Testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa. Il percorso del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, baricentro normativo e insieme manifesto politico-ideologico del Jobs Act, è apparso sin da subito irto di ostacoli d’ordine costituzionale. Furono infatti in molti, come è noto , già all’indomani della pubblicazione del decreto , a metterne in evidenza criticamente i numerosi profili di possibile contrasto con i principi costituzionali.
Al centro di tali censure non stava tanto la scelta di marginalizzare ulteriormente il campo applicativo della tutela reintegratoria, portando in qualche modo a compimento il disegno di sostanziale ridimensionamento dell’art. 18 dello Statuto già avviato dalla l. n. 92 del 2012 , quanto piuttosto il congegno che il legislatore del Jobs Act aveva escogitato quale base del calcolo della indennità dovuta in caso di licenziamento ingiustificato, con un automatismo rigidamente correlato alla sola anzianità di servizio del lavoratore. Il riduzionismo economicistico che ispirava quell’elementare meccanismo di calcolo, nel travisare probabilmente persino le raccomandazioni estrapolabili dal pur eterogeneo armamentario teorico messo a disposizione dalla law & economics , appariva, infatti, ad uno sguardo non velato dal pregiudizio ideologico, radicalmente incompatibile con l’impianto stesso dei principi personalista e lavorista inscritti nella Costituzione repubblicana .
Quelle censure, inizialmente confinate al confronto dialettico tra le diverse posizioni dottrinali, hanno come ben noto finalmente potuto trovare almeno in parte sfogo, grazie all’ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma , nella sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale : pronuncia nella quale si può a ragione fissare una sorta di spartiacque della tormentata evoluzione recente della disciplina italiana in materia di tutele contro il licenziamento illegittimo.
Questo contributo non ha la pretesa di ripercorrere tale evoluzione in tutta la sua complessità, notevole sia nel dibattito dottrinale sia nelle elaborazioni della giurisprudenza , ma ha il più limitato intento pratico di fornire una mappa aggiornata delle tante questioni poste dal d.lgs. n. 23 del 2015: di quelle risolte, in parte qua, dall’intervento sull’art. 3 della Corte costituzionale (e, prima, dello stesso legislatore del «decreto dignità») , come di quelle – e sono, forse, ancor più numerose e pressanti delle prime – che ancora attendono una appagante soluzione .
2. La disciplina originaria del contratto di lavoro «a tutele crescenti». La sentenza della Corte costituzionale non incide – in coerenza con i confini al riguardo fissati dalla stessa ordinanza di rimessione – sull’area applicativa ritagliata dal d.lgs. n. 23 del 2015 alla tutela reale del posto di lavoro . Questa, anche dopo la sentenza, rimane pertanto ristretta (nella duplice versione, piena o attenuata, sostanzialmente sovrapponibile al corrispondente décalage configurato dall’art. 18 St. lav. post-riforma del 2012) alle ipotesi eccezionali che sono state originariamente tipizzate, per i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, dagli artt. 2 e 3, comma 2, del d.lgs. n. 23. Le fattispecie disegnate dalle norme testé richiamate non si lasciano peraltro perfettamente sovrapporre a quelle ad esse corrispondenti dei commi 1, 3 e 7 del testo vigente dell’art. 18 St. lav.
Il primo comma dell’art. 2 del decreto, nel delineare le fattispecie cui si applica la tutela reintegratoria piena senza tetti risarcitori , mentre si limita a richiamare le ipotesi di nullità del licenziamento discriminatorio a norma dell’art. 15 della l. n. 300 del 1970, contiene un rinvio generale a tutti gli altri casi di nullità «espressamente» previsti dalla legge. Ciò a differenza di quanto prevede l’art. 18, che al comma 1 fa riferimento – con tecnica analitica e sicuramente più specifica – alle ipotesi di nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’art. 3, l. n. 108 del 1990, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’art. 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al d.lgs. n. 198 del 2006, o in violazione dei divieti di cui all’art. 54, commi 1, 6, 7 e 9 del testo unico delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al d.lgs. n. 151 del 2001, ovvero – ancora – perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o viziato da un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c.
Sennonché la diversa tecnica definitoria impiegata nelle due disposizioni non può fare aggio sulla sostanziale identità delle fattispecie di riferimento, che non possono che avere identico significato, identici essendo gli effetti sanzionatori della nullità del licenziamento nei due casi. Ne consegue, così, che al riferimento agli altri casi di nullità previsti dalla legge deve essere attribuita la stessa ampiezza applicativa, propria in genere delle fattispecie residuali non richiamate nominalmente, tanto nell’art. 18 St. lav. quanto nell’art. 2, comma 1, del decreto, a prescindere dalla circostanza che in tale ultima disposizione figuri l’avverbio «espressamente» . E lo stesso dicasi, al di là dei diversi rimandi legislativi, per la nozione di licenziamento discriminatorio, per la quale la Corte di cassazione ha come noto finalmente imboccato, senza incertezze, la strada di una definizione in termini rigorosamente oggettivi, con tutte le conseguenze sul piano degli oneri allegativi e probatori , affrancandola dalla connotazione soggettivistica oramai confinata alla ipotesi del recesso viziato da motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c. .
Oltre che nei casi di licenziamento discriminatorio, nullo e intimato il forma orale, l’art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 23 del 2015 rende applicabile la disciplina della reintegrazione ad effetti risarcitori pieni, di cui ai commi precedenti, anche nelle ipotesi in cui il giudice accerti «il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68» .
Sul punto la disciplina del contratto a tutele crescenti è, per un verso, migliorativa di quella di cui l’art. 18 St. lav. e, per un altro, apparentemente peggiorativa. È migliorativa laddove dà opportunamente accesso , nelle ipotesi di assenza di giustificazione del licenziamento appena considerate, alla tutela reintegratoria piena (ovvero allo stesso regime rimediale valevole per i casi di discriminazione); mentre l’art. 18, comma 7, contempla, per tali ipotesi, soltanto «l’effetto reintegratorio attenuato» . È, invece, apparentemente peggiorativa là dove non contempla, a differenza del comma 7 dell’art. 18 , l’ipotesi del licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110 c.c., che, pertanto, almeno secondo la tesi che ammette l’applicazione della tutela reintegratoria piena solo per le fattispecie di nullità espressamente previste dalla legge, dovrebbe ricadere, per i nuovi assunti con il contratto «a tutele crescenti», nel campo di applicazione – congegnato come tendenzialmente generale – della tutela meramente indennitaria di cui all’art. 3 del decreto . Ma se si condivide quanto si è detto poco sopra a proposito del trattamento degli altri casi di nullità (anche inespressa o implicita), deve ritenersi che il rimedio invocabile contro il licenziamento nullo, perché intimato in violazione dell’art. 2110 c.c., resti quello previsto dall’art. 2, comma 2, del decreto . A tutto voler concedere, non potendosi ravvisare una fattispecie di licenziamento in senso proprio ingiustificato, per il quale solo l’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 congegna come regola generale il rimedio puramente indennitario, dovrebbe trovare «applicazione la c.d. tutela reale di diritto comune» .
Una tutela reintegratoria attenuata (sul modello dell’art. 18, comma 4, St. lav.) è infine prevista dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 «esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento». Avremo modo di approfondire più avanti le questioni interpretative e i persistenti dubbi di legittimità costituzionale sollevati da tale infelice previsione ; per il momento preme rilevare che, con questa disposizione, il legislatore delegato completa le previsioni con le quali intende fissare il confine entro cui è eccezionalmente consentita la reintegrazione, tanto ad effetti pieni (art. 2), quanto, appunto, ad effetti risarcitori attenuati (art. 3, comma 2).
Al di là di tale confine, il lavoratore assunto con contratto «a tutele crescenti» conoscerà, in caso di licenziamento illegittimo, solo il rimedio di tipo indennitario, forte o debole a seconda dei casi. Ed è qui, come vedremo più in dettaglio tra breve, che viene ad incidere – con tutto il suo profondo impatto innovativo – la doppia «correzione» impressa, dapprima, dal «decreto dignità», con la elevazione delle soglie minima e massima della indennità risarcitoria (rispettivamente a 6 e a 36 mensilità), e, poi, dalla sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale, con lo smantellamento del meccanismo di rigida correlazione automatica alla sola anzianità di servizio del lavoratore dell’indennità dovuta per i casi di licenziamento ingiustificato. Il sistema originariamente delineato dal legislatore del Jobs Act ne esce completamente modificato, con una sostanziale alterazione tanto degli equilibri interni alla sistematica del decreto quanto di quelli esterni: ovvero di quelli che sono apprezzabili alla stregua di una valutazione comparativa con il regime dei rimedi che, per gli assunti prima del 7 marzo 2015, viene delineato, a seconda delle dimensioni occupazionali dell’azienda, dall’art. 18 St. lav. e dalla l. n. 604 del 1966. Al punto che, se già in origine il sintagma «contratto a tutele crescenti» poteva essere a ben ragione considerato «un imbroglio linguistico», oggi la formula perde completamente di senso, visto che ben poco resta dello specifico meccanismo «così come (subdolamente) immaginato dalla legge di delega n. 183 del 2014» .
E così, nei casi in cui risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) o per giusta causa, se in base al testo originario dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 il giudice, nel dichiarare estinto il rapporto di lavoro alla data del recesso, avrebbe sempre dovuto condannare il datore al pagamento di una indennità – non assoggettata a contribuzione previdenziale – pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità, ora, per effetto del combinato disposto della novellazione operata dal «decreto dignità» e della pronuncia della Corte costituzionale, da un lato la soglia minima e il tetto massimo salgono rispettivamente a 6 e a 36 mensilità, dall’altro la concreta misura dovrà essere discrezionalmente fissata dallo stesso giudice in relazione non più solo all’anzianità di servizio del prestatore, ma all’insieme degli altri parametri di commisurazione tradizionalmente operanti nel sistema, quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.
La tutela indennitaria debole spetta, invece, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, lasciato indenne dalla Corte costituzionale e non modificato neppure dal «decreto dignità» , nelle ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966 (così come modificato dalla l. n. 92 del 2012) o della procedura di cui all’art. 7 St. lav. Casi nei quali il giudice, dichiarato estinto il rapporto alla data del recesso, deve condannare il datore al pagamento di un’indennità per ogni anno di servizio del lavoratore, in una misura che non potrà essere inferiore a due e superiore a dodici mensilità .
Per le piccole imprese che non raggiungono i requisiti dimensionali per l’applicazione dell’art. 18 St. lav. – cui è sempre inapplicabile il rimedio della reintegrazione ad effetti risarcitori attenuati di cui all’art. 3, comma 2 – l’anzidetto ammontare delle indennità risarcitorie è dimezzato e non può in ogni caso superare le sei mensilità, che è il limite massimo ordinario previsto anche dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966. In tal modo il decreto, con l’art. 9, comma 1, ridetermina, ma in peius, per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, i contenuti della stessa tutela obbligatoria ordinaria valevole per le piccole imprese, abbassando contemporaneamente la soglia minima (che per i vizi procedurali del licenziamento scende ad una sola mensilità di retribuzione) e quella massima (che, per l’appunto, non può superare in nessun caso le sei mensilità, laddove la l. n. 604 del 1966 consente, per i lavoratori con anzianità elevata, di raggiungere, nel massimo, il tetto delle 14 mensilità).
Le organizzazioni di tendenza – ovvero i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto – sono generalmente assoggettati dall’art. 9, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 alla nuova disciplina, nei termini sin qui riepilogati.
L’art. 10 estende al licenziamento collettivo – come definito dagli artt. 4 e 24 della l. n. 223 del 1991 – la medesima disciplina applicabile al licenziamento individuale intimato in carenza di giustificato motivo oggettivo. E dunque, salvo il caso davvero di scuola del licenziamento collettivo intimato oralmente (per il quale vale ovviamente il rimedio della reintegrazione ad effetti risarcitori pieni ai sensi del comma 1 dell’art. 2), sia in caso di violazione delle procedure richiamate dall’art. 4, comma 12, della l. n. 223 del 1991, sia in caso di violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5 della medesima legge, dovrà applicarsi il regime indennitario forte previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nel testo in vigore anche all’esito delle pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale. Il d.lgs. n. 23 del 2015 esclude, in tal modo, la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro prevista invece dalla l. n. 92 del 2012 in favore del lavoratore licenziato in violazione dei criteri di selezione di cui all’art. 5 della l. n. 223 del 1991, parificando, sul piano dei rimedi, tale vizio sostanziale del recesso alle ipotesi di violazione delle procedure richiamate dall’art. 4, comma 12, di tale ultima legge.
Completa il disegno della disciplina del d.lgs. n. 23 del 2015 l’art. 11, che rende inapplicabili ai giudizi di impugnazione dei licenziamenti da esso regolati le disposizioni di cui ai commi da 48 a 68 dell’art. 1 della l. n. 92 del 2012, ovvero lo speciale rito previsto dalla legge Fornero per i licenziamenti contro i quali si invochino le tutele dell’art. 18 St. lav. .
3. Il contratto «a tutele crescenti» dopo il «decreto dignità» e la sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale. La sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale ha dunque cominciato a porre parziale rimedio alla singolarissima situazione che – nell’impianto originario del d.lgs. n. 23 del 2015, come detto solo parzialmente corretto dal «decreto dignità» – faceva del lavoratore assunto con contratto «a tutele crescenti», ad onta del fondamento lavoristico e personalistico della nostra Costituzione, il «debitore più penalizzato del nostro ordinamento giuridico» .
Dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 (sia nel testo originario sia in quello modificato dalla l. n. 96 del 2018) limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», la Corte, infatti, ripristina, in favore dei lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti, un sistema rimediale contro il licenziamento ingiustificato che torna ad allinearsi – seppure con i limiti e le lacune che segnaleremo più avanti – ai precetti di cui agli artt. 3, 4, comma 1, 35, comma 1, e 76 e 117, comma 1, Cost. (questi ultimi in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, nella sua duplice veste di precetto integrante il criterio direttivo di delega e di norma interposta). Oggi, infatti, in virtù del combinato disposto della sentenza della Corte costituzionale e dell’intervento del legislatore, il rimedio generalmente azionabile ai sensi dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 contro il licenziamento ingiustificato (sempre, per quello per motivi oggettivi o economici; in via generale, per quello fondato su ragioni disciplinari, e salvo che non ricorrano eccezionalmente gli estremi per la reintegrazione ad effetti attenuati alla stregua del secondo comma della disposizione) potrà senz’altro consistere in una indennità risarcitoria onnicomprensiva compresa tra un minimo di sei e un massimo di trentasei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, che il giudice dovrà commisurare alla concreta situazione dedotta in giudizio (rendendo congruo, pertanto, il ristoro rispetto al danno subito, seppure entro le soglie ricordate), tenendo anzitutto conto dell’anzianità di servizio del prestatore, ma considerando, altresì, gli «altri criteri desumibili, in chiave sistematica, dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)» .
La Corte ha in tal modo scardinato – ritenendolo radicalmente incompatibile con gli evocati parametri costituzionali – il rudimentale meccanismo di quantificazione automatica dell’indennità risarcitoria che nell’impianto del Jobs Act, non corretto su tale cruciale profilo dal «decreto dignità», pretendeva di ridurre il giudice ad un modesto contabile, in una singolare miscela di «legolatria» neo-illuministica e di pedagogia da law & economics low cost (se si consente il gioco di parole). La conseguenza è un inevitabile contrappasso per quanti avevano coltivato l’illusione della facile certezza del diritto ridotta a calcolo aritmetico del firing cost: dopo la sentenza della Corte l’incertezza endemica alla disciplina dei licenziamenti, come «riformata» dalla l. n. 92 del 2012 , si estende anche alla sfera applicativa del d.lgs. n. 23 del 2015, rendendo impossibile al datore di lavoro quantificare con esattezza ex ante il costo del licenziamento entro la soglia minima di 6 e il tetto massimo di 36 mensilità della retribuzione utile per il computo del trattamento di fine rapporto .
È stato in effetti sufficiente riaprire il ragionamento giuridico al soffio dei valori costituzionali – anche come integrati dai principi della Carta sociale europea – per battere «in breccia alcuni assiomi della nostrana law & economics, così come penetrati nella disposizione dell’art. 3, comma 1, nella parte in cui prevede una tutela contro i licenziamenti ingiustificati rigida e predeterminata» . Ancorché nella motivazione della Corte non sia del tutto svanita l’eco di quelle «mitologie economiche» che negli ultimi lustri hanno sorretto, fin quasi a diventare senso comune, il rovesciamento dei postulati costituzionali dello Stato democratico e sociale, dissimulando sotto le suadenti vesti d’un sedicente nuovo riformismo le più spettacolari controriforme sociali della recente storia repubblicana, non c’è dubbio che la sentenza n. 194 del 2018 riaffermi con forza il primato del principio lavoristico.
La Corte giunge al detto esito di parziale demolizione (e conseguente manipolazione) dell’art. 3, primo comma, del d.lgs. n. 23 del 2015 accogliendo solo in parte i profili di illegittimità costituzionale sollevati dal giudice rimettente. In estrema sintesi, i dubbi di incostituzionalità prospettati dal giudice a quo in ordine al rigido meccanismo di determinazione dell’indennità risarcitoria in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore si addensavano essenzialmente intorno a due poli fondamentali: la violazione, da un lato, del principio di eguaglianza-ragionevolezza e, dall’altro, del principio di effettività (sub specie di adeguatezza e dissuasività) della tutela indennitaria.
Quanto al principio di eguaglianza, si era osservato, da una parte, come detto sistema di tutela introducesse una irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, non costituendo certo la diversa data di assunzione – che è elemento del tutto estrinseco alla fattispecie – un idoneo criterio giustificativo di differenziazione di rapporti contrattuali evidentemente identici sotto ogni altro profilo sostanziale; dall’altra, come l’assenza di graduazione della tutela, imponendo al giudice un meccanismo automatico di riconoscimento dell’indennizzo legato al solo parametro dell’anzianità di servizio, impedisse di valutare ogni altro elemento, costringendo a trattare irragionevolmente alla stessa maniera situazioni tra loro anche profondamente differenti .
Per ciò che attiene al principio di effettività della tutela, era stato rilevato come, sebbene il rimedio contro il licenziamento ingiustificato possa anche non avere natura reintegratoria, esso debba comunque risultare adeguato, dovendo in ogni caso assicurare, dal lato del lavoratore, una congrua riparazione del bene giuridico leso (che è qui di pregnante rilievo costituzionale), e dovendo altresì essere, dal lato del datore di lavoro, realmente dissuasivo. Mentre, nella specie (ove veniva in questione il licenziamento con motivazione «apparente» di un lavoratore con modesta anzianità di servizio), doveva apparire addirittura evidente come la misura dell’indennizzo fosse irrisoria rispetto all’importanza del bene protetto e che, conseguentemente, il diritto al lavoro (costituzionalmente garantito come strumento di realizzazione della persona e primario mezzo di emancipazione sociale ed economica) risultasse ingiustamente sacrificato, nella sostanziale assenza di un corretto bilanciamento con il contrapposto interesse datoriale, pur espressione della libertà d’iniziativa economica di cui all’art. 41, comma 1, Cost.
La Corte ha disatteso il primo dei prospettati profili di violazione dell’art. 3 Cost., ritenendo non irragionevole, e dunque non contraria al principio di eguaglianza, la pur forte differenza di statuto protettivo tra assunti prima e dopo la fatidica data del 7 marzo 2015 ; in particolare reputando che la scelta del legislatore di differenziare la sfera di applicazione delle norme in ragione di detto fattore temporale risulterebbe coerente con lo scopo dichiaratamente perseguito «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» .
Tale conclusione – come già argomentato in altra occasione – non ci appare tuttavia convincente. È pur vero (come del resto puntualmente ricordato nella stessa ordinanza di rimessione) che nella giurisprudenza costituzionale è stato costantemente affermato come un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, non contrasti, di per sé, con il principio di eguaglianza, potendo il fluire del tempo costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche. Tuttavia, la Corte non sembra aver tenuto nella debita considerazione che l’irragionevolezza della scelta del legislatore non risiede tanto nella scelta, in sé considerata, dell’attenuazione delle tutele in vista di un qualche obiettivo di politica occupazionale, quanto nel criterio puramente temporale – o, per meglio dire, irriducibilmente contingente – individuato per l’applicazione della nuova disciplina. Infatti, la divaricazione delle tutele contro il licenziamento illegittimo – che è destinata a durare nel tempo ed è, come tale, strutturale per i rapporti su cui va ad incidere – viene qui incoerentemente ancorata ad un criterio (quello del diverso momento di stipulazione del contratto di lavoro) che è del tutto estraneo, o per meglio dire eccentrico, proprio perché contingente, rispetto alla fattispecie disciplinata, laddove le caratteristiche dei detti rapporti, in qualunque tempo instaurati, rimangono – anche in proiezione temporale – del tutto identiche sotto ogni profilo sostanziale .
Così opinando, però, la Corte amputa la portata del canone della ragionevolezza, rinunciando ad un controllo di congruità finalistica della legge ed evitando «di verificare l’adeguatezza strumentale del mezzo legislativamente prescelto rispetto al fine da realizzare» . Ma, in tal modo, la sentenza finisce per svalutare di conseguenza – seppure in nome di un self-restraint di cui ben si comprendono le ragioni di opportunità politica – il valore del principio di eguaglianza, che si rattrappisce a misura delle stesse scelte effettuate, a monte, dal legislatore ordinario. Senza un controllo di congruità causale-sostanziale tra le finalità enunciate dal legislatore e gli strumenti all’uopo impiegati, le differenze di trattamento giuridico introdotte dalla legge – salvi i casi piuttosto improbabili di irrazionalità manifesta per evidente incoerenza logica – rischiano di diventare tutte pressoché automaticamente giustificate, alla stregua di un ragionamento che appare tuttavia viziato da una palese circolarità: l’enunciazione del fine finisce, in pratica, per assorbire in sé la giustificazione dei mezzi .
La Corte ha invece ritenuto fondate, e dunque accolto, tutte le ulteriori questioni di legittimità sollevate con riferimento all’art. 3, comma 1, Cost., agli artt. 4, comma 1, e 35, comma 1, Cost., nonché agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost. (questi ultimi, come detto, in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea). La Corte ha infatti rilevato che il meccanismo di quantificazione contenuto nell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, commisurando meccanicamente e rigidamente l’indennità, la rende uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità e le fa così assumere i connotati di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, con la conseguenza di privare il giudice della possibilità di personalizzare il danno subito dal lavoratore (entro una soglia minima ed una massima) facendo ricorso ad una pluralità di parametri di valutazione diversi. Il risarcimento del danno, ancorché non necessariamente riparatorio dell’intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere al contrario sempre effettivo e adeguato, mentre la rigida dipendenza dell’indennità dalla sola anzianità di servizio, soprattutto nei casi in cui questa sia bassa, impedisce di liquidare un congruo ristoro del danno prodotto dal licenziamento illegittimo e certamente preclude alla disciplina sanzionatoria quella funzione di dissuasione dell’abuso del potere di recesso datoriale che è parimenti necessaria affinché possa dirsi realizzato un equilibrato componimento degli interessi in gioco, comprimendo l’interesse del lavoratore in misura eccessiva rispetto alla libertà di organizzazione dell’impresa e risultando, in tal modo, incompatibile sia con il principio di ragionevolezza, sia con la tutela costituzionale del diritto al lavoro.
4. I problemi applicativi del nuovo art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015. La sentenza della Corte ha dunque modificato in profondità la regola contenuta nel primo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, destrutturando , di riflesso, il meccanico automatismo sanzionatorio congegnato dal Jobs Act e restituendo al giudice la indispensabile discrezionalità valutativa nella commisurazione della indennità risarcitoria al caso concreto . La natura della pronuncia e i suoi precisi effetti sui criteri di determinazione del quantum, resi ora nuovamente disponibili al giudice, sono, tuttavia, oggetto di accesa discussione tra i commentatori.
È in particolare dibattuto se – in considerazione della tecnica decisoria cristallizzata dal dispositivo – la pronunzia della Corte debba essere intesa come di annullamento parziale «secco» , meramente ablativo di una porzione della norma di legge , o se, valorizzando la parte motiva della sentenza, la stessa non debba piuttosto essere ascritta al novero delle pronunce manipolative e – in specie – a quelle cosiddette «additive di regola» . L’opzione per l’una o l’altra tesi ha evidenti implicazioni pratiche, in particolare in ordine alla possibilità di integrare il dispositivo con le indicazioni espresse in motivazione sui parametri di quantificazione dell’indennità risarcitoria, che solo optando per la seconda lettura potrebbero propriamente ritenersi vincolanti per il giudice. Un riflesso non meno importante sul piano applicativo attiene alla precisa determinazione del contenuto della norma di risulta, giacché ove si ritenesse – svalutando il rilievo delle motivazioni – che la sentenza si sia limitata ad espungere «dalla precedente disposizione l’unico criterio moltiplicatore (l’anzianità) e il moltiplicando (le due mensilità della retribuzione), senza però essere additiva di altri criteri», dovremmo concludere di trovarci in presenza di «una norma “aperta”, da ricondurre alla tipologia delle disposizioni che dovranno essere etero-integrate, ossia riempite di volta in volta dal giudice, in relazione alle quali il legislatore rinunzia volutamente a predeterminare tali criteri, proprio al fine di demandarne la definizione alla discrezionalità dell’autorità giudiziaria» , nel solo rispetto della soglia minima delle sei mensilità e del tetto massimo delle trentasei.
Già in una precedente occasione si è avuto modo di affermare come non possa essere questa la lettura della sentenza della Corte , che, al di là di indubbi aspetti di incoerenza tra parte motiva e dispositivo , ha chiaramente inteso censurare, dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, unicamente la regola della rigida correlazione della indennità ivi prevista al solo criterio della anzianità di servizio del lavoratore, facendo salvi tutti gli altri elementi della fattispecie, così corretta. Ed infatti, come è stato persuasivamente osservato, «il meccanismo di indicizzazione dell’indennità correlata alla maturazione dell’anzianità, così come previsto dall’art. 3, comma 1 (“due mensilità […] per ogni anno di servizio”), non è stato, in quanto tale, oggetto di una specifica censura da parte della Corte. Censura che, invece, ha riguardato la modalità congegnata dal legislatore di determinazione crescente dell’indennità connotata “oltre che come certa, anche come rigida, perché non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio”» . Per cui, se è pur vero, su un piano strettamente formale, che «tale meccanismo di indicizzazione (“due mensilità […] per ogni anno di servizio”) è stato rimosso dal dispositivo della sentenza n. 194/2018, […] ciò è addebitabile non già ad una censura di incostituzionalità, quanto all’ampiezza dell’intervento di rimozione del dato testuale dell’art. 3, comma 1, operato dalla Corte nel dispositivo; quindi una rimozione avvenuta per motivi tecnico-formali e non per la sua illegittimità. Del resto, la stessa cosa si è verificata per quanto riguarda il riferimento alla retribuzione utilizzata per il TFR, che, espunta dal dispositivo, viene invece recuperata nella motivazione della sentenza n. 194/2018» .
Integrando il dispositivo con la motivazione della sentenza, che già sotto il profilo testé messo in evidenza va quindi senz’altro qualificata come manipolativa, si può così giungere ad una prima importante conclusione sulla portata della norma di risulta, che non si limita a contenere la fissazione della soglia minima e del tetto massimo della indennità risarcitoria, ma continua a prescrivere al giudice – contrariamente a quanto sostenuto dai fautori della tesi qui criticata – anche di fare applicazione del meccanismo di indicizzazione delle due mensilità di retribuzione, utili ai fini del calcolo del TFR, per ogni anno di servizio.
Del resto, che tale meccanismo di indicizzazione rimanga in vigore – in quanto per l’appunto ritenuto dalla Corte conforme ai principi costituzionali (avendo la stessa censurato soltanto l’impossibilità, per il giudice, di incrementare l’indennità tenendo conto degli altri parametri desumili dal sistema ai fini di una adeguata personalizzazione del ristoro) – è agevolmente ricavabile da una lettura sistematica, ed essa stessa costituzionalmente orientata, del d.lgs. n. 23 n. 2015. Questo, infatti, per le ipotesi di vizio procedurale del licenziamento individuale continua a prescrivere al giudice – ferma la misura minima di due e quella massima di dodici – di commisurare l’indennità risarcitoria ad una mensilità per ogni anno di servizio del lavoratore (art. 4). Onde è anche in ossequio a un’ovvia esigenza sistematica che, in coerenza con l’opzione di fondo del legislatore, certo non smentita dalla Corte costituzionale, che il meccanismo di crescita dell’indennità che assiste le fattispecie di licenziamento ingiustificato dovrà rimanere differenziato (cioè, necessariamente rafforzato) rispetto a quello che sanziona i difetti di natura procedurale del recesso, tanto più se si considera che il «decreto dignità» ha ulteriormente accentuato tale differenza, elevando la soglia minima e il tetto massimo previsti dal primo comma dell’art. 3 di un terzo.
Se è corretto quanto sin qui osservato, deve concludersi che la base di calcolo della indennità risarcitoria ex art. 3, comma 1, resti inderogabilmente fissata (ovviamente entro la soglia minima e il tetto massimo di legge) in due mensilità per ogni anno di servizio del lavoratore ingiustamente licenziato, senza possibilità, per il giudice, di scendere sotto tale base di liquidazione del danno . Deve allora ritenersi che, ancorché non rappresenti propriamente un criterio sovraordinato in senso gerarchico , il parametro dell’anzianità di servizio del lavoratore serva tuttora a determinare – entro il minimo e il massimo fissati dalla legge – la base di partenza della quantificazione dell’indennità risarcitoria, che dovrà essere (in ipotesi) elevata dal giudice nel caso concreto tenendo conto, con congrua motivazione, di tutti gli altri parametri desumibili dal sistema e considerati dalla Corte costituzionale . Se non ha in senso proprio una prevalenza gerarchica in termini qualitativi, il criterio dell’anzianità di servizio continua perciò ad avere, nell’art. 3, comma 1, una priorità logica , semplicemente perché, nell’impianto del decreto, esso è in via generale deputato a fissare il meccanismo «basico», per così dire, di indicizzazione dell’indennità risarcitoria . Non a caso la Corte costituzionale non ha esteso la dichiarazione di illegittimità alla previsione di cui all’art. 1, comma 7, lett. c), della l. delega n. 183 del 2014, che rimane dunque in vigore là dove contempla, in favore del lavoratore, «un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio».
Quanto agli altri parametri, diversi e ulteriori rispetto a quello logicamente prioritario dell’anzianità di servizio del lavoratore, è la stessa sentenza della Corte ad indicarli con sufficiente precisione in motivazione , traendoli agevolmente dal sistema che si è consolidato in tema di licenziamento illegittimo a partire dalla l. n. 604 del 1966. La Corte fa espresso e chiaro riferimento al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’attività economica, al comportamento e alle condizioni delle parti , con rinvio sostanziale – e per così dire sintetico e sincretico ad un tempo – alle corrispondenti previsioni tanto della l. n. 604 del 1966 quanto dell’art. 18 St. lav. Onde si può ritenere che la indicazione di detti criteri – che naturalmente non esclude, di per sé, il riferimento anche ad altri parametri, egualmente desumili dal sistema in via integrativa della norma di risulta – vincoli il giudice, che sarà dunque tenuto a soppesarne, alla stregua delle risultanze probatorie del processo , l’effettiva rilevanza nel caso concreto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo (come si può desumere, in via analogica, dall’art. 18, comma 5, St. lav.).
Per quanto ne risulterà difficile e disagevole la prospettazione in concreto, per gli stringenti limiti del «nuovo» giudizio di cassazione, non sembra dunque in astratto neppure precluso il controllo sul corretto utilizzo di tali criteri in sede di legittimità sotto il profilo della violazione o della falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360, n. 3, c.p.c. , quantomeno nel caso limite di totale pretermissione del criterio – come detto logicamente prioritario (e, dunque, indefettibile e necessariamente operante) – della anzianità di servizio del prestatore di lavoro .
5. Le questioni irrisolte del d.lgs. n. 23 del 2015. La sentenza n. 194 del 2018 lascia peraltro irrisolti molti nodi, sui quali – in mancanza di un nuovo intervento correttivo del legislatore – sarà con ogni probabilità necessario ricorrere nuovamente al vaglio di legittimità costituzionale.
Il primo di essi attiene al disposto dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, che la sentenza non tocca per difetto di rilevanza della relativa questione nel giudizio a quo . Con tale disposizione, nella medesima logica di comprimere quanto più possibile la discrezionalità giudiziale che era sottesa alla predeterminazione di un criterio di liquidazione dell’indennità risarcitoria rigidamente forfettizzato e standardizzato, il legislatore del 2015 ha escluso, per i licenziamenti disciplinari, qualunque valutazione sulla proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla gravità dell’infrazione, imponendo al giudice di limitare il proprio accertamento ai fini dell’eccezionale applicazione del rimedio reintegratorio alla insussistenza – testualmente – del «fatto materiale».
La norma del secondo comma dell’art. 3 ha invero una genesi ideologica che non si fatica a individuare in quella irresistibile insofferenza verso la discrezionalità valutativa del giudice che caratterizza – più di altri – gli approcci ispirati alla razionalità strumentale della law and economics , costruiti sul mito di un diritto certo in quanto calcolabile, misurabile, esattamente predeterminabile ex ante perché interamente iscrivibile dentro la logica del calcolo numerico. Appunto nella medesima logica che ispirava la scelta di commisurare meccanicamente alla sola anzianità di servizio del lavoratore l’entità dell’indennità risarcitoria, anche l’art. 3, comma 2, aspira, in certo senso, ad una qualche forma di automatismo volto a restringere al minimo la discrezionalità valutativa del giudice, visto che impone a quest’ultimo di limitare l’accertamento ai fini dell’eccezionale applicazione del rimedio reintegratorio alla insussistenza del mero «fatto materiale», escludendo qualunque valutazione sulla proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla gravità della infrazione.
Questa logica aveva provato come noto a farsi strada anche nella interpretazione del nuovo art. 18 St. lav., ove una parte della dottrina si era applicata a dimostrare cha la insussistenza del fatto addebitato o posto a base del licenziamento, di cui ai commi 4 e 7 della disposizione novellata dalla l. n. 92 del 2012, dovesse essere inteso come fatto materiale (e non «giuridico»), oggettivato o reificato al punto da escludere – secondo i più rigorosi – qualunque considerazione del profilo psicologico dell’agente nella realizzazione della condotta (la coscienza e la volontà dell’evento, il dolo o la colpa, lieve o grave che fosse, oltre che, naturalmente, qualunque elemento contestuale incidente sulla entità della rilevanza in termini di inadempimento contrattuale) . La tesi era stata tuttavia subito confutata – con insuperabili argomenti testuali e sistematici – da un non meno consistente filone dottrinario , al quale era presto giunto il conforto – sempre decisivo – della dominante giurisprudenza, prima di merito e poi di legittimità , formatasi sul nuovo art. 18 .
La ventura volle tuttavia che proprio nei giorni in cui i tecnici del Governo Renzi erano all’opera per vergare il testo del decreto attuativo, la Corte di cassazione – con un obiter dictum peraltro del tutto contradditorio rispetto alla ratio della decisione – si avventurasse ad affermare che «il nuovo art. 18 ha tenuta distinta, invero, dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione»; conseguendone che la «reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi come fatto materiale»; con la ulteriore conseguenza – si noti il passo finale – «che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato» .
La eco di questo obiter è subito risuonata nel testo dell’art. 3, comma 2, del decreto: ed invero, come un «dilettante di sensazioni» , il legislatore delegato si lasciò volentieri suggestionare da questa inattesa (e isolata) apertura della Cassazione alla teoria del fatto materiale, della cui esistenza o inesistenza in rerum natura il giudice sarebbe chiamato a prendere atto, senza potersi avventurare nei terreni proibiti delle valutazioni di proporzionalità.
A prima lettura, la norma sembrerebbe dunque imporre al giudice di fermarsi alla constatazione del nudo fatto, con il solo temperamento – ammesso dagli stessi fautori di tale lettura, che addirittura ne ricavano a ritroso argomenti interpretativi utili per lo stesso art. 18 – della minimale consistenza disciplinare e della imputabilità subiettiva dell’evento al suo autore. Ci sembra, in buona sostanza, la conclusione cui ora pragmaticamente perviene – in via di interpretazione costituzionalmente orientata della norma – la stessa Corte di cassazione, laddove chiarisce come, «pur dovendosi valutare il tenore letterale della nuova disposizione, nondimeno sia parimenti indubitabile che le espressioni utilizzate (id est: fatto materiale contestato) non possano che riferirsi alla stessa nozione di “fatto contestato” come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al comma 4 dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970 e che costituisce, all’attualità, diritto vivente» . Il medesimo «criterio razionale» che ha indotto la Corte di cassazione a ritenere che, «quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere della illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione (in termini, ab imo, Cass. n. 20540 del 2015), induce il convincimento, sia pure in presenza di un dato normativo parzialmente mutato, che la irrilevanza giuridica del fatto, pur materialmente verificatosi, determina la sua insussistenza anche ai fini e per gli effetti previsti dal comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015» .
Questa minimale ortopedia interpretativa non sembra, però, ancora sufficiente a restituire alla previsione un significato conforme al canone di ragionevolezza immanente del precetto di cui all’art. 3 Cost. Ed invero, anche dando per assodato che il riferimento al «fatto materiale» debba essere inteso come a un «fatto-inadempimento» – ovvero come necessaria contestazione di un fatto almeno astrattamente idoneo a integrare gli estremi della giusta causa (art. 2119 c.c.) o del giustificato motivo soggettivo (art. 3, l. n. 604 del 1966) –, in forza della precisa formulazione lessicale della norma resta la ineliminabile irragionevolezza del criterio adottato per la selezione delle tutele, visto che – avendo anche eliminato il riferimento alle previsioni disciplinari dei contratti collettivi, presente invece nell’art. 18, comma 4, St. lav. – il secondo comma dell’art. 3 finisce comunque per trattare in modo fortemente differenziato situazioni analoghe sotto il profilo della qualificazione (e del connesso disvalore) giuridico dell’atto datoriale di recesso; e ciò proprio perché, nei casi in cui trova applicazione il solo indennizzo risarcitorio, anche «un inadempimento di esigua importanza può provocare la definitiva cessazione del rapporto, seppure accompagnata da una sanzione puramente indennitaria» . Onde, anche così interpretata, la disposizione del secondo comma dell’art. 3 continua ad esprimere una regola irrazionale , visto che neppure in tal modo si riesce a fornire un adeguato fondamento razionale al criterio discretivo adottato dal legislatore.
La sentenza in commento non tocca, inoltre, sempre per difetto di rilevanza nel giudizio a quo , l’art. 4, sul quale non è intervenuto neppure il «decreto dignità». Ne consegue che, nelle ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’art. 7 St. lav., la misura dell’indennità – compresa tra un minimo di due e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto – resta rigidamente correlata alla sola anzianità di servizio del lavoratore , senza che al giudice sia consentito graduarne l’importo in relazione anche alla gravità del vizio formale o procedurale (come è invece previsto dall’art. 18, comma 6, St. lav.).
Nell’evidente impossibilità di un’interpretazione costituzionalmente adeguata di fronte al chiarissimo tenore letterale della disposizione, sarà allora inevitabile prospettare di nuovo la relativa questione alla Corte costituzionale, visto che l’art. 4 impone di utilizzare quel medesimo meccanismo rigido e standardizzato, del tutto insensibile alle peculiarità del caso concreto, che la Corte ha censurato ex art. 3 Cost. Ma v’è anche da chiedersi, più al fondo, se sia ragionevole la scelta di svalutare a tal punto il rilievo sanzionatorio delle violazioni formali e procedurali rispetto quelle sostanziali, da prevedere per le prime una soglia minima e un tetto massimo che, dopo il «decreto dignità» , sono pari a un terzo (e non più alla metà, come avviene invece nell’art. 18, comma 6, St. lav.) di quelli previsti per le seconde (rispettivamente due contro sei e dodici contro trentasei mensilità).
Rimane poi il vulnus in tema di licenziamenti collettivi, visto che il rimedio previsto dall’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, pur dopo l’adeguamento legislativo e la correzione della Corte costituzionale, appare afflitto da profili di irragionevolezza senz’altro aggravati rispetto a quelli che inficiavano il primo comma dell’art. 3. Da un lato, infatti, appare qui addirittura esaltata – e quindi viepiù ingiustificabile – la disparità di trattamento tra «vecchi» e «nuovi» assunti , laddove, di fronte ad uno stesso licenziamento collettivo affetto dai medesimi vizi sostanziali di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori, solo ai primi la legge riserva la tutela reintegratoria (con lo speciale rito regolato dai commi da 48 a 68 dell’art. 1 della l. n. 92 del 2012), lasciando viceversa ai secondi (che dovranno introdurre il ricorso nei modi ordinari) quella meramente indennitaria. D’altro lato, la norma appare anche internamente incoerente, nella misura in cui riunifica sotto un unico regime vizi (rispettivamente procedurali e sostanziali) cui il legislatore recente (sia della l. n. 92 del 2012 che dello stesso d.lgs. n. 23 del 2015) mostra di voler per contro attribuire un diverso disvalore giuridico, con conseguente differenziazione della intensità dei rimedi applicabili.
A fortiori dopo l’intervento del legislatore e della Corte costituzionale spicca, inoltre, l’assoluta inidoneità delle previsioni dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 ad apprestare rimedi adeguati contro i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese. Non è qui neppure il caso di dire della palese inadeguatezza della misura minima dell’indennità, visto che essa rimane inferiore a quella (originariamente di quattro mensilità) di cui al primo comma dell’art. 3, che la stessa sentenza n. 194 del 2018 ha ritenuto inidonea a soddisfare un’effettiva funzione riparatoria e dissuasiva , pur non traendone poi le necessarie conseguenze sul piano della declaratoria di illegittimità costituzionale di tale ultima previsione .
Ma nella specie è sicuramente inadeguata anche la misura massima . Il tetto massimo dell’indennità non può infatti mai superare, ai sensi dell’art. 9, le sei mensilità, con uno scarto che non solo appare eccessivo rispetto a quanto previsto per i datori di lavoro di maggiori dimensioni dal primo comma dell’art. 3, ma che rimane significativo anche rispetto a quanto consente l’art. 8 della l. n. 604 del 1966 . Ci sembra palese come un tale irrisorio limite massimo, per di più ormai assai vicino alla soglia indennitaria minima , non risulti idoneo – specie se raffrontato con quanto prevede per situazioni omologhe l’art. 8 della legge n. 604 del 1966 – a soddisfare il test di adeguatezza e dissuasività così come articolabile, in particolare, alla stregua dell’art. 24 della Carta sociale europea .
Le osservazioni appena svolte – ma altre ne se potrebbero aggiungere, su profili non necessariamente minori – sono sufficienti a suffragare l’amara riflessione, stavolta coralmente condivisa da tutti i commentatori della sentenza n. 194 del 2018, a prescindere dagli orientamenti di politica del diritto degli uni o degli altri, circa lo sconfortante stato dell’arte della disciplina italiana dei licenziamenti: un quadro vagamente dadaista del quale il meglio che si possa dire è che ne «emerge una disciplina totalmente priva di ragionevolezza» . Ed è vero che oggi, dopo il «decreto dignità» e la sentenza della Consulta, le imprevedibili combinazioni cui può dar luogo la lotteria legislativo-giudiziaria nei singoli casi non sono necessariamente sfavorevoli a coloro cui trova applicazione il d.lgs. n. 23 del 2015 : i quali – in non poche circostanze (e con un po’ di fortuna) – potrebbero infatti ottenere monetizzazioni decisamente più consistenti degli omologhi cui si applica l’art. 18 St. lav. . Questi ultimi, di converso, continuano certamente a vantare, rispetto ai «nuovi assunti» , maggiori chances di accesso alla tutela reale, essendo questa sempre esclusa nel d.lgs. n. 23 del 2015 per i licenziamenti economici; ma si è già visto come per i licenziamenti disciplinari, nonostante la diversa formulazione lessicale delle norme di riferimento, le differenze si siano già assottigliate per effetto della interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata messa prontamente in opera dalla Suprema Corte .
È dunque pienamente condivisibile la pressoché corale invocazione di una complessiva riforma del sistema, da parte di un avveduto legislatore, che riporti un minimo di razionalità a partire, quantomeno, dalla eliminazione delle più ingiustificabili differenze di trattamento . Ed ha probabilmente ragione Antonio Vallebona nel chiedere – provocatoriamente – senz’altro l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 . Qui, nel concludere la nostra analisi, vogliamo essere ancor più provocatori, e per questo – consapevoli del fatto che certi appelli sono comunque destinati a cadere nel vuoto, anzitutto per l’introvabilità di quel legislatore illuminato e avveduto cui sono idealmente rivolti – invochiamo senza meno anche l’abrogazione del comma 42 dell’art. 1 della l. n. 92 del 2012, con il ritorno all’art. 18, se non d’antan, almeno pre-Fornero.