Testo integrale con note e bibliografia

1. Il fenomeno.

Di crescente evidenza, il fenomeno dell’incremento rapido nel numero dei contratti nazionali si scontra con il dato di comune esperienza per cui quelli stipulati dalle Associazione Cgil, Cisl e Uil riguardano fra l’ottantacinque e il novanta per cento dei rapporti individuali e ciò dovrebbe stemperare sia la meraviglia, sia la preoccupazione. Se si segnalano in Italia mille accordi di categoria e quelli delle confederazioni tradizionali sono meno di un quarto (per quanto valgono queste statistiche, in un orizzonte in continuo movimento) , non possono essere considerate “pirata” tutte le intese diverse da quelle dei soggetti a maggiore forza rappresentativa . Proprio tale fattore è un segno di complessità , poiché il panorama delle relazioni industriali è molto più sfaccettato di quanto si vorrebbe e denota vari soggetti, con diversa capacità di mobilitazione, ma spesso con intenti non solo legittimi, ma protetti dall’art. 39, primo comma, cost.. La forzata contrapposizione fra i negozi delle associazioni più note e quelle “pirata” potrebbe spiegare l’insistere verso l’adozione di una legge, che, collegando la retribuzione minima alle prime, ridurrebbe a una sostanziale marginalità le seconde . Se questo disegno fosse realizzato , a prescindere dalla sua legittimità costituzionale, sarebbe errato, poiché fra i contratti per così dire minori non vi sono solo forme di illiceità da reprimere, ma istanze di rappresentanza da valutare per quanto esprimono.
Il prezzo di una opposta soluzione sarebbe il sacrificio della libertà e le confederazioni tradizionali avrebbero poche ragioni per rallegrarsi. Il legislatore storico conquisterebbe un po’ di pubblicità, ma un contesto sindacale vincolato a parametri numerici porterebbe a un accrescersi della paventata marginalità sociale delle organizzazioni più forti. Queste guardano con timore al numero dei negozi di categoria e devono riconoscere come le loro abituali strategie non contengano il fenomeno e, tanto meno, lo facciano scomparire. Eppure, nate in dinamiche liberali, di questi criteri di giustificazione del loro agire non possono fare a meno, se vogliono convincere, oltre a comandare. Se opteranno per la seconda strada, si dovranno accorgere del prezzo di un sistema imperativo, tutto basato sul confronto elettorale, a maggiore ragione di fronte alle sfide del nostro sistema economico e alla necessità di una sua continua revisione. Il numero dei contratti nazionali può preoccupare e dimostrare un crescente malessere dei lavoratori e delle imprese, alla ricerca di soluzioni retributive e organizzative differenti da quelle tradizionali. Fuori da un ordinamento liberale, queste pulsioni non scomparirebbero, ma, al contrario, diventerebbero meno controllabili. Se si consente la semplificazione, chi vuole la legge sindacale dovrebbe ricordare che … si può sempre peggiorare.
Si afferma talvolta che il contratto nazionale avrebbe una struttura per sua natura unitaria , cioè che, seppure in carenza dell’attuazione dell’art. 39, commi secondo ss., cost., sarebbe preordinato alla regolazione di una categoria omogenea; la cosiddetta contrattazione separata sarebbe eccezionale, tanto sul piano giuridico, quanto su quello delle relazioni industriali, con una divergenza dal più lineare negoziato complessivo . Con una ricostruzione storica del contratto nazionale, del valore evocativo di tale attributo e della sua forza espansiva, si riporta all’accordo postcostituzionale l’obbiettivo qualificante di una regolazione omogenea dell’intera categoria, anche in forza delle intese interconfederali e del loro impatto conformativo .
La tesi è persuasiva solo in parte; se non sul versante dei prestatori di opere, la frammentazione della rappresentanza dei datori di lavoro è consueta e si collega al differente assetto delle imprese. Vi sono sempre stati più negozi per aziende di settori identici, con diversi accordi per imprese industriali, grandi e medio – piccole, artigiane, cooperative e, talora, divise dalla semplice adesione a organizzazioni differenti, come accaduto da molti decenni nel commercio. Per questa articolazione, il negozio non è stato unitario in senso pieno, a prescindere dal più recente affiorare di valutazioni contrapposte fra le associazioni tradizionali dei dipendenti .
Talora, le divergenze sul versante delle imprese sono state dovute a fattori non ideologici, ma di semplice disciplina interna o di scarso rilievo strategico, poiché le posizioni sono state abbastanza in linea. Tuttavia, tale aspetto conferma la centralità del criterio pluralista nell’affiliazione e gli accordi coesistono per aree merceologiche simili. Sul piano ricostruttivo, poco importa la recente, maggiore frammentazione , con la stipulazione separata da parte delle associazioni dei lavoratori. A prescindere dalla sua genesi e dalle sue motivazioni, il fenomeno è il riflesso della libertà, persino nella sua dimensione negativa, ed è fisiologico in un sistema basato sull’affiliazione spontanea. Il sussistere di più accordi per la medesima categoria non è un disvalore , né è una novità e, se mai, ci si deve chiedere come il tema possa essere affrontato. Se si dimenticano gli auspici e si guarda alle condotte, il sussistere di più contratti è un dato tradizionale e l’intensificazione del problema non si collega a situazioni emozionali o di irrazionalità nelle scelte, ma a diverse posizioni . L’idea per cui l’unità del contratto sarebbe la regola e la separazione l’eccezione può essere accettata solo con molta cautela e ha un impatto scarso anche sul piano descrittivo.

2. I contratti collettivi “pirata”.

La protezione della libertà sindacale si manifesta anche nell’inapplicabilità dello stesso negozio a tutte le imprese o a ciascun prestatore di opere, sulla scorta di decisioni incoercibili, e un criterio opposto comprimerebbe l’autonomia. Infatti, le sollecitazioni derivanti dai sistemi informatici e il loro abituale riferimento a un contratto restano a un livello organizzativo, senza alcun risalto interpretativo, poiché si può sperare che l’accordo sia uno, ma questo risultato non può essere né imposto, né suggerito, né agevolato con un intervento sui gruppi, in grado di perseguire le loro esigenze con il consenso degli aderenti.
Una turbativa all’attuazione dell’art. 36, primo comma, cost. è data dai cosiddetti “contratti pirata” , una delle prassi deteriori delle nostre relazioni industriali , accettata senza una adeguata sensibilità e proporzionate reazioni degli uffici ispettivi degli enti pubblici . Se questi non cadono sempre in una colpevole inerzia, non manifestano comunque consapevolezza sulla gravità del fenomeno . Esso non può essere stroncato (se mai ciò fosse possibile in assoluto, e vi è da dubitarne) solo nell’ambito delle controversie individuali in ordine alle differenze retributive , poiché, da un lato, non sempre i prestatori di opere hanno interesse (percependo in modo irregolare compensi aggiuntivi) e, dall’altro, l’effettività dell’art. 36, primo comma, cost. non può essere garantita in via esclusiva dal giudizio, in specie in settori economici a forte intensità di manodopera , come per le prestazioni di facchinaggio e di pulizia. In tali contesti, è un fattore di disordine preoccupante la presenza di accordi nazionali (o che pretendono di esserlo) con l’indicazione di minimi retributivi del tutto distonici da quelli delle ordinarie intese, concluse dalle maggiori associazioni sindacali.
Si assiste alla spregiudicata utilizzazione dell’aspetto esteriore del contratto di categoria, in carenza di un contenuto paragonabile. Le previsioni sui minimi sono così lontane da quelle realistiche da lasciare intendere che i lavoratori siano reclutati in forme illegittime in via programmata, con la promessa e con il pagamento di compensi integrativi rispetto a quelli segnalati. In difetto, i prestatori di opere cercherebbero di lasciare subito collocazioni professionali non in linea con le opportunità di mercato e di migrare verso imprese che applichino i veri contratti. Quelli “pirata” pongono retribuzioni inferiori alle remunerazioni corrisposte in generale e in questo sta la slealtà del comportamento, poiché vuole creare l’apparenza di un accordo nazionale quando le retribuzioni sono talora versate in larga parte in modo illegittimo.
A prescindere dal fatto che gli accordi “pirata” siano nulli perché fuori dal modello dell’art. 39, primo comma, cost., in quanto stipulati in chiave non rivendicativa, o sulla scorta dell’art. 17 St. lav., tale qualificazione rende superflua l’introduzione di una legge volta a rimarcare un aspetto già pacifico e la disciplina sulle società cooperative di produzione e lavoro non ha dato contributi significativi, tanto meno in tema di effettività. La nota decisione della Corte costituzionale ha interpretato l’art. 7 del decreto - legge n. 248 del 2007, convertito con modificazioni dalla legge n. 31 del 2008, in sintonia con l’art. 36 cost. e il discutibile riferimento alla rappresentatività non trasforma il modello .
Non è facile comprendere per interventi limitati sulla remunerazione complessiva se i contratti siano nulli o se rappresentino un ragionevole esercizio della libertà sindacale, da parte di associazioni le quali trattino con obbiettivi costruttivi e, di conseguenza, nell’esercizio del potere riconosciuto dall’art. 39 cost., così che il contenimento della retribuzione trovi una spiegazione in buona fede, per esempio per la creazione di maggiori opportunità occupazionali in una area geografica o in un settore merceologico. Tuttavia, la tutela dei prestatori di opere è rimessa all’art. 36, primo comma, cost. e, quindi, alla valutazione pretoria. Infatti, il giudice può utilizzare la disciplina di una area diversa, “a semplici fini parametrici o di raffronto” . Proprio per il rilievo del contratto nazionale, “il potere di emettere una decisione secondo equità si differenzia da quello di determinare la retribuzione” e, nel primo caso, la sentenza è adottata a prescindere dallo stretto diritto e presuppone l'istanza delle parti, mentre, nel secondo, non è necessaria alcuna richiesta apposita e la pronuncia “è assunta secondo le norme di diritto” . In definitiva, “il giudice può prendere a parametro il contratto anche se il datore di lavoro non aderisce all'associazione stipulante” , perché tale richiamo identifica la retribuzione; anzi, questo è il valore del consueto orientamento sull’art. 36, primo comma, cost., con la sanzione pretoria del valore anticoncorrenziale delle clausole sul cosiddetto “minimo costituzionale” .
Qualora il giudice si voglia discostare dall’accordo, “deve fornire adeguata motivazione, ed è onere del datore di lavoro indicare gli elementi dai quali risulti l'inadeguatezza in eccesso delle retribuzioni previste, in considerazione di situazioni locali o della qualità della prestazione offerta” . L’art. 36 cost. è il cardine dell’intero sistema, perché fonda il risalto delle intese e, al tempo stesso, comporta più retribuzioni sufficienti, con una programmata e strutturale diversificazione dei salari minimi. Se l’art. 36 cost. tutela tutti i lavoratori, anche quelli in condizioni di illegittimità completa, e conferisce loro una diretta e incisiva azione, a presidio del loro interesse patrimoniale, per converso urta contro la nostra sensibilità una asimmetrica protezione della dignità e della libertà del dipendente e della sua famiglia, in contrasto con opposte idee universalistiche .

3. L’esercizio della libertà negoziale collettiva e la valutazione del giudice nella determinazione della retribuzione sufficiente.

La portata dell’art. 36 cost. è definita in via pretoria e il principio attiene al corrispettivo generale, tanto che la riduzione di una voce non comporta in sé alcuna illegittimità. Anzi, “la particolare garanzia apprestata dall’art. 36 cost. non si riferisce ai singoli elementi, bensì al trattamento globale, comprensivo della retribuzione per lavoro straordinario, e i criteri della proporzionalità e della sufficienza non trovano applicazione in caso di erogazione di un compenso per lavoro straordinario inferiore a quello dovuto per l'orario ordinario” . Il giudice non può fare riferimento a tutti gli istituti, ma “deve prendere in considerazione solo quelli che costituiscano il ‘minimo costituzionale’, con esclusione dei temi retributivi legati all'autonomia contrattuale, come la quattordicesima mensilità” , e il cosiddetto “minimo costituzionale” comprende “la retribuzione di base e gli emolumenti versati in modo costante a tutti, con la considerazione della sola tredicesima” . Se il “minimo costituzionale” è da valutare in proporzione all’orario effettivo , per esempio non ingloba gli scatti di anzianità , le maggiorazioni , le indennità e i premi di produzione .
Non è escluso un adeguamento dei parametri ai casi concreti, o con il riferimento ad accordi locali o aziendali , o con la riduzione in talune ipotesi della retribuzione desumibile dai minimi tabellari , o con il suo aumento, in presenza di apposite ragioni giustificative . Se le pronunce hanno chiarito in modo creativo il concetto di sufficienza, hanno anche spiegato come debba avere luogo l’applicazione dell’art. 36 cost., con la riserva di un significativo spazio di valutazione del caso , fermo il dovere di motivazione. Se la retribuzione sufficiente ha una specifica tutela, con l’azione del lavoratore volta a ottenere la quantificazione del compenso, l’idea di proporzione manca di una simile protezione o, meglio, finisce per coincidere con il concetto di corrispettivo sufficiente; nella maggioranza dei casi, la retribuzione proporzionata è fissata dalle intese, sufficienza e proporzione si confondono e, se mai, la seconda nozione sottolinea il necessario adeguamento del corrispettivo alla maggiore qualificazione professionale dell’attività.
La proporzione non porta a una quantificazione del compenso secondo criteri diversi da quelli dei contratti, ma sottolinea la coerenza fra i salari e l’attività svolta, da classificare secondo le declaratorie negoziali, in carenza di una parità di trattamento. Infatti, “la retribuzione deve essere proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato e, se a un dipendente assunto per determinate mansioni sia richiesto l'espletamento di altri compiti, in aggiunta, non gli può essere negato il diritto a un compenso ulteriore, se le mansioni gli determinino un aggravio” , fermo il fatto che la proporzione non deve essere “riferita alle singole componenti, ma alla retribuzione globale. Peraltro, il silenzio dell'art. 36 cost. sulla struttura della remunerazione e sull’articolazione delle sue voci significa che è rimessa alla contrattazione la determinazione degli elementi i quali, condizionandosi a vicenda, concorrono a formare il trattamento” .
In virtù dell’art. 36, primo comma, cost., il contratto è la principale protezione dei lavoratori irregolari o, comunque, attivi in quelle aziende che non accettino in modo spontaneo l’accordo nazionale . Al dipendente domestico, a quello che agisce nell’agricoltura o nel commercio in condizioni di illegittimità, al socio delle cosiddette imprese cooperative spurie, l’art. 36, primo comma, cost. permette l’accesso parziale nell’area della legittimità e, cioè, l’effettivo riconoscimento dei minimi tabellari , con una sorta di patto ferreo fra le pronunce giudiziali e i contratti nazionali .
Se si guarda alle dinamiche dei salari, si può discutere sulla tradizionale attribuzione al negoziato di una portata acquisitiva , poiché questa presupponeva un differente sistema economico, con un necessario e garantito progresso della maggiore parte dei competitori o, almeno, di quelli che non presentassero deteriori (e rare) condizioni di inefficienza. Non è più così; la spietata concorrenza contemporanea e la riallocazione delle opportunità a livello mondiale, insieme al peggioramento delle previsioni per molte aziende, rendono impossibile pianificare il miglioramento significativo della retribuzione a livello nazionale. E’ il segnale più intenso del cambiamento di questi decenni; non si è persa l’idea della necessità di regolare l’impatto della concorrenza sui rapporti di lavoro, ma tale obbiettivo non collima con una redistribuzione del reddito secondo criteri di socialità, poiché non è in discussione la ripartizione di un inevitabile profitto, ma un equilibrio a fronte di una precaria e instabile presenza sul mercato.
La complessiva regolazione della retribuzione nelle parti estranee al cosiddetto “minimo costituzionale” è una delle componenti del contratto di categoria in cui più si mostrano la fantasia e la creazione di varianti, per l’adeguamento del salario alle differenti professionalità. Ne derivano clausole di complessa interpretazione sulle indennità, sulle mensilità aggiuntive, sulle maggiorazioni per le prestazioni di lavoro straordinario, notturno e festivo, sulla trasferta. Questa imponente disciplina convenzionale provoca una strutturale scissione dei prestatori di opere in due grandi gruppi, in funzione dell’efficacia soggettiva del contratto. Qualora trovi attuazione integrale, l’intera strategia negoziale ha pieno risalto. Se l’accordo opera in virtù dell’art. 36, primo comma, cost., il suo rilievo è limitato al “minimo costituzionale”, con conseguenze più ristrette e con una protezione inferiore.

4. I pregi e i limiti della protezione retributiva affidata all’art. 36, primo comma, cost..

Seppure con il sacrificio di criteri universalistici, il valore dell’art. 36, primo comma, cost. quale presidio della retribuzione minima consente a tutti i prestatori di opere di agire in giudizio, a prescindere dal fatto che il contratto collettivo loro applicato sia nullo, perché “pirata”, o espressione di un ragionevole esercizio della libertà sindacale. Comunque, ne deriva una diretta cognizione del giudice sull’identificazione della remunerazione sufficiente, seppure confinata al “minimo costituzionale”. Se mai, la complessità dell’accertamento processuale scoraggia dall’intraprendere simili iniziative e, molto più dell’applicazione dell’art. 36 cost., scoraggia la scarsa, se non irrilevante garanzia patrimoniale di molti datori di lavoro. Porterebbero esiti pregiudizievoli per i lavoratori le proposte di intervento normativo sul cosiddetto “salario minimo”, secondo logiche purtroppo evocate a più riprese e, per fortuna, non ancora attuate. La mancanza di effettività dell’art. 36, primo comma, cost. si collega a problemi complessivi del nostro ordinamento e alle attuali, scarse potenzialità dei sistemi di protezione giudiziale e ispettiva, e un intervento eteronomo non può riequilibrare . Né si comprende perché una retribuzione minima legale dovrebbe giovare ai lavoratori autonomi o alle attività di difficile qualificazione , poiché, a tacere delle diverse, possibili impostazioni della nuova disciplina , è difficile immaginare una sua applicazione sia al rapporto subordinato, sia a quello autonomo, come se la distinzione fra le due categorie potesse essere superata, con una confusa deriva fuori dalla necessaria definizione del tipo .
In generale, riscuote un successo immeritato la proposta “di assumere a parametro valevole ai fini dell’art. 36 cost. i minimi retributivi individuati dai contratti collettivi nazionali ‘più rappresentativi’” , poiché il quadro attuale sarebbe modificato solo per la scomparsa del “minimo costituzionale”, con un irrigidimento delle differenze di remunerazione e con una visione particolarista e non universalista del cosiddetto salario di base. Fermi la distonia dall’art. 39 cost. e il fatto che il concetto di “rappresentatività” non ha e non può avere alcuno spazio in tema di negoziato sindacale (per il divieto dell’art. 39 cost.), quale senso potrebbero avere … infinte retribuzioni sufficienti, sancite per legge?
Se si vuole passare dall’attuale applicazione dell’art. 36 cost. a una completa efficacia soggettiva dei contratti collettivi , si viola l’art. 39 cost. e non si comprende la giurisprudenza tradizionale, la cui moderazione ha sempre avuto il fine di proteggere la retribuzione minima secondo linee compatibili con i parametri costituzionali. Se mai, le proposte in discussione mostrano scarsa consapevolezza per le ragioni e gli obbiettivi delle note sentenze, il cui riferimento selettivo ai contratti collettivi ha ridimensionato il contrasto implicito nel riconoscimento del valore delle tariffe con l’inesistenza di una efficacia soggettiva generale degli accordi sindacali. Soprattutto, nell’impostare queste possibili riforme non si considera il punto nevralgico del sistema odierno, nel quale la remunerazione di base è tutelata , ma è ineguale a seconda della categoria. Non si comprende dove starebbe l’innovazione se ciò fosse sancito per legge, posto che la sua approvazione non avrebbe alcuna realistica ricaduta a proposito dell’effettività .
Non è affatto fra gli obbiettivi dell’avventuroso legislatore storico la specificazione del confine fra retribuzione sufficiente e proporzionata, mentre sarebbe meritoria . Poiché, con il rinvio agli accordi sindacali, l’art. 36, primo comma, cost. protegge qualsiasi lavoratore, se subordinato (ma si può discutere di “retribuzione” per gli altri?), una trasformazione prescrittiva non estenderebbe l’area di vigenza (onnicomprensiva) del sistema odierno; se mai, poiché il “salario minimo” sarebbe molto contenuto, porterebbe a una probabile diminuzione di quelli fissati dalla contrattazione, con una concorrenza al ribasso fra i livelli contrattuali e quelli legali . L’impresa illecita non è combattuta dalle disposizioni sostanziali e più se ne aggiungono, più il quadro diventa confuso. Persino chi è meno ostile di me al riferimento alla categoria della “rappresentatività” commenta a ragione che “neanche questi disegni di legge riescono a dare soluzione all’atavico problema della perimetrazione dell’ambito entro cui misurare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali, dei lavoratori e dei datori di lavoro, e quindi selezionare il contratto collettivo cui si accorda la responsabilità, o il privilegio, di individuare il parametro retributivo valido erga omnes” .
L’effettività non dipende affatto dall’intervento del legislatore , nonostante questi cerchi di convincersi del contrario, e l’attuale insistere nel dibattito sindacale sui “perimetri” sottintende l’intento di “costringere le imprese ad applicare un contratto collettivo diverso da quello che hanno liberamente scelto magari da decenni, così come le organizzazioni sindacali e datoriali, prive di effettiva capacità rappresentativa, a rinunciare a praticare il dumping salariale che ne giustifica la sopravvivenza” ; però, per un verso, tale obbiettivo è contrario all’art. 39 cost. e a una visione liberale dei rapporti sociali e, per altro verso, nel nostro Paese questo intervento si è dimostrato controproducente, se si condivide la diagnosi per cui l’attuale crisi del sindacato si collega proprio alla sudditanza delle associazioni nei confronti dello Stato e alla confusione fra pubblico e collettivo .

5. Esiste una soluzione per dare effettività alle pretese dei lavoratori in tema di retribuzione sufficiente?

Non occorrono precetti e, forse, nemmeno sanzioni, ma meccanismi di garanzia della loro effettività. Se mai, con taglio provocatorio, ma indubbio realismo, si è messo in discussione il tradizionale principio della responsabilità limitata delle strutture societarie, poiché, troppo spesso, l’iniziativa giudiziale dei prestatori di opere porta l’impresa a procedure concorsuali, ma, se anche queste determinano la fine della sua attività, le stesse persone fisiche riprendono le loro iniziative, sovente con i medesimi metodi, senza soluzione di continuità. Come a ragione si è detto, occorre “un approfondimento sul tema della responsabilità limitata nelle società di capitali e dei suoi confini, volto a individuare eziologicamente i profili di responsabilità dei soggetti che, orbitando nell’organizzazione collettiva e determinandone l’attività e gli assetti di sviluppo, profittano abusivamente della (pretesa) alterità oggettiva dell’ente collettivo e perseguono finalità estranee a quelle fondanti l’azione collettiva” . In una revisione del diritto vigente, non basta la responsabilità delle persone fisiche, poiché vi dovrebbero essere limitati risultati sul reale ampliarsi della garanzia patrimoniale, se non vi sono strategie interdittive che impediscano la reiterazione dei medesimi comportamenti. Si assiste a una rottura del sistema delle aziende, con una divaricazione drastica fra quelle escluse dalla possibilità di competere in modo lecito e quelle in grado di affrontare la concorrenza.
Questa frammentazione non è superabile in pochi anni, per la separazione rigida, a seconda delle risorse finanziarie e dell’organizzazione, e il destino dell’impresa si collega alla sua capacità di rispondere alla sfida della trasformazione. Al diritto compete discriminare con metodi attendibili e trasparenti chi possa restare sul mercato e, a tale fine, occorre considerare le istanze di solidarietà. Non ha senso un riferimento generico alle aziende, se non si coglie la loro crescente distinzione, e la rottura del sistema e l’allontanamento di molti soggetti dalla legittimità e dalla redditività pregiudicano le aspirazioni dei prestatori di opere, riducendo le loro opportunità in modo stabile.
Poiché, nel lavoro svolto in condizioni di legittimità, il negozio di categoria ha di fatto una efficacia soggettiva estesa, se non onnicomprensiva, tutte le clausole sulle diverse componenti della retribuzione incidono sui rapporti individuali, in virtù del loro carattere normativo. Al contrario, per i pochi datori di lavoro che non vogliono l’integrale applicazione dell’accordo nazionale (in specie, per quelli domestici) o per i più numerosi prestatori di opere che agiscono in situazioni di illegittimità, cioè per i soggetti che si rivolgono all’art. 36, primo comma, cost., la definizione della retribuzione dovuta è più circoscritta, e si deve considerare solo il “minimo costituzionale” . Pertanto, il contratto di categoria ha due gruppi di destinatari fra loro contrapposti, quelli cui l’intesa si riferisce per intero, per la sua efficacia soggettiva, e quelli destinati a invocare una protezione più limitata, in virtù dell’art. 36, primo comma, cost..
Ne deriva un impatto differente dello stesso negozio e la salvaguardia delle ragioni patrimoniali dei prestatori di opere si sfrangia in due versanti, a seconda del meccanismo di operatività dell’accordo e, cioè, del fatto che abbia effetti diretti o sia solo un parametro rispetto al potere del giudice, codificato dall’art. 36, primo comma, cost.. I più articolati criteri del contratto di categoria, con tutte le loro sfaccettature, si indirizzano a una parte, seppure maggioritaria, dei lavoratori e, per esempio, lasciano indifferenti molti dipendenti domestici. Le clausole negoziali di determinazione delle voci retributive rimangono articolate, ma hanno perso la loro capacità propulsiva, guardano più al passato che al futuro, poiché difetta l’opportunità di incrementi che possano realizzare in forme nuove la giustizia distributiva. In qualche modo, il contratto ha un assetto conservativo, non volto alla revisione delle strategie di remunerazione, ma al consolidamento dei risultati raggiunti, senza una disponibilità né al loro miglioramento in sede nazionale, né a una loro significativa revisione critica. Ci si può chiedere quanto possa durare una simile fase e vi è da dubitare sulla sua natura transitoria, poiché tale condizione non si collega solo alla presente crisi , ma alla strutturale disarticolazione della categoria quale contesto in grado di ospitare una pianificazione delle dinamiche retributive.
Nella competizione senza confini e senza alcuna promessa di stabilità nel medio periodo vanno in discussione non solo il reddito individuale, ma l’aspirazione a una catalogazione nazionale delle opportunità e dei diritti. Non è solo un problema di quanto elevato sia il compenso, ma del sorgere di dubbi sulla possibilità di regolare a livello aggregato e omogeneo un trattamento uguale, in categorie sempre più sfrangiate. Al contratto nazionale di categoria si chiede di fissare il compenso minimo, in luogo di quello giusto, e si può pensare a un futuro nel quale il trattamento stabilito in sede nazionale e il “minimo costituzionale” si avvicineranno. Addirittura, se ci si lasciasse andare al pessimismo, si potrebbe riflettere su un accordo sempre più bisognoso del sostegno dell’art. 36, primo comma, cost., perché rivolto a dare un reddito alle aree di marginalità, con l’intesa individuale sovrana nei settori di più convincente professionalità.

 

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