TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

A conclusione di tre giorni di intensi lavori sul tema del licenziamento, lavori che hanno esplorato una molteplicità di aspetti rilevanti nel regime giuridico del licenziamento individuale, dalle tutele relative all’illegittimità del licenziamento per g.m.o. in seguito alle pronunce della Corte costituzionale ai licenziamenti nella “crisi d’impresa”, passando per i vizi procedurali nella vicenda estintiva del rapporto di lavoro, i licenziamenti disciplinari, i licenziamenti nulli e quelli discriminatori, giungiamo ora alla tavola rotonda finale, che forse ci permetterà di tentare un primo provvisorio bilancio dei risultati del corso.
Gli intenti del corso, per come sono stati manifestati dagli organizzatori, non sono privi di una certa ambizione.
Partendo dalla premessa della centrale importanza della vicenda estintiva del rapporto di lavoro, e dalla constatazione che, a partire dagli anni ’90, si è aperta una stagione di riforme chiaramente orientata, nel segno dell’attenzione del legislatore per le esigenze dell’economia e dell’impresa, verso un ridimensionamento delle robuste tutele apprestate dalla versione originaria dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, si è voluto dedicare il corso all’analisi della disciplina attuale, alla luce degli importanti recenti interventi della Corte costituzionale.
Questi interventi non hanno mancato di evidenziare non trascurabili antinomie tra gli interventi del legislatore e il disegno della Costituzione, nel quale la libertà e la dignità del lavoratore assurgono a fondamento della Repubblica, anche nell’intento, appunto, ambizioso, di invitare il legislatore ad agire nel senso di restituire coerenza e sistematicità alla materia della cessazione del rapporto di lavoro.
Una fondamentale domanda che ci si pone è quella sul senso attuale della c.d. “stabilità reale”, se cioè essa costituisca ancora la regola oppure sia degradata a eccezione, dopo gli interventi della riforma Fornero (l. 92/2012) e del d.lgs. 23/2015 sulle cd. “tutele crescenti”.
In questo contesto è certamente rilevante la sentenza della Corte di cassazione n. 26246 del 6 settembre 2022 in materia di decorrenza della prescrizione per i crediti di lavoro, secondo cui il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della l. Fornero e dal Jobs Act, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Tornando alle antinomie, e quindi agli interventi della Corte costituzionale, nella sua giurisprudenza l’affermazione sempre più netta del «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.), affiancata alla «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.), si sostanzia nel riconoscere, tra l’altro, che i limiti posti al potere di recesso del datore di lavoro correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro. Il forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata – qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele.
Un dato particolarmente evidente è quello del confronto, oramai imprescindibile, del giudice delle leggi con le fonti internazionali e con la lettura che di queste fonti danno gli organi internazionali ai quali i rispettivi trattati affidano il compito di interpretarle, salvo a vedere se questi organi siano pienamente giurisdizionali o no, e se le loro conclusioni possano essere qualificate come “giurisprudenza”.
Molto si è scritto sul rapporto tra la Corte costituzionale e queste fonti, e diverse analisi insistono sulle incertezze della sua giurisprudenza, che a volte sembra oscillare tra posizioni di apertura e di chiusura, e che appare rivelare in più occasioni il timore di una sua marginalizzazione dovuta al dialogo diretto dei giudici comuni con quelli sovranazionali.
La strada del confronto con le fonti internazionali è stata imboccata con decisione dalla Corte costituzionale specialmente a partire dalla sentenza n. 388 del 1999, secondo la quale «i diritti umani garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione» (essendo concepibile, al massimo, una diversità di «formule che li esprimono», le quali «si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione»), così eliminando ogni dubbio sulla natura “aperta” e non “chiusa” della formula dell’art. 2 della Costituzione che, nel riferirsi ai “diritti inviolabili dell’uomo” non si limita ai diritti enunciati dalla stessa Costituzione, ma abbraccia anche quelli inclusi nelle Carte internazionali.
Quel che è certo è che se la Corte costituzionale si confronta con le fonti e la giurisprudenza sovranazionali, a questo confronto non può sfuggire il giudice comune, compreso evidentemente il giudice del lavoro.
Sono di tutta evidenza le difficoltà di questo esercizio, data la molteplicità delle fonti cui si deve fare riferimento e la diversità degli organi chiamati ad interpretarle. Oltre al diritto dell’Unione europea, compresa la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per la cui eventuale mancata applicazione c’è anche un rischio di responsabilità civile per i magistrati, vi è la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, senza dimenticare la Carta sociale europea, le Convenzioni internazionali del lavoro dell’OIL, e diverse altre fonti.
L’armamentario a disposizione del giudice comune è poi diverso a seconda della natura della fonte sovranazionale che di volta in volta viene in rilievo. Di fronte ad un conflitto tra una norma dell’Unione europea dotata di effetto diretto e una legge nazionale, il giudice dovrà disapplicare quest’ultima, mentre se si tratta di una norma europea priva di effetto diretto - esempio tipico una direttiva ineseguita nei rapporti tra privati - fermo restando il suo dovere di tentare un’interpretazione del diritto interno conforme al diritto dell’Unione, il giudice dovrà sollevare, in caso d’insuccesso di quest’ultima operazione, questione di legittimità costituzionale della norme interna. Alla stessa soluzione il giudice sarà chiamato nel caso di contrasto tra una norma interna e un trattato internazionale pertinente nel caso al suo esame, prima tra tutti la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, alla stregua dell’art. 117 nuovo testo della Costituzione.
In tutti i casi nella consapevolezza della possibilità per la Corte costituzionale di far prevalere il diritto interno in base alla dottrina dei “controlimiti”, che si atteggia in modo diverso a seconda che si tratti del diritto dell’Unione europea, nel cui ambito il limite è più ristretto, essendo costituito dai principi supremi e dai diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale dello Stato, ovvero di “semplici” trattati internazionali, compresa la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per i quali è l’intera Costituzione a funzionare da “controlimite”.
In queste ultime situazioni, come è emerso in particolare nel celebre caso delle “pensioni svizzere”, esaminato dalla sentenza n. 264 del 2012 della Corte costituzionale, il giudice delle leggi si riserva di effettuare un bilanciamento tra la tutela assicurata in sede internazionale ad un determinato diritto ed altri diritti tutelati dalla Costituzione, in modo da scongiurare la “tirannia” di un diritto sugli altri, così rivendicando a sé il ruolo di ultimo custode dell’armonia tra i diritti voluta dal Costituente.
È emblematico il percorso seguito da una delle sentenze della Corte costituzionale che presentano un particolare interesse per questo corso. Mi riferisco alla n. 194 del 2018, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, del d. lgs. n. 23 del 2015 (Jobs act) sulla determinazione dell’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato.
In questa decisione la Corte costituzionale ha innanzitutto escluso la pertinenza della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che pure al suo art. 30 prevede una tutela per i licenziamenti illegittimi. Ciò perché, ai sensi dell’art. 51, primo comma, della stessa Carta, essa si applica agli Stati membri solo «quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione». Il solo fatto che la norma sospettata d’incostituzionalità, cioè l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 ricadesse in un settore – la politica sociale - nel quale l’Unione è competente ai sensi dell’art. 153, paragrafo 2, lettera d), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) non poteva comportare l’applicabilità della Carta dato che, riguardo alla disciplina dei licenziamenti individuali (e, tanto meno, nella situazione specificamente regolata dall’art. 3, comma 1), l’Unione non aveva in concreto esercitato tale competenza, né ha adottato, mediante direttive, prescrizioni minime.
Veniva pure esclusa la pertinenza della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sui licenziamenti, trattandosi di trattato internazionale non ratificato dall’Italia.
Invece la Corte costituzionale ha trovato pertinente l’art. 24 della Carta sociale europea, che già nella sua precedente sentenza n. 120 del 2018, relativa al diritto dei militari di costituire associazioni di carattere sindacale, aveva affermato l’idoneità della Carta sociale ad integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost. e aveva anche riconosciuto l’autorevolezza delle decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, ancorché non vincolanti per i giudici nazionali.
La soluzione offerta dal Jobs Act, cioè la rigida parametrazione del risarcimento per licenziamento illegittimo ad un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», si poneva in contrasto con l’art. 24 della Carta sociale, che impone l’obbligo di garantire l’adeguatezza del risarcimento.
In linea con la sentenza n. 388 del 1999 cui accennavo prima, la Corte costituzionale, osservando come la soluzione coincidesse con quella raggiunta sulla base del parametro costituzionale interno dell’art. 3 Cost., ha notato come si realizzasse in tal modo un’integrazione tra fonti e tra le tutele da esse garantite, richiamando la sentenza n. 317 del 2009, punto 7. del Considerato in diritto, secondo cui «[i]l risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo».
In materia di tutele specifiche contro i licenziamenti illegittimi non c’è molto nella giurisprudenza delle due Corti europee. Recentemente la Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata con la sentenza del 17 marzo 2021 nella causa C 652/19, con la quale ha ritenuto che, in caso di licenziamento collettivo illegittimo, il diritto europeo non osta a una normativa nazionale (come il Jobs Act) che "estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa, è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data". In particolare, anche la Corte di giustizia ha escluso in questo caso la pertinenza della Carta dei diritti fondamentali dell’UE perché pur avendo l’Unione esercitato la competenza in materia di politica sociale di cui all’art. 153 TFUE a proposito dei licenziamenti collettivi, lo aveva fatto limitatamente alle procedure da seguire, escludendo che il diritto dell’Unione disciplinasse anche le conseguenze della violazione dei criteri di scelta. Sotto un diverso profilo, è stata anche esclusa la valenza discriminatoria della normativa in questione.
Detto questo, però, si deve tener conto di una ricca giurisprudenza delle due corti sui motivi del licenziamento. Per la Corte di Lussemburgo questa giurisprudenza, pur non avendo l’Unione esercitato le sue competenze in materia di politica sociale a proposito dei licenziamenti individuali, riguarda la normativa europea antidiscriminazione, mentre per la Corte di Strasburgo si tratta di verificare, anche nei rapporti tra privati, che normalmente vengono in rilievo in tema di licenziamento, se sia stato violato uno dei diritti protetti dalla Convenzione europea, in particolare il diritto alla riservatezza e quello alla libertà di espressione.
La casistica è vastissima. Mi limito a ricordare una sentenza recentissima, pronunciata il 14 febbraio scorso dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Halet c. Lussemburgo (ric. n. 21884/18), concernente un celebre caso di whistleblowing, relativo alla vicenda “Luxleaks” e alla divulgazione di documenti fiscali posseduti dall’azienda del ricorrente, la PC Waterhouse, un caso che ha imbarazzato il governo lussemburghese per la rivelazione di trattamenti fiscali particolarmente vantaggiosi assicurati ad aziende multinazionali. La sentenza ha ribaltato una prima decisione a livello di Camera, pronunciata l’11 maggio 2021, decisione nella quale la Corte si era espressa, con una maggioranza di cinque a due, nel senso che l’art. 10 non era stato violato, perché le giurisdizioni lussemburghesi avevano assicurato un giusto equilibrio tra i diritti del lavoratore e quelli del datore di lavoro. La Grande Camera ha concluso che il licenziamento aveva violato l’art. 10 della Convenzione perché, dopo aver posto in bilanciamento i differenti interessi in gioco (cioè, da una parte l’interesse pubblico che l’informazione divulgata presentava e, d’altra parte, gli effetti dannosi della divulgazione per il datore di lavoro) e tenendo conto dell’effetto dissuasivo della condanna penale inflitta al ricorrente, la Corte ha concluso che l’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione del ricorrente e in particolare del suo diritto di comunicare delle informazioni – ingerenza costituita non solo dalla condanna penale, ma anche dal licenziamento, § 205 - non era “necessaria in una società democratica”.
La nostra tavola rotonda si occuperà sia degli aspetti sovranazionali sia di quelli nazionali. Per quanto sia difficile, evidentemente, separare nettamente i due aspetti, mi pare di capire che ai primi dedicheranno una maggiore attenzione il Presidente Bronzini e la Prof. Guarriello, mentre il Prof. Perulli e l’Avv. Bottini si concentreranno in particolare su quelli nazionali.

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