Testo integrale con note e bibliografia

1. Terzo settore, professionalizzazione e lavoro autonomo: un breve quadro di insieme

La dialettica «lavoro autonomo-terzo settore» può essere inquadrata attraverso molteplici chiavi di lettura, che corrispondo alle diverse concezioni del fenomeno solidaristico presenti all’interno del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (da ora anche CTS).
Il terzo settore viene considerato, ormai da diversi anni, un bacino occupaziona-le in perenne sviluppo. Il volontariato rimane ancora oggi la sua componente trai-nante, ma accanto al movimento altruistico, che peraltro è oggetto di una profonda riorganizzazione culturale , è aumentato in modo significativo il ricorso a forme di impiego remunerato, secondo una dinamica che lega l’incremento della domanda di servizi sociali alla ricerca di risorse dotate di competenze specialistiche, non di rado appartenenti al variegato mondo del lavoro indipendente.
Per conseguire gli scopi statutari gli operatori del non profit chiamano in causa il lavoro autonomo in tutte le sue vesti giuridiche: dai contratti d’opera alle presta-zioni libero professionali, dalle collaborazioni coordinate e continuative al lavoro occasionale, passando per il modello ibrido dei voucher per lavoro accessorio .
Questa tendenza verso la professionalizzazione delle risorse umane conferma il processo trasformativo che sta vivendo il terzo settore, all’insegna dell’intreccio, ormai endemico, tra la dimensione sociale e quella economica: lo spontaneismo, che ne costituiva la cifra concettuale caratterizzante, convive con la neo-vocazione imprenditoriale dei suoi protagonisti, che avvertono la spinta del mercato e delle sue regole di ingaggio, mimandone le logiche competitive .
I modelli di azione sono più flessibili e orientati al risultato, e in questa cornice il lavoro autonomo fornisce indiscutibili opportunità per coniugare la dimensione eti-ca e l’efficienza gestionale all’interno di un rinnovato equilibrio, capace di tener conto della rottura degli schemi classici della socialità e del dono.
L’approccio regolativo del Codice del Terzo Settore riflette questi cambiamenti e cerca di coglierne le implicazioni.
Il CTS sostiene e promuove il lavoro all’interno degli enti che perseguono attivi-tà di natura civica, solidaristica o di utilità sociale, ma allo stesso tempo assume nei suoi confronti un approccio molto sorvegliato.
Riconosce nelle relazioni umane il motore della solidarietà organizzata, ma è al-trettanto cosciente del fatto che la professionalizzazione degli operatori non profit evoca le medesime criticità che si registrano nel mercato degli agenti che fornisco-no beni e servizi per ragioni di profitto, dove tradizionalmente attecchiscono fe-nomeni di sfruttamento legati alle condizioni di bisogno e alla debolezza contrat-tuale di chi è in cerca di un’occupazione.
Questa doppia sensibilità, che chiama in causa la dimensione fisiologica e quella patologica nell’utilizzo del fattore lavoro, si coglie chiaramente nelle due disposi-zioni che il CTS dedica alle condizioni di impiego negli enti del terzo settore.
Ci si riferisce agli artt. 8, c. 3 e 16, le cui regole esprimono contestualmente la vocazione promozionale e quella antielusiva del Codice, che vengono declinate all’interno di un orizzonte attuativo comune, costituito dal lavoro prestato in tutte le sue forme e applicazioni: salvo che sia diversamente indicato, tali previsioni ope-rano negli stessi termini per i rapporti autonomi e subordinati, muovendosi all’insegna di un approccio regolativo inclusivo e universalistico, che rimane indif-ferente tipologia contrattuale utilizzata per dedurre un’attività di facere nell’interesse altrui.
L’impiego di questa tecnica costituisce uno degli elementi maggiormente qualifi-canti del d.lgs. n. 117/2017, poiché parifica le due categorie dogmatiche dell’autonomia e della subordinazione ai fini della disciplina ivi prevista, calibrando l’intervento normativo sul bisogno da soddisfare, più che sul tipo negoziale: si trat-ta di un segnale, invero non isolato, del tentativo di superare lo stretto ancoraggio del diritto del lavoro alla subordinazione, a favore di un nuovo orientamento assio-logico della disciplina e del suo campo di applicazione, che si va lentamente esten-dendo al di là dei suoi confini tradizionali .
In questo scritto si concentrerà l’attenzione sulle due disposizioni sopra citate, allo scopo di coglierne le implicazioni nell’area del lavoro autonomo.

2. Lavoro autonomo e divieto di distribuzione indiretta degli utili

L’art. 8, c. 3 del CTS si inserisce nel più ampio contesto del divieto di distribu-zione degli utili che grava su tutti gli enti del terzo settore (da ora anche ETS).
Esso va letto unitamente al c. 2, secondo cui è «vietata la distribuzione, anche indiretta, di utili ed avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominate a fondatori, associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali che nel caso di recesso o di ogni altra ipotesi di scioglimento individuale del rapporto associativo».
La ratio della previsione consiste nell’esigenza di preservare l’assenza di finalità lucrative che caratterizza l’attività degli enti del terzo settore, ai quali è imposto l’obbligo di destinare le risorse finanziarie esclusivamente al perseguimento degli scopi istituzionali .
Per questo motivo si considera indiretta distribu¬zione degli utili «la correspon-sione a lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni o compensi superiori del quaranta per cento rispetto a quelli previsti, per le medesime qualifiche, dai con-tratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, salvo comprovate esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche competen-ze ai fini dello svol¬gimento delle attività di interesse generale di cui all’articolo 5, comma 1, lettere b), g) o h)» .
La disposizione in esame ha un precedente diretto nell’art. 10, comma 6, lett. e), d.lgs. 4 dicembre 1997, n. 460 (cd. «Decreto Onlus»). Anche quest’ultimo, infatti, considerava la sovra-compensazione dei lavoratori come indiretta distribuzione di utili o di avanzi di gestione, ma il campo di applicazione era limitato al solo lavoro subordinato e prevedeva un differenziale retributivo più rigido di quello oggi previ-sto dall’art. 8, c. 3 del CTS (venti percento, anziché quaranta percento, rispetto ai corrispettivi previsti dai contratti collettivi di lavoro per le medesime qualifiche).
È bene precisare che le previsioni del «Decreto Onlus» sono tuttora in vigore, atteso che il d.lgs. n. 460/1997 sarà abrogato soltanto a decorrere dal periodo di imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea sulle disposizioni fiscali indicate nell’articolo 101, c. 10 del CTS e, comunque, non prima del periodo di imposta successivo all’avvio del Registro unico nazionale del terzo settore (RUNTS), reso operativo il 23 novembre 2021 .
Ciò ha creato alcuni problemi di sovrapposizione fra le due disposizioni, il cui campo di applicazione, oggettivo e soggettivo, è in parte coincidente.
Al fine di fugare i dubbi è intervenuta la nota direttoriale del 27 febbraio 2020 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la quale ha chiarito che il più se-vero tetto retributivo indicato nel citato art. 10, comma 6, lett. e), d.lgs. n. 460/1997 continuerà a valere solo per le Onlus, fino all’abrogazione del relativo decreto.
Le previsioni dell’art. 8 del CTS trovano invece applicazione diretta per tutti gli altri ETS, non essendo la loro operatività collegata all’istituzione del RUNTS.
Il lavoro autonomo, pertanto, è stato fin da subito investito dagli effetti di quest’ultimo vincolo, sebbene limitatamente ai rapporti costituiti a partire dall’entrata in vigore del Codice, restandone esclusi quelli instaurati antecedente-mente alla medesima data.
Laddove si guardi alle pratiche operative reali, è ragionevole immaginare che il tetto ai corrispettivi riguardi soprattutto le figure professionali collocate su posi-zioni manageriali o comunque dotate di elevata specializzazione, coinvolgendo il cosiddetto «lavoro autonomo di seconda e terza generazione» .
Il ricorso ai moduli del lavoro indipendente, infatti, è divenuto particolarmente diffuso per intercettare profili emergenti e dotati di competenze trasversali, quali manager ambientali e socio-assistenziali, esperti di cooperazione internazionale e di bilancio sociale, responsabili dell’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati, direttori del fund raising, ecc.) .
Proprio per questo motivo le associazioni più strutturate ed influenti nel pano-rama nazionale hanno aspramente contestato la disciplina in commento, imputan-dole l’effetto di impedire la selezione delle risorse migliori e più qualificate, che verrebbero scoraggiate dal mettere a disposizione del terzo settore le proprie com-petenze in quanto non remunerabili al pari di quanto avviene nel mercato delle at-tività lucrative.
Per aggirare l’ostacolo alcuni grandi player hanno stipulato contratti collettivi aziendali che incrementano il trattamento economico dei lavoratori attraverso il ri-conoscimento di una serie di indennità aggiuntive e rivolte a valorizzare l’assunzione di specifiche responsabilità. In particolare, la stampa ha dato notizia della sottoscrizione di simili accordi da parte di Amref ed Emergency, che insieme ai sindacati storici hanno costruito appositi percorsi remunerativi per premiare l’anzianità di ruolo, le competenze personali maturate, le responsabilità connesse all’incarico e la gravosità dei compiti affidati ai lavoratori . Ma si tratta di una di-sciplina pensata per i rapporti di lavoro dipendente, che potrebbe evocare qualche difficoltà laddove si volesse impiegarla come fonte-parametro anche per le tipolo-gie di lavoro autonomo, soprattutto laddove si consideri che nell’area delle presta-zioni d’opera elementi come la disponibilità nel tempo o la quantità di lavoro svol-to non costituiscono unità di misura per la determinazione del valore corrispettivo del facere promesso.
Il che dovrebbe indurre ad un ripensamento della disciplina sui tetti salariali, che nell’area del lavoro autonomo e libero professionale potrebbe più efficacemente as-solvere la sua funzione antielusiva mediante la determinazione di un importo-soglia, da aggiornare periodicamente in via regolamentare, oltre il quale si presuma la violazione della regola del non distribution costraint.
Ad ogni modo, allo stato attuale la citata nota direttoriale del Ministero del La-voro e delle Politiche Sociali precisa che la contrattazione collettiva ex art. 51, d.lgs. n. 81/2015 costituisce il benchmark di riferimento ai fini della corretta applicazione del differenziale retributivo, anche per il lavoro autonomo, ivi comprese le collabo-razioni coordinate e continuative. E per quanto riguarda la base di calcolo, specifi-ca che si debba tener conto anche della parte variabile della retribuzione, even-tualmente fissata a livello territoriale o aziendale, in coerenza con la parificazione fra i diversi livelli di contrattazione promossa dall’art. 51, d.lgs. n. 81/2015.
Va comunque osservato che, accanto alla funzione antielusiva, la scelta di cal-mierare la remunerazione di consulenti e top manager inquadrati con contratti di la-voro autonomo si giustifica in ragione della connotazione etico-sociale che permea il Terzo settore e la sua missione di servizio, consistente nella costruzione di lega-mi fiduciari e nello sviluppo dei valori di reciprocità all’interno della società civile.
In questa prospettiva, il limite ai corrispettivi risponde all’esigenza di adeguare la disciplina delle condizioni di lavoro dei professionisti alla vocazione solidale delle organizzazioni non profit, comprimendo l’autonomia individuale laddove entrino in gioco figure che dispongano di una specifica posizione di forza nel mercato, in ra-gione delle competenze e conoscenze possedute.
Tutto ciò rende ragionevole il vincolo previsto dall’art. 8, c. 3 del CTS: l’adozione di un modello regolativo in cui la logica dello scambio convive con l’afflato etico risulta infatti coerente con la tensione motivazionale che dovrebbe qualificare l’impegno di chi opera nel privato sociale.
Semmai il problema attiene all’ambito delle deroghe autorizzate dalla disposizio-ne.
Il tetto retributivo del quaranta percento può infatti essere superato, indipen-dentemente dalla natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro, laddove l’ETS abbia necessità di acquisire specifiche competenze in relazione alle sole atti-vità di interesse generale di cui all’articolo 5, c. 1, lettere b), g) o h), del d.lgs. n. 117/2017 .
Si tratta di inter¬venti in campo di prestazioni sanitarie, formazione universitaria e post universitaria, e di ricerca scientifica di particolare interesse sociale.
L’elenco è tassativo e il Ministero ha precisato che la deroga non è suscettibile di interpretazione analogica, sicché non è possibile estenderne gli effetti alle altre attività elencate nell’art. 5 del CTS.
In effetti, la derogabilità selettiva appare discutibile: nell’elenco dell’art. 5 figura-no numerose attività al¬trettanto strategiche per la missione erogativa o di advocacy degli enti del terzo settore, come ad esempio l’accoglienza umanitaria e l’integrazione sociale dei migranti, la riqualificazione del patrimonio culturale e la tutela dell’ambiente, la cura delle procedure di adozione internazionale, la qualifica-zione di beni pubblici inutilizzati o di beni confiscati alla criminalità organizzata, ecc. L’interesse a selezionare professionalità altamente qualificate, con rating remu-nerativi altrettanto elevati, potrebbe certamente riscontrarsi anche per gli operatori che agiscono in tali settori, dove l’art. 8, c. 3 non concede margini di deroga.
Va peraltro ricordato che il già citato art. 10 c. 6 del «Decreto Onlus», attual-mente in vigore limitatamente alle organizzazioni che rivestano tale qualifica, per-mette la disapplicazione generalizzata del limite di spesa ivi previsto, a condizione che l’ente interessato sia in grado di dimostrare che il compenso corrisposto al la-voratore non na¬sconda una condotta illecita .
De jure condendo l’art. 8, c. 3 andrebbe corretto in tal senso, anche per evitare che attività eterogenee, ma accomunate dalla rispondenza alla categoria unitaria dell’interesse generale, vengano sottoposte a piani di regolazione differenti, col ri-sultato di ordinare il bene comune all’interno di una gerarchia non sorretta da pre-cisi criteri di ragionevolezza, dunque sospetta di incostituzionalità.

3. Lavoro autonomo e diritto al compenso minimo

La seconda disposizione che viene in rilievo è l’art. 16 del CTS. Anch’essa ha una valenza fortemente inclusiva, nella misura in cui traccia il suo campo di appli-cazione intorno a un ideale di lavoro sans phrase, attuando la direttiva costituzionale di cui all’art. 35 della Carta fondamentale.
Essa stabilisce che «i lavoratori degli enti del Terzo settore hanno diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81».
Viene in tal modo replicata la tecnica normativa dell’art. 8, ma in questo caso il rinvio alla contrattazione collettiva è finalizzato a individuare la fonte parametro per la commisurazione del corrispettivo minimo della prestazione di lavoro, quand’anche quest’ultima non rivesta natura subordinata.
La maggior parte delle analisi dedicate a tale previsione si è finora concentrata sui problemi che essa solleva nel terreno elettivo del lavoro dipendente: alcuni so-spettano della sua incompatibilità con l’ultima parte dell’art. 39 Cost.; altri, tra cui chi scrive, la ritengono un meccanismo di determinazione giusta retribuzione ex art. 36 Cost., riconducibile al genus delle clausole sociali .
È tuttavia evidente come l’applicabilità dell’art. 16 del CTS anche ai rapporti di lavoro autonomo costituisce il tratto di maggiore originalità della disciplina: nella misura in cui garantisce il diritto a un reddito minimo al di là della subordinazione, quest’ultima riflette una chiara sensibilità assiologica rispetto alla questione del bi-sogno di protezione sociale espresso dalle forme di impiego non standard, preoccu-pandosi che la flessibilità tipica dell’autonomia non si traduca in occupazione di bassa qualità.
In questo modo il Codice del Terzo Settore dimostra di conoscere i diversi seg-menti del mercato del lavoro autonomo a cui si rivolgono gli enti non profit: non so-lo quello delle professionalità elevate e altamente specializzate, la cui remunerazio-ne viene calmierata per prevenire fenomeni di over compensation antitetici rispetto ai valori-guida della solidarietà organizzata, ma soprattutto quello intermedio e delle low skills, dove si registra l’opposta necessità di garantire compensi equi e dignitosi, a tutela della folta schiera di collaboratori che si collocano nel mercato in posizione di dipendenza economica.
L’art. 16 del CTS ha dunque il merito di declinare la questione salariale a tutto campo, avendo ben chiaro che il lavoro decente non può reggersi sulle regole del libero mercato, e che la condivisione degli ideali etico-sociali di cui gli enti del terzo settore sono portatore non costituisce sempre una determinante dell’impiego nel privato sociale, almeno per coloro che, trovandosi in condizioni di bisogno, siano alla ricerca di una qualsiasi fonte di reddito.
Muovendosi su questo scenario, la disposizione individua nella garanzia di stan-dard adeguati di reddito il principale strumento di contrasto al dumping sui compen-si, quale fenomeno che interessa non solo il lavoro subordinato, ma anche quello autonomo, così come certificano le analisi sul progressivo impoverimento degli ap-partenenti a tale categoria , che non è più un ambito “privilegiato” rispetto al la-voro subordinato .
Sul piano del diritto positivo le ripercussioni di questa scelta sono molto signifi-cative: è infatti noto che, per la generalità dei rapporti di lavoro autonomo, ancor-ché resi nella forma della collaborazione coordinata e continuativa, i principi di proporzionalità e sufficienza previsti dall’art. 36 Cost. non trovano applicazione, venendo riferiti da un consolidato indirizzo giurisprudenziale al solo lavoro subor-dinato .
Siffatta impostazione, peraltro, è rimasta salda anche dopo l’entrata in vigore della l. n. 81/2017, che ha riconosciuto un pacchetto di tutele più o meno organi-che in favore del lavoro autonomo non imprenditoriale, omettendo tuttavia di sciogliere il nodo del diritto all’equo compenso.
La previsione dell’art. 16 del CTS rappresenta dunque un unicum nel panorama legislativo italiano, ancorché rimanga una misura di carattere settoriale, che ripro-duce l’approccio selettivo con cui il legislatore ha sinora sviluppato la direttiva di tutela salariale del lavoro autonomo con tratti di dipendenza economica: si pensi all’abrogata disciplina sul lavoro a progetto, che aveva sancito il diritto del collabo-ratore a percepire un compenso non inferiore ai minimi salariali stabiliti dai con-tratti collettivi , ovvero, più recentemente, al tentativo di valorizzare la rappresen-tanza degli interessi collettivi nello spazio regolativo delle collaborazioni etero-organizzate (art. 2, c. 2, d.lgs. n 81/2015) , o nella specifica appendice normativa dedicata ai ciclo-fattorini delle piattaforme digitali assunti con rapporti di lavoro autonomo (art. 47 bis ss., d.lgs. n. 81/2015) .

4. L’accordo quadro nazionale per la regolamentazione delle collaborazioni coordinate e conti-nuative nelle ONG: un modello virtuoso.

Proprio nell’ambito del terzo settore, l’intreccio tra l’art. 16, d.lgs. n. 117/2017 e la delega all’autonomia collettiva contenuta nell’art. 2, c. 2, d.lgs. n. 81/2015 è stata messa a frutto, in modo virtuoso, con il rinnovo dell’Accordo Quadro Nazionale per la regolamentazione delle collaborazioni coordinate e continuative all’interno delle Organizzazioni della società civile (OSC) ex art. 25, c. 2, l. n. 124/2015 .
Tale accordo, che tiene conto delle particolari esigenze organizzative del settore della cooperazione e solidarietà internazionale, nonché dello sviluppo dell’aiuto umanitario, riconosce ai titolari di qualsiasi contratto di lavoro non subordinato che si svolga in Italia o all’estero, purché riconducibile ad un rapporto di co.co.co., il diritto ad un compenso minimo, “proporzionato alla quantità e all’impegno tem-porale del lavoro da eseguire”, che viene declinato su quattro profili professionali caratterizzati da un diverso grado di esperienze, competenze e responsabilità.
Sul piano tecnico, la determinazione del corrispettivo annuo dei collaboratori au-tonomi viene effettuata utilizzando come parametro di riferimento le retribuzioni previste dai contratti collettivi nazionali che le OSC aderenti all’accordo quadro si sono vincolate ad applicare al proprio personale dipendente. Ed infatti, per preve-nire fenomeni di shopping contrattuale, le parti firmatarie hanno preventivamente circoscritto i prodotti negoziali eleggibili, che sono il Ccnl “Commercio, terziario, servizi e distribuzione”, il Ccnl “cooperative sociali”, il Ccnl “Uneba” e il Ccnl “Agidae”: ai minimi previsti dai suddetti contratti, in relazione ai corrispondenti profili professionali, dovrà essere applicata una maggiorazione del 6%, che deter-mina il compenso annuo da corrispondere ai titolari di rapporti di lavoro autonomo coordinato e continuativo.
La soluzione mira evidentemente a scoraggiare l’utilizzo fraudolento delle co.co.co., rendendole più onerose dei rapporti di lavoro subordinato comparabili. In questo modo, peraltro, viene automaticamente rispettata la disciplina sui minimi salariali dettata dall’art. 16 del CTS, rispetto alla quale la previsione negoziale opera come clausola di miglior favore.
Per altro verso, la parti firmatarie tengono in considerazione anche la deroga al divieto di distribuzione indiretta degli utili sancita dal già esaminato art. 8, c. 3, d.lgs. n. 117/2017. Ed infatti viene stabilito che il livello minimo dei compensi può essere elevato, con una maggiorazione superiore al 40% in caso di missioni estere con presenza di fattori di rischio per il collaboratore e per attività che richiedano interventi sul territorio (nazionale o estero), con carattere di urgenza con sposta-menti frequenti e non preventivamente programmabili .
Va infine menzionata l’apposita disciplina dedicata ad appalti ed esternalizzazio-ni, ove si prevede che, con riferimento alle attività di raccolta fondi o marketing so-ciale tramite personale che operi fuori dai locali aziendali e senza vincoli di orario, l’utilizzo dei contratto di collaborazione è subordinato al rispetto delle garanzie previste dall’Accordo, ovvero, laddove tale attività sia affidata ad un’impresa ester-na, alla scelta di fornitori qualificati, che “garantiscano una retribuzione dignitosa e commisurata alla tipologia di attività e di impegno svolto”.
Siffatte previsioni assumono notevole rilievo alla luce della centralità che la figu-ra del fundraiser assume nel Terzo settore e del suo inquadramento pressoché gene-ralizzato attraverso gli schemi del lavoro autonomo. La moltiplicazione dei «dialo-gatori da strada» è un fenomeno pervasivo, che coinvolge soprattutto le grandi or-ganizzazioni del terzo settore, le quali si avvalgono sempre più spesso dell’intermediazione di agenzie esterne per ricercare canali di finanziamento regola-ri e continuativi attraverso la raccolta fondi face to face da parte di giovani promoto-ri.
Naturalmente, l’azione dei dialogatori dovrebbe essere sostenuta dai sentimenti di impegno civico o dalla vocazione umanitaria propugnati da parte dei celebri players per cui essi operano, ma lo schermo delle agenzie che si incaricano della ge-stione di tali campagne per fini di profitto ha generato un vero e proprio mercato dello sfruttamento lavorativo, i cui protagonisti sono sedicenti collaboratori auto-nomi, remunerati esclusivamente in base al numero di donazioni procacciate e spesso privati delle tutele lavorative più elementari.
Le misure sopra citate cercano di prevenire tali abusi, indirizzando la scelta delle organizzazioni sottoscrittrici dell’accordo quadro verso operatori economici che non si limitino a premiare il rendimento dei collaboratori, ma che compensino an-che la disponibilità nel tempo garantita da questi ultimi per la ricerca di potenziali donatori, trascorrendo intere giornate sotto i portici, nelle piazze o tra le mura dei grandi centri commerciali metropolitani.
Non è possibile soffermarsi in questa sede sui restanti contenuti dell’accordo, che riguardano le garanzie in tema malattia e gravidanza, la giustificazione del re-cesso, il diritto alla formazione e il riconoscimento delle prerogative sindacali.
Ad ogni modo, l’insieme delle sue previsioni ne fa un modello di buone pratiche da seguire per lo sviluppo della rappresentanza del lavoro autonomo e delle dina-miche negoziali indirizzate a rimodulare le tutele della subordinazione in chiave se-lettiva, affinché le modalità collaborative caratterizzate da tratti di dipendenza eco-nomica siano dotate di una protezione di base, tale da assicurare a chiunque condi-zioni di lavoro dignitose.
Sotto questo profilo la disciplina del lavoro nel Terzo settore ha già compiuto notevoli passi avanti, confermando l’attitudine dell’economia civile a generare valo-ri sociali che anche l’economia di mercato dovrebbe tenere in attenta considerazio-ne, nella prospettiva del passaggio ad un sistema occupazionale incentrato sulla tu-tela universale della persona che lavora.

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.