬ratori intellettuali in genere per la loro scarsa produttività, ma che le stesse persone chiamate in causa e le loro rappre¬sentanze sindacali non rea¬giscano con la dovuta fermezza, accettando il terreno dello scontro e i criteri della valutazione. Magari mettendosi ad invocare anche loro l’istituzione di «nuclei di valutazione» che misurino la «qualità». Il vecchio Adorno aveva intuito già nel 1959 che quando la formazione (Bildung) pretende di essere misurata con esami e valutazioni si tramuta in una “mezza cultura” (Theorie der Halbbildung). Può darsi che nelle scuole e nelle Università si annidino anche dei «fannulloni» – ma l’evidenza è piuttosto un’altra, che con tutti i suoi limiti il lavoro intellettuale, la ricerca e l’insegnamento, rappresentino ancora una delle migliori approssimazioni a ciò che il lavoro dovrebbe essere. Difenderlo, non solo in termini di quantità di posti, ma per i modi della sua pratica, non è solo una lotta corporativa per conservare vantaggi che altri non hanno, ma una via per preservare aperta a tutti una prospettiva di lavoro libero, poco soggetto a controlli, passabilmente piacevole.

Le virtù dell’artigiano
Tuttavia non vorrei dar luogo a fraintendimenti. Non intendo tessere l’elogio del lavoro intellettuale così com’è ma riprendere l’intera tematica utopica del rapporto tra lavoro intellettuale e manuale. Nella loro sepa¬ratezza le pratiche teoriche restano sospese in aria e non danno certo luogo alla formazione di personalità armoniche. Richard Sennett ha dedicato uno studio pregevole al lavoro artigiano (The craftsman, 2008) e alle implicazioni che un contatto con le resistenze della materia e l’ambiguità degli strumenti ha per lo sviluppo di un pensiero che faccia presa sulle cose. Voglio soffermarmi su di esso perché mi pare che abbia il merito di abbandonare il terreno insidioso del confronto ideologico per radicarsi in un’analisi circostanziata di pratiche reali.
La «maestria» di cui gli artigiani di ogni tempo hanno menato vanto costituisce per il sociologo «un impulso umano fondamentale, sempre vivo, il desiderio di svolgere bene il lavoro per se stesso». Ciascun essere umano è dotato della capacità di far bene almeno una cosa. Le teorie dell’intelligenza che tracciano confini troppo netti tra soggetti più e meno dotati trascurano di considerare che molti tratti riportabili alla funzione ‘intelligenza’ sono indipendenti l’uno dall’altro e non si prestano ad essere sommati in una media. Le capacità su cui si basa la perizia tecnica non sono straordinarie, si possono riscontrare nella generalità dei soggetti. Sennett ne enumera tre: la capacità di localizzare i problemi, di stabilire cioè il punto in cui è necessario intervenire; la capacità di porsi domande sui problemi, saggiando con curiosità le varie possibilità che si presentano all’azione; la capacità infine di «aprire» un problema, che comporta un’apertura a fare le cose in modo diverso dal solito. Nell’insieme la capacità di fabbricare oggetti rivela ciò che abbiamo in comune. Con un passaggio ulteriore Sennett assume che imparando a svolgere bene un lavoro gli individui sono messi in grado di governarsi e di diventare buoni cittadini. L’arte di fabbricare oggetti fisici retroagisce così sulla costru¬zione dei rapporti umani, che, come ogni costruzione, richiede sperimenta¬zione ed esperienza. Questa idea di una politica radicata nel lavoro e nel¬l’autoorganizzazione della vita sociale si pone in netto e consapevole contrasto con la concezione ‘trascendente’ che ne aveva proposto Hannah Arendt.
La convinzione di essere chiamati a fare una sola cosa e farla bene evoca la vecchia idea di «vocazione». Ora, tutti i mezzi escogitati per fron¬teggiare la crisi economica vanno in una direzione di richiesta di «fles¬sibilità» che non mette affatto in conto la realtà delle vocazioni. La ri¬chiesta sempre più insistente e massiva di prestazioni precarie e casuali (jobs) compromette la possibilità di un percorso professionale coerente (career). Ma com’è possibile tenere insieme la ricerca di profitto delle aziende e l’esigenza di un lavoro che corrisponda a una «vocazione»? Sennett è convinto che sia possibile costruire abilità tecniche «in se¬quenza», attraverso una riqualificazione professionale dei lavoratori. Chi ha impa¬rato a svolgere, con autodisciplina, un lavoro manuale di qualità sarebbe in grado perciò stesso di riconvertirsi a un diverso lavoro di uguale com¬plessità più di quanto non lo sia un lavoratore generico o addetto alle relazioni umane.
Questo elogio della competenza in una o poche abilità nel corso della vita lavorativa non ha niente a che fare con la retorica della «qualità« o dell’«eccellenza». L’os¬ses¬sione per la qualità, anzi, so¬stiene Sennett, produce effetti di isolamento e pretese di dominio sugli altri, che fanno perdere l’e¬spe¬¬rienza e i vantaggi dello spirito comunitario. Alla figura dell’e¬sperto che si isola e persino si rifiuta di socializzare il proprio sapere tacito, come se fosse ineffabile, viene opposta quella del¬l’«esperto socie¬vole», meno osses¬sionato dal bisogno di far valere la propria individualità. In lui la competizione si associa alla colla¬borazione, come dovrebbe avvenire in ogni azienda ben gestita, e non al «confronto invidioso», che non solo avvelena l’ambiente di lavoro ma distorce la stessa qualità, spingendo a un’acce¬lerazione dei tempi che va a scapito della riflessione, propria del «tempo lento» dell’artigiano.

Provo a riassumere le indicazioni principali che si possono trarre dalle riflessioni precedenti per orientarsi nell’attuale congiuntura. Sgombrerei innanzitutto il terreno da una troppo facile obbiezione: che si siano volute proporre soluzioni utopiche. Non intendo affatto negarlo, ma vorrei a mia volta controbattere a chi muove l’obbiezione che le soluzioni sono sempre utopiche, e non sempre nel senso migliore. Non è affatto detto che il controllo esterno del lavoro rappresenti una soluzione ‘realistica’, più efficace di una sua riorganizzazione che lo renda maggiormente deside¬rabile e legato alle motivazioni o alle ‘vocazioni’ di chi lo compie. La stessa cosa si può dire a proposito della ‘flessibilità’ e ‘precarietà’ delle mansioni, che alla lunga spezzano la pazienza del lavoratore e, impedendo una sua partecipa¬zione continua ed intelligente ai processi in cui è coin¬volto, bloccano l’evoluzione dell’intero sistema produttivo. Inoltre i van¬taggi derivanti dal senso di comunità che si crea esercitando un lavoro stabile vengono perduti.
L’elogio del lavoro intellettuale può sembrare incompatibile con quanto ho osservato conclusivamente, ispirandomi a Sennett, sui pregi del lavoro artigiano e sulle relazioni mano-mente. Ma non c’è nessuna contraddi¬zione: il fatto è che certe caratteristiche del lavoro artigiano – il procedere per tentativi, l’individuazione progressiva dei luoghi cruciali in cui i problemi si pongono, l’apprendimento a partire dagli ostacoli e dagli strumenti impiegati – si ripropongono anche in forme assai evolute e immateriali di lavoro, ad esempio nel lavoro informatizzato. La ‘bottega’ e la cooperazione restano fondamentali anche in lavori che abbiano una forte componente scientifica, almeno se si vuole che non restino assolutamente autoreferenziali. Nello stesso tempo diventa possibile pensare ‘realistica¬mente’ a un allentamento della presenza fisica in un luogo determinato, cioè a una fine tendenziale di quel processo di ‘imprigionamento’ in una fabbrica che i lavoratori vissero tanto dolorosamente agli albori della rivo¬luzione industriale. L'esperienza dello smart working, che si è estesa in Italia, sotto la pressione della pandemia, a circa 8 milioni di persone, e che con ogni probabilità lascerà un segno anche quando l'emergenza sarà finita, ha permesso di riflettere sui vantaggi (come sui punti critici) di questo decentramento del lavoro. L'autonomia delle mansioni e la responsabilizzazione dei lavoratori rispetto ai risultati prodotti sembrano esserne esaltate. A certe condizioni un aumento di efficienza è ipotizzabile, congiunto con una soddisfazione per il lavoro compiuto. Il prezzo da valutare è d'altra parte il senso di isolamento e anche il rischio che le nuove metodologie di lavoro a distanza vadano a vantaggio di una minoranza di lavoratori dotati di competenze tecnologiche forti e releghino gli altri, di livello più basso, in funzioni routinarie, poco importa se svolte in un luogo domestico (Cfr. M. Franchi, A. Schianchi, Dopo la pandemia. Lavoro, città, democrazia).
Infine una parola sulla faccenda della «qualità». Da quando se ne parla troppo essa è decisamente scaduta. Tutte le misure adottate per valutarla non fanno che deprimerla. Le scale di merito e la distribuzione dei finanziamenti su base meritocratica non valgono più di coloro che le hanno escogitate e che le mettono a disposizione di politici creduli. In realtà anche qui si verifica un paradosso. Da quando si è ossessionati dalla qualità si è rinunciato ad assumersi la responsabilità di qualsivoglia giu¬dizio che impegni chi lo emette. Per affidarsi a parametri supposti ‘og¬gettivi’, i quali non sono assolutamente capaci di afferrarla e obbligano chi è sottoposto al giudizio a cercare di apparire più di quanto vale.

 

 

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