Testo integrale con note e bibliografia

I. Alcune notazioni di contesto.
Nell’epoca presente, pare vi sia una convergenza su due constatazioni: la prima, che una realtà nuova sia stata dischiusa da una rivoluzione, sia essa informatica, come amava dire Bruno Trentin, o digitale, come prediligono dire Floridi, e i Rullani e altri/e ; la seconda, che la politica, innervata dalle relazioni potestative socio-economiche, rimanga l’unico mezzo in possesso di noi umani per indirizzare verso determinati fini la realtà che lo circonda . Si profila, quindi, una sfida inaggirabile per il pensiero e per l’immaginazione politica in un tempo in cui la struttura del nuovo mondo ibrido (digitale-analogico) appare effettivamente ancora malleabile e modificabile. Il primo passo per una politica all’altezza della nostra epoca è il riconoscimento del carattere precipuo della rivoluzione digitale. Quest’ultima ha destrutturato la nostra realtà, modificandola nel profondo. E qui le strade dei/lle diagnosti si divaricano. Sarà delineata per prima la visione diffusa con efficacia dal professore di Oxford ; che sarà considerata anche rispetto alle sue implicazioni non dichiarate nel confronto successivo, con Koselleck (II) e con i/le sostenitrici della persistenza trasformatrice della materialità nella dimensione digitale (III).
Dobbiamo chiederci: siamo davvero oggi in quella che Floridi ama definire la «società delle mangrovie», di organismi che vivono in acque che non sono facili da definire come dolci o salate ? Come le mangrovie, ci dice, viviamo immersi in una società dove è impossibile separare nettamente l’analogico e il digitale. La comprensione di questa essenza ibrida della realtà sarebbe il primo passo per una buona politica. Il secondo passo sarebbe quello di un radicale cambio della nostra Ur-Filosofia, ovvero del modo essenziale in cui concepiamo la realtà. Seguendo la diagnosi di Floridi, la visione soggiacente, e tuttora permeante la riflessione politica contemporanea, sarebbe di tipo aristotelico-newtoniano, nonostante - questo lo afferma chi scrive - che dalla fine dell’ottocento in poi la filosofia neo-kantiana, la fisica quantistica, il principio di indeterminazione, il costruttivismo si siano opposti e abbiano cambiato la fisionomia delle scienze empiriche, per non citare le svolte dialettiche, ermeneutiche, relazionali, simbolico-interazionistiche intervenute nelle scienze sociali e politiche. Per Floridi, che conosce molto bene quanto appena detto, dato che cita il Cassirer di Sostanza e funzione, resta comunque dominante e pervasivo il combinato disposto Aristotele – Newton. Questo connubio epistemico continuerebbe a mantenere salda una concezione della realtà che ha il suo compimento nell’idea di «meccanismo sociale» in cui «entità atomiche a sé stanti, grazie alle loro proprietà e ai loro comportamenti, sono combinate in una struttura costruita come un orologio analogico» (Il verde e il blu, cit. p.45). Floridi sostiene che questa ontologia sociale e politica sia radicalmente arretrata e strutturalmente inadatta a comprendere e a modificare efficacemente l’infosfera. È necessario, dunque, un cambio di paradigma che sposti il nostro focus dalle cose alle relazioni, dal pensare atomi che entrano in comunicazione al pensare relazioni che costruiscono nodi. «Il nuovo modello», spiega Floridi, «ponendo le relazioni al centro del dibattito sociopolitico, riesce più facilmente ad includere tutte le entità (relata), non solo le persone, ma anche il mondo delle istituzioni, degli artefatti e della natura, perché in una rete non esiste un nodo esterno, isolato dagli altri, cosa invece possibile in un meccanismo» (Il verde e il blu, p. 56). La tesi di fondo è che, in una società matura dell’informazione, come è l’Unione e in parte anche l’Italia contemporanea, il progetto umano debba essere etico (e, cosa altrettanto fondamentale, non più antropocentrico), che debba unire e coordinare con lungimiranza politiche (policies/politics) verdi (economia verde, economia circolare e della condivisione) e politiche blu (economia digitale e dell’informazione), favorendo una modalità di coesistenza/convivenza incentrata sulla qualità delle relazioni e dei processi, anziché sul consumo e sulle cose. Le relazioni devono essere improntate alla cura del mondo secondo fiducia e solidarietà intergenerazionale e infratemporale , secondo il principio, dato per noto, del trust universale . Quanto precede giustifica la lettura diagnostica della condizione socio-tecnologico-politica del presente, coincidente con una società matura dell’informazione, gravata però da interne patologie e gravi disfunzioni che solo una buona politica potrebbe emendare . Questo, per ribadire che la proposta socio-politica adeguata alla definizione di infosfera sia indistricabilmente congiunta con una Zeitdiagnose - eccoci giunti alla seconda parte dell’ intervento - che spazza via alcune delle più consolidate o forse solo vetuste diagnosi della configurazione della temporalità e dell’esperienza nella tarda modernità, forse conclusa. La rivoluzione digitale, che pure è iniziata nel secolo breve, avrebbe tagliato di netto il prima e il dopo, un prima contraddistinto dalle precedenti tre rivoluzioni, epistemiche e culturali, simboleggiate da Newton, da Darwin. da Freud; essa avrebbe reso obsolete le modalità consuete di vivere e concepire esperienza e relazione tempo-spazio ma anche aperto una nuova e inedita stagione alla politica. Si tratta di guardare più a fondo per capire come stanno le cose.
II. Reazione alle diagnosi del tempo. L’infosfera di fronte al ‘futuro-passato’

L’impostazione precedente, in cui l’infosfera assurge a chiave interpretativa e a modello di innovativi interventi politici sembra rovesciare la diagnosi di Koselleck del secolo scorso, nella quale l'accelerazione autoriproducentesi della tarda modernità avrebbe sì schiacciato il futuro sulla condizione del qui e ora, ma dilatandolo e rendendolo inedito e totalmente svincolato dalle esperienze passate. L'orizzonte di aspettativa è del tutto separato dallo spazio di esperienza e dalla possibilità che si possa imparare dalla storia. Il novum risulta incomparabile e inusitato. Per parafrasare Asa Briggs, si può convenire ancor oggi, come sessant’anni fa, sul fatto che il mondo acceleri sempre più, che le differenze si facciano probabilmente via via più grandi e che il temperamento di ogni nuova generazione sia una sorpresa continua .
Gli intervalli temporali in cui i singoli progressi (tecnologici, culturali e socio-economici) prendono piede e si affermano diventano sempre più brevi, afferma Koselleck nell’ultimo capitolo di Vergangene Zukunft (Futuro passato) , e da tale contrazione deriva lo schiacciamento della dimensione futura su quella presente. Leggendo Koselleck, si può dire che la semantica dell’accelerazione coinvolgente le generazioni che si succedono nella contemporaneità vada presa in un senso fortemente anti-finalistico, contrario alle filosofie della storia e del progresso dei due secoli precedenti al XX, secoli in cui l’asimmetria fra spazio di esperienza e orizzonte di aspettativa non soltanto era percepita come molto netta, (fattore che è costante anche per la tarda modernità), ma era anche teorizzata e ‘messa in ordine’ attraverso metodologie storiografiche adeguate all’idea di un progresso verso il meglio. Ad un certo punto, e sempre con riguardo al solo contesto europeo, le esperienze delle generazioni, e a motivo delle diverse rivoluzioni sociali, economiche, politiche, tecnologiche , non si son più succedute, ma accumulate in temporalità parallele; il quadro si è modificato al proprio interno fino ad arrivare al nostro oggi, in cui «scienza e tecnica hanno stabilizzato il progresso come una progressiva differenza temporale fra esperienza e aspettativa» . Da un lato, grazie all’accelerazione dei ritmi e degli intervalli temporali del mondo della vita, che non significa ‘miglioramento’ di per sé, non vi è oggi una sola e definita direzione progettuale prevedibile ex antea; piuttosto, vi è un orizzonte di aspettativa (Erwartunghorizont) ampio e vuoto di contenuti già noti, un vuoto che è tanto più grande quanto più si contrae il lasso di tempo a disposizione per metabolizzare l'esperienza individuale e collettiva di fronte alle innovazioni tecnologiche sempre più frequenti. Dall’altro lato, se consideriamo questo spazio di esperienza come quello del governo, anche se da esercitarsi a velocità inusitata, delle tecnologie, l’aspettativa diviene più dimessa dal punto di vista ideale, ma anche più aperta; potremmo dire che, fortunatamente, nel futuro passato non ci sono destini o esiti prestabiliti, né per la società né per i singoli.
Diametrale rispetto a questa diagnosi disincantata sulle relazioni fra dimensioni temporali e socio-culturali, molto influente almeno per molti decenni (Koselleck è l’emblema della coscienza storico-filosofica del secolo breve), è la presenza fresca e imperitura dell'antico e autentico viatico alla filosofia: thaumazein nel progetto politico dell’infosfera Il provar meraviglia è la precondizione della rivelazione che ci rende esseri pensanti e amanti della sapienza, sta all’origine del pensiero, delle domande che ci poniamo sull’esistenza e sul mondo. Lo sguardo stupito, meravigliato, accogliente perché libero dalla maggior parte di preconcetti rispetto al mondo, è l’origine della filosofia ed insieme l’atteggiamento dei bambini quando sono ancora molto piccoli ed osservano il mondo con gli occhi spalancati di chi non ha mai vissuto in quella dimensione e la scopre per la prima volta.
Ecco ritrovata del pari la consonanza con il versetto di Matteo, 18, 3. “Se non sarete come bambini non entrerete nel Regno dei cieli”; altrimenti detto, non otterrete il perfezionamento del vostro progetto umano. Rispetto a un obiettivo tanto ambizioso, ritrovare lo stupore originario sarebbe prezioso per guardare con occhi nuovi ma antichi le sfide contemporanee. Sempre ammesso che sia ancora possibile. In alternativa allo stupore, che non si può comunque ricostituire in vitro, si può proporre il dialogo continuo, non irenico, ma sempre nuovo, imprevedibile, a più livelli ipertestuali, inter- e intradisciplinari, centrale per ogni prospettiva di lettura dei fenomeni. Del pari, il confronto imparziale e aperto, o almeno non viziato intenzionalmente e non orientato al dominio, fra gli argomenti, le forme di senso e di vita è l’unico mezzo in grado di garantire le condizioni di realizzabilità di un arsenale critico rivolto ai vari progetti (etico)politici di riorganizzazione delle relazioni economiche e industriali. Dato per assodato questo secondo punto di consenso con il teorico dell’infosfera, oltre a quello che prende atto della novità travolgente occorsa negli ultimi decenni, si riaprono nuovamente le divaricazioni, anche sul versante della ricerca di nuovo senso per la progettualità politica, da concepirsi sempre come dimensione compenetrata dalle relazioni potestative di tipo socio-economico.

III. Commenti dissonanti

A ragione si può dire che: la costellazione tipica del tempo presente è quella in cui macchine abili nelle soluzioni hanno perso grazie agli algoritmi la rigidità standardizzante e replicativa del passato e hanno cambiato, e stanno cambiando a velocità accelerata, le modalità: di fare impresa, di svolgere le funzioni manageriali, di delineare il design industriale, di dare senso al consumo e alle relazioni sociali, di conferire o negare legittimità alle istituzioni politiche, in modo da riconfigurarne la collocazione in questa nuova era. I dispositivi digitali di oggi sono sempre più capaci di interagire con le nostre capacità, fornendoci servizi sempre più flessibili, personalizzati, collaborativi. Mutano i modi di generare valore: l’economia del gratuito (free) e dell’apertura dei codici comunicativi (open source) coabita in relazioni di mutuo vantaggio o di pacifica coesistenza o di concorrenza con l’economia della condivisione (sharing economy), con la catena globale del valore (global value chain), con la trasformazione dei business model e dei prodotti che divengono servizi (servitization) . Da qui si comprende come il marketing delle idee appaia come la nuova forma della retorica, e sapersene avvalere appare ad alcuni/e la chiave per sostituire la buona politica alla cattiva politica nell’eco-sistema (naturale, sociale, artificiale, tecnologico, culturale politico) di cui si parla, attribuendo ad essa varia nomi: infosfera, dimensione socio-tecnologica indotta dalla rivoluzione informatica, realtà cibernetico-digitale .
D’altra parte, in nomen omen, la cibernetica è la scienza nocchiera per definizione, ed il gioco di specchi fra politica e tecnologia è pienamente convincente, a partire da Platone con la metafora del pilota della nave, e molto più risalente.
Meno convincente pare, e qui si passa alle controdeduzioni, la sottovalutazione della materialità o embodiment resistente, non malleabile e in condizione asimmetrica, di noi esseri analogici e del sistema ibrido nel suo complesso. Non si dimentichi che la rivoluzione digitale segue o consegue alla rivoluzione cibernetica, che coesiste e persiste. Si ricordi che per Norbert Wiener, la scienza nocchiera, la cibernetica appunto, è la disciplina che si occupa dello studio integrato della comunicazione e del controllo nell’animale (essere animato) e nella macchina, entrambi intesi come sistemi. Ciò per dire che: la rivoluzione cibernetica non soltanto anticipa ma tuttora include, con implicazioni consistenti, la rivoluzione digitale. Con l’avvento della cibernetica, infatti, i processi di progressiva smaterializzazione delle entità e delle tecnologie erano già iniziati, e non hanno sostituito, anzi piuttosto complicato nel numero e nelle variazioni i vincoli e le densità, simboliche e fisiche, della materialità, tanto umana (corporea ed organica) quanto ‘macchinica’ (artificiale/protesica).
In questo senso, l’intero percorso compiuto negli ultimi decenni dagli studiosi/e interessati agli aspetti sociali e politici dei rivolgimenti in corso ha configurato anche una sfida alla conoscenza che si fa prassi e organizzazione, prima ancora che una sfida alla scienza e alla tecnologia. Per comprendere meglio, volgiamo lo sguardo a un'altra esemplificazione di ‘futuro-passato, ricorrendo al terzo autore, fra quelli evocati all’inizio di queste riflessioni, quando abbiamo elencato le nomenclatura delle diverse rivoluzioni tecnologiche che sarebbero state foriere dell’attuale stato di cose. Grazie alla nuova edizione del volume del 2004, La libertà viene prima, di Bruno Trentin , possiamo adottare uno sguardo retrospettivo nel rileggere la seguente citazione, che risulta tanto profetica quanto tuttora inascoltata, prefigurando un futuro possibile che non si è ancora realizzato.

L’obiettivo dell’uguaglianza, dell’uguaglianza dei risultati, e non tanto delle opportunità, ha sempre sopravanzato nei fatti, all’interno delle imprese, quello del rifiuto all’oppressione; e dell’affermazione qui e ora della libertà e dell’autodeterminazione. C’è da chiedersi se questa aporia del movimento socialista e dei sindacati possa durare a lungo. Non solo perché la redistribuzione dei poteri nei luoghi di lavoro avviene ormai a ogni fase dello sviluppo economico (e anzi, spesso, le precede). Non solo perché la rivoluzione informatica trasforma il digital divide in una divaricazione di posizioni, di aspettative di occupazione, di identità, che investe ormai tutte le forme di conoscenza, producendo una vera divisione di classe fra chi sa e chi non sa e non ha più i mezzi per impadronirsi delle conoscenze che maturano nei luoghi di lavoro, nel cuore dell’impresa. Ma perché l’evoluzione culturale di milioni di lavoratori, potenzialmente capaci di impadronirsi delle nuove conoscenze e, a partire da lì, di disporre di una più grande libertà e autonomia nel decidere del proprio lavoro, li porta a non sopportare più di vedersi esclusi da questa possibilità, di vedersi negato il diritto a un uguale salario per uguale lavoro, e di vedersi negata, al contempo, una mobilità professionale che avrebbe bisogno di arricchirsi di nuove conoscenze e di nuove esperienze di lavoro. Ma a guardare bene, a partire da questa contraddizione irrisolta che pesa nella vita di ciascuno, è l’intera concezione del progresso e della modernità, come senso comune, che necessita di essere sottoposta a un profondo ripensamento. Nessun progresso è ormai concepibile e nessuna modernizzazione è ormai sostenibile se non prendono in conto questo primato della libertà attraverso la conoscenza (La libertà viene prima, p. 57).

Come a dire: se non cogliamo le modalità con cui la sfida alla conoscenza includa a cascata tutto il resto (diritti e parità di genere, organizzazione produttiva, democrazia, pensiero ecologico e interspecista, tecnologie), manchiamo il bersaglio. Il porre prima la libertà vuol dire per Trentin anteporre i diritti di ciascun lavoratore/lavoratrice all’ideazione e al compimento di un autonomo progetto di vita, che è il futuro, al mero presente, schiacciato sul godimento in forma egualitaria, certo, ma soltanto in forma compensatoria di alcuni, e rilevanti, risultati materiali. Ciò detto, non va scordato che per ‘sfida alla conoscenza’, prima ancora che alla scienza e alla tecnologia, va chiamata in causa Donna Haraway, molto prima del 2004, e in forza della scelta mirata, lungimirante e dirompente a favore dell’ibridazione con le tecnologie al fine dell’emancipazione delle diverse classi di oppressi/e dalle rispettive forme di oppressione, a partire dal ruolo dei femminismi nel denunciare e combattere le discriminazioni di genere. Si pensi all’idea di una dimensione ibrida, materiale e immateriale, in cui i soggetti e i terminali siano immersi secondo schemi connettivi e ricorsivi; entrambi i ‘protagonisti’ esibiscono, senza soluzioni di continuità, capacità di intervento entro condizioni di interdipendenza e connessione multilaterale, non sempre irenica né simmetrica, ma aperta negli esiti. Molto prima della fortunata innovazione terminologica di Floridi, che ha coniato l’affascinante termine di infosfera, a cui tanta e meritata attenzione è stata dedicata, qui e altrove, Haraway, nel suo Manifesto cyborg, aveva già descritto le premesse e le implicazioni di questa rivoluzione ‘ibridante’ (non meramente digitale/immateriale) fra umano e macchinico, e ciò a partire dalla matrice critica dei femminismi e degli studi di genere. La ‘sfida alla conoscenza’ nell’età cibernetica (comprensiva di quella digitale) implica infatti la messa in discussione di molti fattori disciplinari, dati per molti anni per acquisiti, entro le scienze (sociali e cibernetiche) che si occupano delle interazioni multiple e ricorsive fra gruppi/entità differenti entro e fra società fra loro contigue, le cui dimensioni e consistenza geo-politica sono a geometria variabile. Le società sono esse stesse sistemi sovraindividuali, calati in una dimensione globale di interdipendenza multilaterale ma asimmetrica, con la prevalenza del significato negativo del termine.
Tutto questo avviene in una nuova realtà globalizzata in cui virtuale e materiale, informazioni e immagini, persone, servizi, tecnologie, idee si combinano, si incontrano, si distinguono, si fondono, ma anche confliggono a diversi livelli di efficacia potestativa. Il conflitto, di per sé, per seguire il Machiavelli dei Discorsi, può essere creatore di nuove istituzioni, ma se è di un certo tipo, ovvero non motivato da interessi particolari e soprattutto non monopolistici. Al contrario, in tal dimensione ibrida, variegata (ossia complicata) e indeterminata (ossia complessa) le piattaforme digitali (sovente in mano a multinazionali superstar) facilitano le relazioni tra persone, imprese e territori, da un lato, e d’altro, le controllano in regimi di quasi monopolio, al di fuori della capacità di governo delle istituzioni, almeno finora. La grande scommessa dell’Unione sta nella possibilità di governare l’ambito in cui le ‘cinque sorelle’ (Apple, Alphabet-Google, Amazon, Microsoft, Facebook) impongono, non soltanto grazie alla loro efficienza, il loro strapotere. Ma oltre a questo ultimo aspetto, dell’asimmetria strutturale fra le multinazionali e i milioni di nodi della rete di reti (lavoratori - imprenditori, pro-sumers, consumatori passivi, progettisti, ricercatori, stilisti, consulenti) il cambiamento rivoluzionario mostra ulteriori “lati oscuri”. Il principale è il rischio, per noi umani, di consegnare noi stessi e le generazioni future ad automatismi capaci di evolvere ed imparare a risolvere problemi a velocità impensabili fino a pochi anni fa. E in cui i ritmi temporali di metabolizzazione dell’esperienza si accelerino ulteriormente, rendendone impossibile la direzione. In che modo manager, governanti, consumatori, lavoratori/lavoratrici e cittadini/e potranno sottrarre le loro scelte e i loro desideri al controllo di sistemi autonomi talmente efficienti e pervasivi da impedir loro di farne a meno senza pagare costi individuali e collettivi enormi? A ciò, si devono aggiungere le ulteriori domande: in quale modo possiamo imbrigliare e governare a nostro vantaggio la dirompente e formidabile energia positiva dell’evoluzione digitale contenendone al massimo gli effetti negativi più subdoli, da un lato, più sistemici, dall’altro? Fra questi, nella prima classe di fenomeni, vediamo: l’asservimento volontario agli imperativi del consumo mainstream, l’imprevedibilità progettuale della vita individuale, la dipendenza digitale, l’omologazione degli stili e delle preferenze, il conformismo morale, l’apatia politica, che lascia spazio ai populismi e alla cattiva politica. Nel novero della seconda classe, gli effetti sistemici, si palesano: lo svuotamento della ricerca innovativa, l’appiattimento della conoscenza delle discipline umanistiche - in cui peraltro va riposta una fiducia immensa per il governo del cambiamento come capacità di reinterpretare creativamente il digitale -, la subordinazione della conoscenza innovativa agli imperativi di mercato, la difficoltà cronica della riqualificazione professionale per interi e sempre nuovi settori occupazionali, la neutralizzazione delle persistenti asimmetrie di potere fra imprese, lavoratori, consumatori, ricercatori, il digital divide fra intere aree del pianeta. Non da ultimo, non va ignorato il rimosso collettivo, a livello di coscienza civile e politica, rispetto all’esistenza di un Deep Web dominato da organizzazioni criminali e da singoli soggetti devianti, connessi e letali. Il pericolo di costante inquinamento della sfera pubblica e amministrativa, è tema avvertito da tutti/e gli esperti e cittadini/e più consapevoli. Formulare adeguatamente il problema è la condizione necessaria anche se non sufficiente per risolverlo. La configurazione dello stato di cose fa emergere la necessità di una serie di proposte a più scale territoriali di effettività politica per svegliare prima di tutto le coscienze e richiedere forme di coordinamento fra polities; a loro volta, i political bodies sono da concepirsi in un senso molto più inclusivo rispetto alla varietà delle forme di governo della politica di quanto non avvenga quando si consideri lo Stato tradizionalmente concepito come mera interfaccia. Si dovrebbe ipotizzare una rete istituzionale multiforme, a geometria variabile rispetto alla scala dimensionale, e di impatto globale. Con questi rimandi dissonanti rispetto alle sollecitazioni di partenza, innescate dalla nozione di infosfera si vuol dire che grazie alle contaminazioni e alle frizioni fra paradigmi è possibile leggere la condizione del presente come compenetrazione (nel senso analogo a quello di porosità dato da Walter Benjamin al concetto di Durchdringung) fra analogico e digitale, come una sintonizzazione online e a ritmo alternato fra soggettività umane e entità non umane corporee, materiali. Lo si può dire col mettere in esercizio il principio regolativo del dialogo anche con chi legga i fenomeni da una diversa ottica disciplinare; Addirittura, proprio l’a-disciplinarietà, il prendere avvio dal problema, cercando per la soluzione di esso le competenze più adeguate ovunque si trovino, che pertiene non da ultimo alla robotica e al design creativo, si dimostra essere la modalità di discussione più fruttuosa e conforme ai tratti della temperie contemporanea.

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