Testo integrale  con note e bibliografia

Testo della sentenza 145 

1) La questione di legittimità costituzionale.

La sezione lavoro della Corte di cassazione, con ordinanza n. 43 del 27 novembre 2020, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 13 agosto 2011, convertito con modificazioni nella l. n. 148 del 14 settembre 2011, nella parte in cui ha stabilito che l’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri) «si interpreta nel senso che: a) il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell’Amministrazione degli affari esteri nel periodo di servizio all’estero, anche con riferimento a “stipendio” e “assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno”, non include né l’indennità di amministrazione né l’indennità integrativa speciale; b) durante il periodo di servizio all’estero al suddetto personale possono essere attribuite soltanto le indennità previste dal decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18».
L’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, istitutivo dell’indennità di servizio all’estero, prevede, al primo comma, che il personale non diplomatico dell’Amministrazione degli affari esteri durante i periodi di lavoro all’estero percepisca, «oltre allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno […]», l’indennità di servizio all’estero, stabilita in relazione al posto di organico occupato, nonché le altre competenze eventualmente spettanti in base alle disposizioni del medesimo d.P.R. n. 18 del 1967. Al secondo comma, la disposizione prevede che «nessun’altra indennità ordinaria e straordinaria può essere concessa, a qualsiasi titolo, al personale suddetto in relazione al servizio prestato all’estero in aggiunta al trattamento previsto dal presente decreto».
Il nucleo della questione interpretativa è se, come ritenuto dalla giurisprudenza di merito largamente maggioritaria , l’indennità di amministrazione fosse riconducibile al novero degli «assegni di carattere fisso e continuativo», che il primo comma dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967 espressamente considera cumulabili con l’indennità di servizio all’estero, ovvero al novero delle «altre indennità», la cui corresponsione nei periodi di lavoro all’estero è vietata dal secondo comma dello stesso art. 170.
La suprema Corte, nella veste di giudice a quo, era stata adita per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Roma la quale, in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda di riconoscimento dell’indennità di amministrazione dando applicazione alla norma d’interpretazione autentica. I parametri di costituzionalità invocati nell’ordinanza di remissione sono il principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3, comma 1 Cost., gli artt. 101, 102 e 104 Cost. che tutelano le funzioni costituzionalmente assegnate al potere giudiziario, l’art. 24, comma 1 Cost. che garantisce l’effettività della tutela giurisdizionale e gli artt. 111 e 117, comma 1 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, in ragione della ritenuta violazione del principio di parità delle armi processuali.
Con sentenza n. 145 del 10 maggio 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011 nella parte in cui ha disposto, anche per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, l’esclusione dell’indennità di amministrazione dal trattamento economico complessivamente spettante nel periodo di servizio all’estero, sull’assunto che tale disposizione, lungi dall’enucleare una possibile variante di senso della disposizione originaria, introduce una disciplina innovativa con effetti retroattivi.
La Corte costituzionale, nell’escludere la natura autenticamente interpretativa della disposizione legislativa, in primo luogo ha valorizzato i contenuti della contrattazione collettiva di settore susseguitasi successivamente alla privatizzazione del pubblico impiego (d.lgs. n. 29 del 1993), rilevando come quest’ultima, a partire dal CCNL del comparto Ministeri 1994/1997 sino al «blocco» della contrattazione collettiva disposto dal d.l. 78 del 2010 e dal d.l. n. 98 del 2011, abbia sempre configurato l’indennità di amministrazione quale trattamento di natura retributiva. Muovendo da tale assunto, la giurisprudenza nazionale ha costantemente trattato l’indennità di amministrazione alla stregua di componente «continuativa» del trattamento economico ai sensi del comma 1 dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967.
In secondo luogo, la pronuncia ha riconosciuto peculiare rilievo all’intenzione del legislatore, eloquentemente esplicitata nella relazione tecnica all’emendamento 1.0.35 presentato al Senato della Repubblica in sede di conversione in legge, da cui si evince che le finalità della norma oggetto di emendamento sono quelle di porre termine al «contenzioso seriale» instauratosi dinanzi a diversi tribunali, che sino ad allora aveva visto il Ministero sistematicamente soccombente, e di porre rimedio agli «ingenti oneri» che possono derivare a carico della finanza pubblica.
In terzo luogo, a giudizio della Corte l’incoerenza contenutistica riscontrabile tra l’art. 1-bis, nella parte in cui dispone il divieto di cumulo dell’indennità di amministrazione con l’indennità di servizio all’estero, e il dato testuale dell’art. 170, è resa ancor più evidente dal fatto che l’indennità di amministrazione, in quanto introdotta per la prima volta dal CCNL del comparto Ministeri del 16 maggio 1995 , a quel tempo nemmeno esisteva, cosicché il divieto di corrispondere al personale in servizio all’estero «altre indennità» (oltre a quelle previste dallo stesso d.P.R. n. 18 del 1967) non poteva in nessun caso riguardare l’indennità di amministrazione.

2) Parità delle armi processuali e retroattività nel diritto CEDU.

Nella dogmatica convenzionale, la questione dell’efficacia degli interventi legislativi retroattivi e quella dell’interferenza operata dallo Stato sullo svolgimento di giudizi in corso sono trattate alla stregua di temi ben distinti, governati da principi regolativi non sovrapponibili.
La retroattività della legge è questione che in sé attinge la dimensione “sostanziale” del diritto convenzionale, diversamente dalla dimensione propriamente “procedurale” che entra in gioco in caso d’interferenza sul diritto a un processo equo sancito dall’art. 6 CEDU. Invero, l’unica disposizione convenzionale che si occupa direttamente di retroattività è l’art. 7 CEDU (nulla poena sine lege), il quale riconosce un autonomo diritto all’irretroattività della legge penale sfavorevole, declinato, come noto, anche nel senso di diritto alla retroattività della lex mitior .
Al di fuori della materia penale, la CEDU non riconosce il principio d’irretroattività della legge alla stregua di diritto fondamentale a sé stante, opponibile allo Stato in quanto tale. Il carattere retroattivo della disposizione legislativa semmai assume rilevanza, trasversalmente, o quando si tratti di verificare l’esistenza di un sufficiente fondamento legale a giustificazione dell’interferenza apportata dallo Stato nel godimento di un diritto convenzionale relativo, o quale elemento di valutazione da prendere in esame, unitamente a ogni ulteriore circostanza del caso concreto, nell’ambito del giudizio di compatibilità dell’interferenza con i principi di necessità e di proporzione. La giurisprudenza della Corte EDU riconosce, in via generale, che alla funzione legislativa non è preclusa la regolazione di diritti già sorti sul fondamento del diritto vigente , fermo il rispetto dell’ampio limite della manifesta irragionevolezza. Il diritto convenzionale non pone vincoli alle scelte politiche cui il legislatore nazionale intenda dare attuazione in via retroattiva, a meno che esse non siano «manifestamente prive di ragionevole fondamento» .
La Corte EDU ha avuto particolarmente modo di occuparsi di retroattività in procedimenti aventi ad oggetto la prospettata violazione del diritto di proprietà, coperto dall’art. 1, Prot. 1 alla CEDU. La Corte ha riconosciuto che, in tale ambito applicativo, spetta allo Stato un «ampio margine di apprezzamento» nell’adottare retroattivamente misure restrittive, anche di natura fiscale, dirette a perseguire le legittime finalità di ridurre la spesa pubblica , a dare attuazione a una generale strategia economica o sociale , a implementare le politiche nazionali in materia fiscale . La Corte CEDU non ha mostrato reticenze nel riconoscere che le autorità interne si trovano in una posizione migliore (better placed) rispetto agli organi della Convenzione nella ponderazione delle questioni politiche, economiche e sociali coinvolte in tal genere di valutazioni e nella decisione di cosa sia «nel pubblico interesse» .
Ben più restrittiva invece è la posizione assunta dalla Corte EDU nel riconoscere allo Stato un qualche margine di apprezzamento nell’apportare limitazioni al diritto di parità delle armi processuali, che è un particolare profilo del diritto a un processo equo di cui all’art. 6 CEDU.
In questo specifico ambito applicativo, le misure legislative a effetto retroattivo sono trattate dalla Corte alla stregua di strumento pratico, tra i tanti possibili, che lo Stato può impiegare al fine di alterare a proprio vantaggio la posizione processuale delle parti di un giudizio in corso. La casistica giurisprudenziale mostra come gli strumenti di ingerenza processuale possono essere i più disparati. A citarne soltanto alcuni: l’omessa notifica all’avversario dell’appello rimasta priva di sanzione processuale ; il diniego del gratuito patrocinio che ha privato una parte della possibilità di presentare efficacemente la propria causa al tribunale a fronte di un avversario che aveva possibilità economiche molto maggiori ; il rifiuto opposto dal giudice di rinviare l’udienza sebbene il ricorrente fosse stato ricoverato d’urgenza in ospedale e il suo difensore non potesse rappresentarlo all’udienza ; l’ammissione come prova della deposizione di uno soltanto dei due testimoni fondamentali .
La Corte, in taluni precedenti come Arras e Cabourdin , ha ritenuto violato l’obbligo dello Stato di assicurare la parità delle armi processuali finaco in casi in cui parte del giudizio nazionale era non lo Stato, ma un soggetto privato, sull’assunto che lo Stato fosse in qualche misura azionista “indiretto” delle banche convenute in quei giudizi.
Ecco che, coerentemente, nei casi in cui la retroattività legislativa è venuta in rilievo quale mezzo d’interferenza nel diritto alla parità delle armi processuali, l’approccio della Corte si è sempre dimostrato fortemente restrittivo. La giurisprudenza convenzionale ha tradizionalmente ritenuto preclusa qualsivoglia possibilità d’ingerenza diretta a influenzare l’esito di una controversia giudiziale, salvo ciò sia consentito dalla ricorrenza di «motivi imperativi di interesse pubblico» che eccezionalmente legittimino tal genere d’intervento a opera dello Stato. L’atto d’interferenza legislativa soggiace al criterio di sindacato del «massimo grado di circospezione possibile» , che in via generale deve trovare applicazione rispetto a qualunque atto d’ingerenza nel diritto alla parità delle armi processuali. In particolare, considerazioni di natura economica o finanziaria, spesso invocate dagli Stati a propria difesa, non possono di per sé sole autorizzare il potere legislativo a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie .
Ne residua per lo Stato un ristrettissimo margine d’apprezzamento. Il diritto convenzionale consente legittime interferenze nel diritto alla parità delle armi in giudizio in circostanze estremamente limitate, se non eccezionali, come statuito in taluni casi in cui i ricorrenti avevano tentato di approfittare dei difetti tecnici della legislazione o avevano cercato di ottenere vantaggi da una lacuna legislativa, cui l’ingerenza del legislatore mirava a porre rimedio . Al di là di questi angusti casi, qualche spiraglio ulteriore è ravvisabile nella sentenza SCM Scanner de l’Ouest Lyonnais e altri c. Francia , ove la Corte ha ritenuto sussistente una violazione dell’art. 6 CEDU in quanto il governo non aveva offerto prova che la misura legislativa retroattiva, incidente sulla base di calcolo della retribuzione spettante a una determinata categoria del personale medico, fosse compatibile con i criteri di necessità e di proporzione rispetto alla finalità legittima di evitare un impatto sulla finanza pubblica talmente grave da mettere in pericolo la tenuta stessa del sistema sanitario e di protezione sociale. La Corte, in questo caso, non ha ritenuto che le ragioni di equilibrio finanziario fossero inidonee “in quanto tali” a integrare un efficace «motivo imperativo di interesse pubblico», bensì è entrata nel merito della questione, respingendo le difese del governo francese ritenendo che quest’ultimo avesse omesso d’indicare con sufficiente esaustività gli elementi di quantificazione necessari a valutare l’entità concreta dell’impatto finanziario lamentato.
La Corte EDU sembra forse aver abbracciato una logica di bilanciamento propriamente intesa in una serie di contenziosi sorti in materia proprietaria a seguito riunificazione delle due Germanie, originati dagli atti di acquisizione di beni privati come «proprietà del popolo» ad opera della Repubblica Democratica Tedesca. Nel caso Forrer , la Corte ha ritenuto prevalente sul diritto alla parità delle armi processuali l’interesse generale di regolare i conflitti sorti a seguito della riunificazione tedesca al fine di assicurare una pace durevole e la sicurezza giuridica in Germania. Vi è da dire, invero, che si tratta di un caso piuttosto estremo, atteso che l’intervento legislativo retroattivo ha avuto in pratica lo scopo di sanare taluni vizi meramente formali che inficiavano un atto d’acquisto della proprietà risalente al lontano 1959.
Ebbene, alla luce di quanto detto, ben può accadere che la natura retroattiva di un determinato intervento legislativo possa assumere, alternativamente o contestualmente, una duplice rilevanza: sia quale elemento che concorre a determinare la qualità di una determinata interferenza nel godimento di un diritto convenzionale relativo, il che di per sé prescinde dal fatto che quest’ultimo sia oggetto di un giudizio in corso, sia quale atto di diretta interferenza nel diritto a un processo equo, nel caso in cui esso abbia direttamente inciso sulla posizione processuale delle parti in causa.
La sentenza Silver Funghi c. Italia mostra plasticamente come la finalità perseguita dallo Stato di ridurre la spesa pubblica in materia di sgravi contributivi e fiscalizzazione nel settore agricolo assuma un peso radicalmente diverso a seconda che il parametro del giudizio di convenzionalità sia l’art. 6 CEDU (§§ 59-89 della sentenza) ovvero l’art. 1, Prot. 1 alla CEDU (§§ 90-108).
In merito al primo profilo, la Corte ha ribadito il consolidato principio secondo cui la sussistenza di esigenze imperative capaci di giustificare l’interferenza deve essere trattata con il massimo grado di circospezione possibile . La dottrina, tipicamente nazionale, che distingue tra natura sostanzialmente innovativa-retroattiva piuttosto che autenticamente interpretativa della disposizione legislativa è del tutto assente dal tessuto argomentativo della pronuncia. Ciò che conta, nella prospettiva convenzionale, è la constatazione che, a seguito dell’adozione della misura legislativa “interpretativa”, la prassi applicativa dei giudici nazionali è concretamente mutata in senso sfavorevole ai ricorrenti. Tanto è bastato ritenere concretizzata l’indebita interferenza, e quindi violato il diritto alla parità delle armi processuali. Come puntualizzato nel precedente Zielinski , ciò vale anche a prescindere dalla circostanza che il ricorrente abbia o meno ottenuto una decisione giudiziale passata in giudicato.
Quanto invece al secondo profilo, la Corte ha escluso una violazione dell’art. 1, Prot. 1 alla CEDU muovendo da un ben diverso parametro di giudizio: le scelte politiche del legislatore devono essere rispettate quand’anche si concretizzino in atti legislativi retroattivamente incidenti sul diritto di proprietà , salvo il caso della manifesta assenza di ragionevole fondamento, nel caso di specie non riscontrata.
Analogamente, nella sentenza Maggio c. Italia, pronunciata sull’annosa questione delle c.d. “pensioni svizzere”, il tema della retroattività assume una valenza completamente diversa nei due distinti ambiti applicativi. Rispetto al diritto a un processo equo, la Corte ha riaffermato con rigore il principio secondo cui lo Stato non può interferire nelle procedure di decisione giudiziaria . La Corte ha osservato che la legge nazionale, autoqualificatasi “di interpretazione autentica” (l’art. 1, comma 777 della legge n. 296/2006), ha prodotto l’effetto concreto di determinare una volta per tutte l’esito delle controversie pendenti dinanzi ai tribunali di cui lo Stato era parte, rendendo così inutile per i ricorrenti la prosecuzione del giudizio. La prospettata finalità politica di ristabilire un equilibrio nel sistema pensionistico, pur costituendo un legittimo motivo d’interesse generale, non è valsa a giustificare la ravvisata interferenza nel diritto protetto dall’art. 6 CEDU. È stato ritenuto particolarmente sintomatico il timeframe con cui il revirement giurisprudenziale ha fatto seguito alla promulgazione dell’atto legislativo. Anche in questo caso, nessuna attenzione è stata dedicata alla questione dell’eventuale portata innovativa, piuttosto che autenticamente interpretativa, della disposizione legislativa “interpretante”.
Ben diversa è la prospettiva adottata in merito alla lamentata violazione dell’art. 1, Prot. 1 alla CEDU. La Corte per un verso ha escluso che il carattere retroattivo di una determinata interferenza nel diritto di proprietà sia in quanto tale incompatibile con il presupposto del necessario fondamento legale (subject to the conditions provided for by law) , per altro verso ha ribadito la spettanza allo Stato un ampio margine d’apprezzamento in materia. La pronuncia, infatti, ha escluso l’esistenza di una violazione convenzionale sulla base della constatazione di pieno merito che, questa volta, la riduzione dell’ammontare pensionistico subita dal ricorrente fosse di entità molto inferiore alla metà, cosicché il diritto di beneficiare del regime di previdenza sociale «non aveva subito ingerenze tali da pregiudicare i suoi diritti pensionistici nella loro essenza» . Nella sentenza Stefanetti, pronunciata sempre in materia di “pensioni svizzere”, la Corte invece ha ritenuto violato il diritto di proprietà in quanto, in quel caso, la riduzione dell’ammontare pensionistico era stata molto maggiore della metà, cosicché l’entità dell’interferenza è stata ritenuta sproporzionata rispetto al fine legittimo perseguito dal legislatore, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto .

 

3) Interpretazione autentica e giusto processo nella giurisprudenza costituzionale.

Nella giurisprudenza costituzionale, il confine tra retroattività legislativa e interferenza sulla parità delle armi processuali assume caratteri ben più sfumati. La sentenza n. 145/2022, pur valorizzando il programma di massima espansione del «rapporto di integrazione reciproca» tra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU , dimostra nel complesso una solida aderenza al diverso approccio metodologico tradizionalmente sviluppato dalla pregressa giurisprudenza.
In primo luogo, la pronuncia pone a fondamento della propria logica argomentativa la tradizionale distinzione tra disposizioni legislative autenticamente interpretative e disposizioni sostanzialmente innovative. Come detto, tale concettualizzazione è del tutto aliena dal bagaglio dogmatico della giurisprudenza convenzionale. Ciò che conta, nella prospettiva europea, è la verifica se, in concreto, una determinata misura legislativa abbia prodotto o meno l’effetto d’interferire sull’esito di un giudizio in corso. Una volta riscontrata tale condizione (anche sulla base di indici sintomatici quali la successione cronologica degli eventi o l’impatto riscontrato sull’andamento degli orientamenti giurisprudenziali nazionali), poco importa se e in che misura la disposizione legislativa “interpretante” sia semanticamente compatibile con la disposizione originaria “interpretata”.
In secondo luogo, la consolidata giurisprudenza costituzionale ritiene che l’errata autoqualificazione della disposizione “interpretante” rilevi quale «sintomo inequivocabile di un uso improprio della funzione legislativa» . Dal riscontrato errore di autoqualificazione viene dedotta la necessità di uno scrutinio stretto di costituzionalità, che non si limiti a vagliare «la mera assenza di scelte normative manifestamente irragionevoli», ma si spinga a verificare, in positivo, la sussistenza effettiva di «giustificazioni ragionevoli» a fondamento dell’intervento legislativo retroattivo . Dall’ampio bilanciamento che tale sindacato richiede non possono restare esclusi, nella prospettiva della Corte, i concorrenti valori costituzionali potenzialmente lesi dalla retroazione, quali il legittimo affidamento dei destinatari della regolazione originaria, il principio di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, il giusto processo e il rispetto delle attribuzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario , ma nemmeno gli ulteriori interessi di rango costituzionale che l’intervento legislativo retroattivo mira a perseguire, quali – tra i tanti ipotizzabili – la stabilità della finanza pubblica, l’equilibrio del sistema pensionistico, la parità di trattamento alle dipendenze della pubblica amministrazione.
Questo è precisamente il punto di frizione ove dogmatica costituzionale e dogmatica convenzionale sembrano maggiormente confliggere. Nella prospettiva costituzionale, il giudizio di bilanciamento abbraccia una molteplicità di valori costituzionali che vanno ben al di là del ristrettissimo ambito applicativo che la Corte EDU ritaglia per le «imperative ragioni di interesse generale», sostanzialmente eccezionali, che possono legittimare un’interferenza legislativa retroattiva nel diritto alla parità delle armi processuali.
Ciò perché la giurisprudenza costituzionale tratta il tema dell’effetto prodotto dalla retroazione legislativa quale questione sostanzialmente unitaria. Il relativo sindacato esige sempre e comunque che siano presi in considerazione tutti i beni di rilevanza costituzionale suscettibili di bilanciamento: sia che si ponga un problema generale di tutela dell’affidamento, che di per sé prescinde dalla possibile incidenza sull’esito di un giudizio in corso (come nella questione di riconduzione a equità e ragionevolezza degli assegni vitalizi attribuiti ai consiglieri regionali ), sia che effettivamente esista un problema d’interferenza processuale lesiva della parità delle armi in giudizio. Il fatto poi che, naturalmente, anche nel primo caso sia necessaria la pendenza di un giudizio a quo nel quale possa e debba essere sollevata questione di legittimità costituzionale, non vale a intaccare la concettualizzazione che tiene distinti i due diversi profili giuridici e fattuali.
Nonostante tale divergenza, la sentenza n. 145/2022 ha messo a fuoco un significativo punto di sintonia, focalizzato sulla ravvisata convergenza sostanziale che accomuna talune tutele costituzionali – il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma Cost.), la garanzia delle attribuzioni dell’autorità giudiziaria (art. 102 Cost.) , il diritto a un giusto processo (art. 111 Cost.) – con il contenuto del diritto a un processo equo (art. 6 CEDU), così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU. La Corte costituzionale ha concordato con la Corte EDU nel riconoscere che i soli «motivi finanziari», volti a preservare l’interesse economico dello Stato, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso . Invero, nemmeno si può ritenere che, in questo senso, la sentenza n. 145/2022 costituisca un unicum nel panorama giurisprudenziale costituzionale. In altre pronunce la Corte già aveva riconosciuto rilevanza decisiva, al di là di ogni ulteriore bilanciamento, all’effetto distorsivo provocato dall’innovazione legislativa retroattiva sulle posizioni processuali delle parti , anche valorizzando elementi di giudizio cui la Corte EDU tradizionalmente riserva attenzione particolare, quale ad esempio la tempistica di emanazione dell’atto legislativo pseudointerpretante .
Non sembra comunque possibile definire la sentenza n. 145/2022 come pronuncia di “rottura”. L’impianto motivazionale trova pur sempre fondamento sulla tradizionale dottrina che distingue tra natura autenticamente interpretativa e natura sostanzialmente innovativa della disposizione legislativa, e sul conseguente approccio che esige l’ampia considerazione, ai fini del bilanciamento, della molteplicità dei valori costituzionali potenzialmente lesi dalla retroazione (il legittimo affidamento , la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, il giusto processo, il rispetto delle attribuzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario), ma anche di quelli da essa garantiti (quali la stabilità finanziaria dello Stato o l’omogeneità del sistema pensionistico).
I tratti di tale logica emergono con chiarezza nella sentenza costituzionale n. 311 del 2009 (nota come Agrati, dal nome successivamente assunto nel giudizio CEDU), la quale ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 117, comma 1 Cost. e all’art. 6 CEDU di una legge, ritenuta dalla Corte autenticamente interpretativa, che stabiliva che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico e ausiliario statale (ATA) venisse reinquadrato nei corrispondenti ruoli statali sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento (c.d. maturato economico), sull’assunto che, a fronte di un dibattito giurisprudenziale irrisolto e in assenza di un “diritto vivente” consolidatosi sul tema, non poteva essersi formato un legittimo affidamento rispetto al trattamento retributivo atteso . La Corte, quindi, ha ritenuto che gli interessi costituzionali all’omogeneità del sistema retributivo dei dipendenti del ruolo statale, alla preservazione del principio di invarianza della spesa pubblica e alla parità di trattamento del personale alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche fossero di rilevanza tale da giustificare l’intervento legislativo d’interpretazione autentica. In questa prospettiva, il profilo della parità delle armi processuali è risultato sostanzialmente “schiacciato” dal peso preponderante assunto dai concorrenti beni costituzionali posti in bilanciamento.
Non stupisce allora la diversità di valutazione fatta dalla Corte EDU sul medesimo caso. Nella sentenza Agrati e altri c. Italia la Corte europea, senza troppi giri di parole (e invero correndo in modo un po’ disinvolto sul fatto che sarebbe esistito un orientamento interpretativo costante della Corte di cassazione ), ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 6 CEDU essenzialmente sulla base della sola constatazione che la disposizione legislativa sopravvenuta aveva in concreto sortito l’effetto di orientare omogeneamente l’esito dei giudizi allora pendenti (questo sì innegabile). A fronte di ciò, l’interesse finanziario dello Stato non poteva rilevare quale «motivo imperativo d’interesse generale» idoneo a giustificare l’interferenza subita dal diritto alla parità delle armi processuali. Analogo approccio è stato seguito dalla sentenza Montalto , la cui parte motivazionale praticamente nemmeno prende in considerazione la finalità, prospettata dal governo, di «evitare ingiustificati incrementi salariali e disparità di trattamento tra differenti categorie di dipendenti pubblici».
La sentenza n. 311/2009 ha il pregio di sviluppare un approfondito tentativo di dialogo (seppur non andato a buon fine) con il bagaglio giurisprudenziale elaborato dalla Corte EDU, ma anche quello di far emergere il cruciale punto di disaccordo tra le due diverse impostazioni: la Corte costituzionale ha esplicitamente rivendicato per gli Stati contraenti una concorrente competenza a identificare i «motivi imperativi d’interesse generale» capaci di legittimare interventi legislativi retroattivi, ogniqualvolta siano implicati profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali che richiedano la concessione di un adeguato margine di apprezzamento. Ed è proprio questo il punto che la Corte EDU, da parte sua, considera irretrattabile.
Tale differenza di vedute assume talora i tratti del fraintendimento, se non dell’incomunicabilità. La Consulta, nel caso Agrati, ha ritenuto di riscontrare «piena coerenza» tra la propria decisione e gli orientamenti consolidati espressi sul tema dalla giurisprudenza europea, alla quale in effetti è dedicata una puntuale analisi (par. 9). Per contro, la Corte EDU è stata particolarmente “secca” nel ribadire la propria diversa restrittiva posizione. A ben vedere, non consta che la giurisprudenza convenzionale, in tema di violazione del diritto alla parità delle armi processuali, abbia mai riconosciuto agli Stati membri un margine di apprezzamento tanto ampio quanto quello che la Corte costituzionale ha ritenuto le spettasse.
Le difficoltà di ricomposizione di tali profili di contrasto possono essere meglio comprese se contestualizzate alla luce dell’eterogeneità strutturale che distingue giudizio di legittimità costituzionale e giudizio di convenzionalità. La compatibilità convenzionale è il risultato concreto della complessiva interazione di tutte le circostanze del caso, qualora ragionevolmente bilanciate secondo un metro di necessità e proporzione convenzionalmente accettabile. In questo senso, il vincolo di conformità con l’ordinamento CEDU opera diversamente dal vincolo di conformità costituzionale: mentre il giudizio di legittimità costituzionale ha carattere astratto, in quanto diretto a verificare la compatibilità di una norma di legge rispetto al parametro costituzionale, il giudizio di compatibilità convenzionale ha carattere concreto, nel senso che oggetto di verifica è il risultato concreto prodotto da una determinata azione positiva o negativa dello Stato (nel senso esplicitato in Von Hannover c. Germania ). In altri termini, il sindacato di costituzionalità è un giudizio “di diritto”, quello di convenzionalità è un giudizio “di fatto”. È naturale conseguenza di tale eterogeneità la differenza strutturale che intercorre tra l’interpretazione convenzionalmente orientata e l’interpretazione orientata alla Costituzione. Quest’ultima trova attuazione per mezzo della selezione dell’interpretazione normativa, tra le molteplici desumibili da una determinata disposizione legale, maggiormente conforme al parametro costituzionale. La prima invece è diretta a conseguire un risultato concreto (result oriented), vale a dire la conformità della situazione di fatto rispetto ai criteri convenzionali di necessità e di proporzione, intesa quale prodotto della concorrenza di tutte le circostanze (fattuali, negoziali, normative, giurisprudenziali) costitutive della fattispecie.
Ciò concorre a spiegare per quale ragione nel giudizio di convenzionalità assume rilevanza decisiva il dato “di fatto” che a un intervento legislativo retroattivo sia seguito un revirement giurisprudenziale favorevole allo Stato, mentre nel giudizio di costituzionalità predomina la logica “a priori” del bilanciamento tra i molteplici parametri di sindacato.

 

 

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