TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1.Sarebbe difficile negare che, in materia di responsabilità civile, l’incidenza diretta della regolazione di fonte eurounitaria si presenti come assai meno significativa di quanto non sia dato constatare in altre aree della legislazione di diritto privato, a cominciare dal diritto dei contratti . Non si tratta di una considerazione puramente quantitativa, che sarebbe ovviamente, in quanto tale, affatto estrinseca, ma anche della presa d’atto della difficoltà con cui la legislazione comunitaria riesce ad introdurre in materia aquiliana nuclei normativi non solo caratterizzati da proprie, autonome rationes, ma anche tali da costituirsi come sistemi del tutto autosufficienti rispetto a quelli contenuti nei singoli ordinamenti giuridici nazionali.
Non è probabilmente casuale, da questo angolo visuale, che il tentativo di costruzione di una disciplina di diritto privato europeo, pure in prospettiva generale rimasto privo di concreti esiti normativi, abbia condotto in tema di responsabilità civile a risultati, anche soltanto in termini di modelli meramente culturali di regolamentazione, forse ancora più circoscritti. La stessa esperienza dell’European Group on Tort Law, dopo avere raggiunto uno sbocco di notevole rilievo culturale con la predisposizione del testo dei Principles of Tort Law, e del relativo Commentario , è rimasta tuttavia priva di impatto su scelte di riforma normativa, che fossero in ipotesi adottate, o anche soltanto prefigurate come possibili.
Certamente, ed anche questo è stato da ultimo rilevato , si delinea ora una novità significativa e su un argomento avvertito come di particolare rilevanza nel disegnare le linee di sviluppo future del rimedio aquiliano: e cioè la Proposta di direttiva sulla responsabilità da intelligenza artificiale del Parlamento europeo e del Consiglio relativa, appunto, all’adeguamento della disciplina in materia di responsabilità civile alle questioni sollevate dall’uso dei dispositivi di intelligenza artificiale. Tuttavia, anche in questo caso l’intervento normativo si preannuncia, almeno nella fase di elaborazione del medesimo in cui esso allo stato si trova, come di armonizzazione minima , destinato a regolamentare, in applicazione del principio di proporzionalità , il solo piano delle tecniche probatorie delle ipotesi di responsabilità: è infatti esplicita l’affermazione che lo scopo della direttiva è quello di “armonizzare in modo mirato solo le norme in materia di responsabilità per colpa che disciplinano l’onere della prova a carico di coloro che chiedono il risarcimento del danno causato da sistemi di IA”, non essendo invece la medesima destinata ad “armonizzare gli aspetti generali della responsabilità civile disciplinati in modi diversi dalle norme nazionali in materia di responsabilità civile, come la definizione di colpa o causalità, i diversi tipi di danno che giustificano le domande di risarcimento, la distribuzione della responsabilità tra più danneggianti, il concorso di colpa, il calcolo del danno o i termini di prescrizione”.
Qualche spunto di maggiore rilievo emerge invece dalla disciplina del Rgpd , oggetto di una recentissima decisione della Corte di Giustizia , che – come si dirà – rileva pure ad altri fini nell’ambito del nostro discorso: si tratta, infatti, di una disciplina che ha sollecitato, anche di recente, riflessioni sulla necessità di intraprendere ormai la strada di costruire un sistema eurounitario della responsabilità civile . Si è osservato, infatti, in questa prospettiva che “alla scelta di un atto normativo di uniformazione per tipizzare la fattispecie (de-nazionalizzata) scolpita nell’art. 82 del Rgpd si accompagna la scelta di un nuovo ‘inizio’ e, perciò, il cominciamento della nuova stagione del diritto comune europeo della responsabilità civile” . Ed appunto perché la regola di responsabilità racchiusa in questa disposizione “è posta in via esclusiva dalla fonte europea di tipo regolamentare… le peculiari caratteristiche” di quest’ultima sarebbero, secondo questa impostazione, destinate ad imprimere una particolare curvatura al processo di formazione progressiva dello statuto della responsabilità civile da illecito trattamento dei dati personali” : un processo nel quale l’incompletezza della disposizione dell’art. 82, nel senso dell’assenza all’interno di essa di una disciplina estesa ad ogni aspetto della fattispecie di responsabilità derivante dalla violazione delle norme del Rgpd , dovrebbe essere superata per mezzo di una tecnica interpretativa in grado di reperire soluzioni ai problemi che si delineano “all’interno del sistema del diritto dell’Unione europea” . In altre parole, si tratterebbe di procedere nell’opera ricostruttiva, tenendo conto delle indicazioni metodologiche di chi ha proposto di “leggere la norma del GDPR nell’ottica rovesciata di una dogmatica europea, quale emergente dalla normativa dell’UE e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia” ; ed in quest’opera sarebbero destinate a giocare un ruolo di particolare rilievo proprio le pronunce della Corte di Giustizia sulle questioni pregiudiziali di volta in volta sottopostele dai giudici nazionali . Infatti, quando il legislatore eurounitario sia intervenuto con lo strumento dell’uniformazione, e cioè con l’adozione di un regolamento, eventuali vuoti di disciplina non potrebbero essere colmati facendo ricorso a regole, principi o moduli interpretativi desunti dai singoli ordinamenti nazionali, la cui utilizzazione condurrebbe inevitabilmente ad un esito di frammentazione regolatoria opposto all’obiettivo dell’uniformazione.
In questo quadro, un discorso che si interroghi circa l’assetto delle funzioni della responsabilità civile all’interno delle linee di sviluppo di un sistema europeo di questo istituto ancora in formazione, potrebbe sembrare inevitabilmente destinato ad attingere esiti provvisori, se non radicalmente incerti. Tuttavia, e per volgersi ora all’oggetto specifico di questo scritto, è proprio l’indagine circa le funzioni del rimedio risarcitorio, rispettivamente nel diritto civile e nel diritto del lavoro a presentare un particolare interesse, in un momento in cui un diritto eurounitario della responsabilità civile è ancora in fase di elaborazione. Infatti, nella materia aquiliana si coglie in modo particolarmente nitido il ruolo che, appunto sul piano della relazione con il diritto civile, il diritto del lavoro ha spesso ricoperto: un ruolo che – volendo utilizzare una formula sintetica, anche se inevitabilmente approssimativa – potremmo definire di precursore nella rilevazione dei problemi che la considerazione della realtà economico – sociale esibiva. Da questo punto di vista, il diritto del lavoro si è rivelato spesso come una sorta di officina alla quale il civilista poteva attingere, al fine di modellare le proprie categorie conoscitive, e, soprattutto, le soluzioni ed i rimedi predisposti, sulla sostanza economica degli interessi e dei conflitti sociali. A sua volta, questa attitudine del diritto del lavoro, come ha osservato efficacemente uno storico del diritto, si ricollega al fatto che esso “…è realtà impura, intriso com’è di fatti sociali ed economici, specchio fedele del divenire mutevolissimo della società” cosicché, prima ancora del diritto civile il diritto del lavoro si sforza di sollevare il velo della forma giuridica al fine di individuare gli interessi concreti e le dinamiche reali di potere ad essi sottostanti. Del resto, è probabilmente anche per questa ragione che il diritto del lavoro ha manifestato ben prima di quello che potremmo definire il diritto civile generale la propria insofferenza a restare costretto all’interno della forma del codice civile; e prima, oltre che più intensamente, del diritto civile generale ha modulato le proprie linee di sviluppo attraverso un dialogo intenso tra dottrina e giurisprudenza.
Si tratta, dunque, di vedere, utilizzando gli spunti che ci sono forniti da un recentissimo e meditato studio sulla polifunzionalità del risarcimento del danno nel diritto del lavoro , se il diritto del lavoro, e le strategie argomentative elaborate all’interno di esso, siano in grado di contribuire, anche nella prospettiva più generale del privatista, alla messa a punto del tema delle funzioni del risarcimento del danno.

2. E’ noto che uno degli snodi più rilevanti del dibattito degli ultimi anni sulle funzioni della responsabilità civile all’interno del sistema normativo italiano è stato quello che, aperto dalla sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte relativa alla delibabilità, nel nostro ordinamento, della decisione di un giudice straniero recante condanna per un titolo di risarcimenti punitivi, ha condotto ad un’articolazione dell’istituto aquiliano nel senso della polifunzionalità. La questione, come emerge anche dal contenuto dei tanti contributi in argomento , intercetta alcuni degli snodi fondamentali del problema della responsabilità civile e, più in generale, delle tecniche di tutela civile dei diritti, e si colloca sullo sfondo della riflessione circa i rapporti tra legge e giurisdizione ovvero, per usare un’altra formulazione, della relazione tra dottrina dei dottori e dottrina delle Corti .
In questa fase del discorso, occorre verificare quali siano le prospettive aperte dalla sentenza – e dalla discussione originata dalla stessa – appunto dall’angolo visuale delle funzioni della responsabilità civile, in un contesto nel quale, dopo alcune interpretazioni ‘a primissima lettura’ della decisione, secondo le quali l’intervento delle Sezioni Unite avrebbe addirittura creato i presupposti per una ridefinizione del concetto di danno , appare tuttora controverso se la decisione abbia ‘aperto’ o ‘chiuso’ ai danni punitivi nel nostro sistema.
La seconda posizione è stata in particolare sostenuta sulla premessa che la sentenza ha comunque sottoposto i danni punitivi ad un regime di rigorosa tipicità legislativa, desunto dalla norma racchiusa nell’art. 23 della Costituzione, in questo modo escludendo qualsiasi potere creativo del giudice “capace di dare ingresso ad un ‘incontrollato soggettivismo giudiziario’, che deve assolutamente evitarsi” . In effetti, la decisione sottolinea con forza che “ogni imposizione di prestazione personale esige una ‘intermediazione legislativa’ sulla base del principio di cui all’art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25) che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali…”: si è discusso se sia più pertinente il richiamo all’art. 23 Cost. (che, come ci era già capitato di dire in sede di commento all’ordinanza di rimessione, ponendo una riserva di legge quanto ai fatti – fonte dell’obbligo di eseguire una prestazione patrimoniale, preclude la creazione diretta di essi in via pretoria ) oppure quello all’art. 25, come sembra incline a fare altresì la sentenza delle Sezioni Unite . Entrambi esprimono il principio della necessaria e previa previsione di legge, il primo, in generale, quanto ai fatti che fondano l’obbligo di eseguire una prestazione patrimoniale, il secondo, quanto alla regola che sancisca la punizione di colui che abbia posto in essere una determinata condotta: e se quest’ultimo può apparire in effetti dotato di un maggiore tasso di specialità, e dunque, di pertinenza al problema di condanne in funzione sanzionatoria, il primo ha il pregio di avere registrato, già in passato, qualche sufficientemente meditata proposta di utilizzazione in una prospettiva ricostruttiva del discorso sulla responsabilità civile . Non sembra tuttavia si possa sostenere che la corretta utilizzazione da parte della sentenza delle Sezioni Unite del riferimento ai principi costituzionali che vengono in considerazione in questa materia rappresenti una chiusura ai risarcimenti punitivi, i quali, se certamente non possono trovare ingresso in via meramente pretoria nel nostro sistema normativo, sono stati ritenuti ormai compatibili con il limite dell’ordine pubblico .
Non pare comunque contestabile, già alla luce dei riferimenti che si sono fatti al contenuto della sentenza delle Sezioni Unite, che essa abbia accreditato il principio, di sicuro rilievo innovativo, avuto riguardo a gran parte della precedente giurisprudenza di legittimità , secondo il quale “nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile” . Da questo principio, la sentenza ha tratto il corollario secondo il quale “non è…ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi”, pur con la precisazione, e la limitazione, secondo la quale “il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero sui basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi aver riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico”.
L’affermazione del principio di diritto sopra richiamato, tanto più significativo della volontà della Corte di Cassazione di operare un intervento nomofilattico ‘forte’ ove si consideri che l’enunciazione del medesimo è avvenuta ex art. 363, penult. co. c.p.c. (e sulla premessa dell’applicabilità della regola in esso racchiusa “anche in relazione a inammissibilità di un singolo motivo di ricorso che involga una questione di particolare importanza, ancorché il ricorso debba nel suo complesso essere rigettato” ), poteva dirsi, per certi versi, prevedibile . In questo senso, è sufficiente considerare l’illustrazione dell’evoluzione del panorama normativo che la stessa sentenza delle Sezioni Unite efficacemente tratteggia, nel solco non solo della relazione predisposta dall’ufficio del massimario e della medesima ordinanza di rimessione, ma anche della recente sentenza della I sezione civile della medesima Suprema Corte, la quale aveva vagliato la compatibilità con l’ordine pubblico italiano delle misure di astreintes previste in altri ordinamenti : e si tratta di un’evoluzione che deponeva in senso sufficientemente univoco per il superamento della concezione monofunzionale della responsabilità civile.
Non si trattava, tuttavia, di un risultato scontato: e, per rendersene conto, basta considerare la posizione esposta, sull’argomento delle funzioni della responsabilità civile, nel recentissimo contributo di uno degli studiosi, Pietro Trimarchi, che, nella dottrina civilistica italiana, hanno maggiormente contribuito al rinnovamento della sistemazione teorica dell’istituto aquiliano nella seconda metà del secolo scorso. Si legge, infatti, in quell’opera - e pur nel quadro di una ricostruzione comunque aperta alle prospettive di una concezione polifunzionale della responsabilità civile, qual è certamente quella che muova dalla presa d’atto che “nessuna delle due funzioni, quella preventiva e quella reintegrativa, è sufficiente da sola a spiegare il meccanismo della responsabilità” - che “una regola di responsabilità punitiva, eccedente la misura del danno cagionato, aprirebbe la strada a valutazioni non controllabili oggettivamente e normalmente il fatto che il danno non si sia verificato o abbia avuto una misura ridotta costituisce una buona ragione per ritenere che colpa, nelle circostanze concrete, non vi sia stata o non sia stata così grave”. Ed il corollario che se ne trae, proprio con riferimento alla questione della possibilità di accreditare nel nostro sistema la categoria dei danni punitivi, è che “nel diritto italiano la responsabilità da atto illecito non prevede l’imposizione del pagamento di somme di danaro in mancanza di danno ed in funzione puramente punitiva”, relegandosi così al rango di mere eccezioni alla regola generale appena richiamata le ipotesi normative nelle quali la condanna dell’autore di un comportamento lesivo al pagamento di una somma di denaro prescinde dalla rilevazione di una corrispondente perdita nel patrimonio della vittima .
Ancora più severa è, del resto, ancora più di recente, la posizione di un altro Autore, il quale ha affermato senza esitazioni l’estraneità della funzione punitiva al sistema stesso del diritto privato, affermando che “la responsabilità civile si è inoltrata nella modernità come istituto tipico di diritto privato, atto cioè a soddisfare interessi privati di natura patrimoniale nel segno di ciò che, costituendo obbligazione, di questa deve esibire tutte le caratteristiche, in particolare quella che attiene alla causa dell’attribuzione patrimoniale come ragione sufficiente in grado di giustificare il sorgere stesso dell’obbligazione” .
La sentenza delle Sezioni Unite si conferma, dunque, di particolare rilievo anche da questo angolo visuale e pure per quel che concerne il problema specificamente oggetto di questo scritto: essa coglie in pieno, infatti, ed in maniera rigorosamente argomentata, proprio perché attenta all’evoluzione del sistema normativo nel suo complesso, le linee dello sviluppo culturale – ormai risalente nel tempo, del resto - che aveva condotto ad accreditare la tesi di una possibile funzione (anche) sanzionatoria della condanna adottata sulla base dell’art. 2043 c.c. , così superando anche le posizioni culturali – autorevoli, ma attestate su una lettura dell’istituto aquiliano forse troppo ripiegata sul passato – delle quali si è appena riferito.
D’altra parte, l’affermazione della pluralità di funzioni della responsabilità civile sembra essere ormai entrata pienamente a far parte del patrimonio degli orientamenti consolidati della Corte di Cassazione: ed infatti la stessa è stata ribadita, più di recente, nel contesto argomentativo delle decisioni delle Sezioni Unite sulla questione della compensatio lucri cum damno . Ed è significativo dell’ormai largo accreditamento nelle argomentazioni della giurisprudenza anche di merito, e pure nell’ambito del diritto del lavoro, dell’idea della polifunzionalità della responsabilità civile quanto si legge, da ultimo, in un’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità dell’art. 3, 1° e 2° co. del D. Lgs. n. 23 del 2015 : dove, appunto, l’idoneità della condanna risarcitoria a realizzare, accanto ad una funzione compensativa, anche quella di deterrenza e sanzionatoria (idoneità che, secondo il provvedimento qui richiamato, sarebbe oggetto, nel sistema del diritto del lavoro, di “una imposizione a livello di valori costituzionali e sovranazionali”) viene posta a base del dubbio di legittimità costituzionale della norma richiamata, nella misura in cui quest’ultima – secondo l’interpretazione allo stato accreditata – non sarebbe idonea ad assicurare una tutela adeguata, in ipotesi pure attraverso la reintegra nel posto di lavoro, degli interessi anche solo patrimoniali riferibili alla persona del lavoratore.
Si può pertanto osservare, dopo un arco temporale sufficientemente lungo dalla pronuncia di quella decisione, che il principio enunciato dalle Sezioni Unite del 2017 in materia di delibabilità della sentenza straniera recante condanna per un titolo di risarcimento punitivo, se non è stato inteso, correttamente, nel senso di un’introduzione generalizzata, ed in via giudiziale, della categoria dei danni punitivi nel nostro sistema normativo , ha comunque concorso ad accrescere la consapevolezza critica del civilista, così come del lavorista, verso la densità funzionale, per così dire, della condanna risarcitoria. Del resto, la sentenza delle Sezioni Unite, pur certamente innovativa, nei termini dei quali si è già riferito, sotto il profilo della rilevazione della polifunzionalità della responsabilità civile, si muove secondo linee di particolare prudenza, laddove sottolinea, anche nella prospettiva dell’applicazione alla materia dei principi costituzionali dei quali si è già detto, che l’approdo ad una concezione polifunzionale della responsabilità civile non fa sì che “l’istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza e che questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati” .

3. Se quello fin qui descritto, sia pure in via di estrema sintesi, è il contesto ordinamentale nazionale, non sembra – e per tornare a questo punto alle prospettive di sviluppo di un diritto della responsabilità civile eurounitario – che, su questo piano, vi siano punti di emersione appena significativi di un’apertura verso una funzione (quanto meno anche) sanzionatoria della responsabilità civile.
Basti considerare, per cominciare, la soluzione adottata dalla Dir. 2014/104/UE, in materia di risarcimento del danno per violazione della disciplina antitrust, la quale, ancorché in un contesto mirante a rafforzare i rimedi di private enforcement, esclude univocamente ogni forma di overcompensation; nello stesso senso, inevitabilmente, si è orientata anche la normativa di attuazione nazionale, come è dimostrato dal tenore dell’art. 14, co. 1° D. Lgs. n. 3/2017, secondo il quale il risarcimento del danno deve essere determinato “secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 del codice civile” .
Nel medesimo ordine di idee deve essere apprezzato il testo della Dir. (UE) 2020/1828, relativa alle azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori, che, al considerando 42, esclude la possibilità di imporre risarcimenti a carattere punitivo nei confronti del professionista, che abbia commesso la violazione a norma del diritto nazionale: ed ovviamente anche la disciplina nazionale di attuazione, nella pur ampia definizione dei provvedimenti compensativi contenuta all’art. 140 – ter, 1° co. lett. h) , non contempla in alcun modo provvedimenti ai quali possa attribuirsi una funzione anche solo indirettamente sanzionatoria.
L’idea che la condanna risarcitoria presupponga comunque la possibilità di rilevare una perdita – anche in questo modo determinandosi una divaricazione dal modello del risarcimento come sanzione - emerge, del resto, anche dalla recentissima decisione della Corte di Giustizia, già menzionata, nel giudizio C- 300/21. La soluzione che la Corte di Giustizia dà alla prima questione sottopostale - e cioè “se ai fini del riconoscimento di un risarcimento ai sensi dell’art. 82 Rgpd… occorra, oltre a una violazione delle disposizioni del Rgpd, che il ricorrente abbia patito un danno, o se sia già di per sé sufficiente la violazione di disposizioni del Rgpd per ottenere un risarcimento” – muove dalla premessa, richiamata come oggetto di un’interpretazione consolidata e coerente anche con l’impostazione metodologica poc’anzi illustrata, volta alla creazione di un sistema eurounitario del diritto della responsabilità civile, secondo la quale “i termini di una disposizione del diritto dell’Unione, la quale non contenga alcun rinvio espresso al diritto degli Stati membri al fine di determinare il suo significato e la sua portata, devono di norma dar luogo, in tutta l’Unione, ad un’interpretazione autonoma ed uniforme”. Ne discende il corollario che, in assenza di rinvii da parte del Rgpd al diritto degli Stati membri per quanto attiene al significato ed alla portata dell’art. 82, in particolare per quanto riguarda le nozioni di “danno materiale o immateriale” e di “risarcimento del danno”, questi termini “devono essere considerati, ai fini dell’applicazione di detto regolamento, come nozioni autonome del diritto dell’Unione, che devono essere interpretate in modo uniforme in tutti gli Stati membri”.
Nel solco di queste coordinate, gli argomenti che la Corte propone si sviluppano tutti all’interno del contesto normativo del Regolamento; sembra, dunque, condivisa dalla decisione l’impostazione metodologica che considera il danno come una figura normativa, in quanto tale suscettibile di essere ricostruita solo sulla base dei dati desumibili dal dato positivo di riferimento e, dunque, senza cedere a suggestioni di teoria generale che rischino di elidere il significato qualificatorio della disciplina normativa . In questa prospettiva, e dal punto di vista del tenore letterale dell’art. 82, si sottolinea da parte della sentenza che esso, laddove individua tre presupposti per accordare il risarcimento (e cioè una violazione delle disposizioni del Regolamento, il nesso di causalità tra la stessa ed il danno, nonché il danno in quanto tale) esclude che la mera violazione possa essere fonte dell’obbligo risarcitorio, risultando diversamente superflua la menzione distinta dei termini di violazione e di danno . Questa lettura della disposizione risulta, poi, confermata – prosegue la Corte – dal contesto nel quale la stessa si inserisce e che vede ribadita, al par. 2 dell’art. 82, la necessità della sussistenza dei tre, distinti presupposti sopra richiamati per dare ingresso al rimedio risarcitorio. Su un piano che si potrebbe definire sistematico, ancora, accredita l’assunto che la mera violazione delle disposizioni del Regolamento non è sufficiente a fondare l’obbligo risarcitorio l’esistenza di ulteriori tecniche rimediali, che, invece, non richiedono la sussistenza di un danno per essere esperite: dai ricorsi cui hanno riguardo gli artt. 77 e 78 alle sanzioni previste dagli artt. 83 e 84 che, come precisa la Corte, hanno una finalità punitiva e prescindono completamente da un danno in ipotesi patito dalla vittima della violazione .
Si può, dunque, dire che, secondo la costruzione della Corte, la nozione di danno sottesa al sistema eurounitario della responsabilità civile per violazione delle disposizioni del Rgpd rimanda senz’altro all’idea di una perdita, sia pure in ipotesi immateriale, come innesco necessario del processo che conduce all’attribuzione del risarcimento: in termini tanto più significativi, ove si consideri che i pregiudizi derivanti dalla infrazione delle disposizioni in materia sono assai spesso difficilmente apprezzabili nella loro consistenza . In questo quadro, l’affermazione, da parte della sentenza, della necessità di tenere ferma la distinzione tra lesione e danno finisce probabilmente per ridimensionare la concreta portata della risposta data dalla Corte alla terza questione, relativa alla compatibilità dell’art. 82, co. 1 del Rgpd con “una norma o una prassi nazionale che subordina il risarcimento di un danno immateriale, ai sensi di tale disposizione, alla condizione che il danno subìto dall’interessato abbia raggiunto un certo grado di gravità”, risposta che esclude appunto la necessità, per dare ingresso al risarcimento del danno non patrimoniale da violazione della disciplina in materia di protezione dei dati personali che il danno abbia raggiunto una determinata soglia di gravità.
Dal punto di vista appena esaminato, dunque, si può rilevare una sostanziale coincidenza tra gli indirizzi interpretativi in prevalenza accreditatisi nel nostro sistema normativo con riferimento all’assetto previgente, e cioè quello disciplinato dall’art. 15 del D. Lgs. 196/2003, e la costruzione messa a punto dalla Corte di Giustizia: la più recente elaborazione giurisprudenziale della Corte di Cassazione è infatti costante nel ritenere che, in caso di illecito trattamento dei dati personali, il danno non patrimoniale subito dalla vittima non possa essere considerato in re ipsa, ma debba essere allegato e provato , secondo una linea ricostruttiva che, sia pure con qualche articolazione in più, emerge anche dagli orientamenti dottrinali in argomento .
Su un piano sistematico più generale, poi, l’opzione ricostruttiva accreditata dalla Corte di Giustizia – pur tenendo conto naturalmente di quanto detto poc’anzi circa il fatto che la stessa va inquadrata all’interno del sistema normativo disegnato dal Rgpd e, dunque, non è di per sé riferibile ad altri nuclei di regolazione, in ipotesi caratterizzati da un referente normativo differente – offre anche un argomento di una certa consistenza per superare, forse una volta per tutte, i discorsi imperniati sulla cosiddetta distinzione tra danno evento e danno conseguenza e sulla crisi nella quale essa si troverebbe . Infatti, anche nel sistema del codice civile italiano è dato rinvenire indici normativi che, ancorché con formulazioni differenti rispetto a quelle del Rgpd, appaiono precludere un esito ricostruttivo che ravvisi nella semplice lesione dell’interesse protetto dalla norma il presupposto per il sorgere dell’obbligo risarcitorio.
Si consideri, a questo riguardo, che l’obbligo di risarcire il danno – appunto secondo la formulazione dell’art. 2043 – che grava su chiunque abbia posto in essere un fatto doloso o colposo, produttivo di un danno ingiusto, si ‘lega’, attraverso la norma di rinvio contenuta nell’art. 2056, con il risarcimento del quale si legge all’art. 1223: ne discende il corollario, sul versante della disciplina del danno patrimoniale, che esso è in pieno assoggettato al “principio normativo della riparazione integrale del danno, inteso come equivalenza tra perdita economica subita e quantum risarcitorio”, nel senso che “il danneggiato ha…diritto ad una somma di denaro, calcolata in modo da ‘equivalere’ all’entità della perdita da lui subita”. Da questo angolo visuale, “danno in senso giuridico è, anzitutto, quel tipo di perdita per il quale tale equivalenza sia possibile; e quindi il fatto che determini conseguenze suscettibili di /valutazione economica tipica” .
Naturalmente, in presenza di un danno non patrimoniale, il criterio di valutazione della perdita si modifica, perché difetta la possibilità di fare riferimento immediato ai parametri propri del mercato; e lo stesso principio di riparazione integrale del danno non può certo essere inteso allo stesso modo, calibrandosi semmai, sul versante del danno non patrimoniale, sul principio di effettività, che impone, anche in questo caso, di attribuire al danneggiato tutto quanto sia necessario al fine di porre riparo alla perdita di utilità personali di vita dallo stesso patita .
Tuttavia, se si condividono queste argomentazioni, ed in particolare quella relativa al nesso sistematico, e funzionale, tra art. 2043 ed art. 1223, appare davvero difficile sostenere, come pure è stato da ultimo fatto , che l’art. 2043 detterebbe una norma generale sulla responsabilità civile in grado di bastare a sé stessa e, dunque, non bisognosa della stampella dell’art. 1223 per innescare l’obbligazione risarcitoria: affermazione dalla quale si vorrebbe trarre la conclusione che “la risarcibilità del danno – conseguenza disciplinata dall’art. 1223 c.c. non si sovrappone alla risarcibilità del danno - evento disciplinata dall’art. 2043 c.c., né tanto meno la oblitera, ma la presuppone, e se occorre, la integra” . Questo assunto – che, per quanto concerne il danno patrimoniale, resta confutato dalla mera rilevazione del dato normativo appena richiamato – non risulta persuasivo neppure per il danno non patrimoniale: quest’ultimo si caratterizza certo in termini profondamente diversi rispetto al danno patrimoniale, come è reso evidente, sotto il profilo funzionale, dalla differente curvatura che assume il risarcimento del danno non patrimoniale , ma, nel sistema del codice civile, così come in quello del Rgdp, rimane inscritto in un quadro normativo che distingue, come si è visto, il momento della lesione dell’interesse protetto da quello della perdita che ne possa derivare .
Un altro discorso è, poi, che nella dimostrazione in giudizio dell’esistenza di una perdita non patrimoniale possano entrare in gioco tecniche di agevolazione probatoria, che si basano su indici, come ad esempio quello della particolare gravità della lesione e della condotta che l’ha determinata, che sarebbero del tutto irrilevanti per liquidare un danno patrimoniale: si tratta, appunto, di tecniche per mezzo delle quali si accerta, attraverso un meccanismo logico di inferenza, un fatto (la perdita di utilità personali, latamente intese) che non può, per sua natura, essere dimostrato in maniera diversa.

4. In presenza di un quadro, qual è quello fin qui descritto, che restituisce un’articolazione diversa del discorso sulle funzioni della responsabilità civile, rispettivamente nell’ordinamento giuridico nazionale e nell’ambito diritto eurounitario pure ancora in formazione in questa materia, l’impostazione metodologica dell’opera che ha concorso a dare lo spunto a queste pagine può condurre in effetti a risultati promettenti, laddove individua tre distinte prospettive di analisi: quella del danneggiato, quella della norma primaria e quella del danneggiante.
La prima delle tre prospettive consente di ripercorrere, all’interno dell’opera richiamata l’evoluzione delle vicende che hanno portato a riconoscere tuttora un ruolo centrale alla dimensione della riparazione del danno, nel quadro della gamma delle funzioni ascrivibili alla responsabilità civile; un’istanza riparatoria alla quale non è peraltro estranea, nello sviluppo argomentativo dell’Autore, anche la considerazione, che evoca l’approccio metodologico proprio dell’analisi economica del diritto, e che appare di particolare rilievo nell’ambito della sicurezza del lavoro, secondo la quale la condanna risarcitoria può produrre l’effetto di indurre il potenziale responsabile, prospettandogli il costo del danno, a tenere condotte in grado di evitare il prodursi di danni che sarebbe poi chiamato a riparare.
Risulta, poi, particolarmente originale, in questo ordine di idee, oltre che assai utile anche per la messa a fuoco da parte del civilista del tema della liquidazione del danno, la trattazione che viene dedicata al problema del mobbing. Quest’ultimo, infatti, depurato dalle suggestioni, e forse dagli equivoci, originati dalla peculiare rilevanza assegnata, al fine di integrare la figura, all’elemento soggettivo del dolo, viene ricondotto senz’altro all’area della responsabilità contrattuale ed in particolare da inadempimento dell’obbligazione di protezione sancita dall’art. 2087 c.c.. Dal canto suo, la possibile rilevanza della qualificazione dolosa della condotta rifluisce semmai sul piano della determinazione dell’obbligazione risarcitoria, senza che tuttavia questo incida sulla funzione riparatoria della condanna, posto che – come accade anche all’interno del diritto civile ‘generale’, laddove si discorre di risarcimenti aggravati dalla condotta – l’elemento soggettivo viene in considerazione solo come criterio di personalizzazione nella liquidazione del danno, sulla premessa che una condotta illecita particolarmente riprovevole si risolve anche in una più intensa afflizione per la vittima.
Il secondo angolo visuale – quello della norma primaria e della garanzia della sua effettività nel diritto interno ed in quello eurounitario – mette in campo una nozione originale del concetto di sanzione, imperniato non già sull’idea di una punizione del responsabile, bensì, ed appunto, su quello della predisposizione di uno strumento utile a presidiare un comando che, in questo modo, può rinvenire nel rimedio il proprio necessario completamento. Di qui, sul filo di un’approfondita e raffinata analisi della giurisprudenza costituzionale, l’indicazione dei caratteri che deve esibire il risarcimento per poter garantire l’effettività del precetto normativo, che si tratti della materia del licenziamento ingiustificato o di quella dell’abusiva reiterazione dei contratti a termine: e cioè l’adeguatezza, in termini assoluti e relativi, l’accessibilità per chi abbia subito la perdita ed infine l’essere il risarcimento equilibrato e coerente rispetto ai rimedi previsti per lesioni di analoga gravità. E di qui, ancora, la rilevazione degli spunti offerti dalla giurisprudenza comunitaria, sul versante della necessità, per il legislatore nazionale, di rispettare il principio dell’equivalenza dei rimedi: ciò che dischiude la strada ad un ruolo significativo per la modulazione economica della tutela, che è appunto in grado di riequilibrare tecniche di protezione destinate diversamente a restare divaricate, come accade in particolare per quella – necessariamente solo risarcitoria – riferita al caso di abusiva reiterazione dei contratti a termine nel settore del lavoro pubblico.
La terza linea ricostruttiva è quella che riguarda invece la posizione del danneggiante, portando così l’analisi sulla funzione deterrente della responsabilità civile e sui differenti risultati che la stessa può in effetti perseguire, tra punizione, dissuasione ed adempimento, come esplicita subito l’Autore. Qui l’aspetto di maggiore interesse dell’indagine è senz’altro la cautela, se non senz’altro la perplessità, che Marco Biasi manifesta nei confronti di (probabilmente troppo facili) scorciatoie verso l’accreditamento della categoria dei danni punitivi come rimedio suscettibile di offrire una risposta adeguata, in termini di effettività della tutela, nel settore del diritto del lavoro; ed in questa prospettiva appare di particolare interesse anche l’argomentazione comparatistica utilizzata da Biasi. Infatti, osserva l’Autore, nell’ambito – comunque, e com’è noto, fortemente articolato al proprio interno anche in relazione alla presenza delle legislazioni dei singoli Stati – dell’ordinamento giuridico statunitense, l’impiego dell’istituto dei danni punitivi è avvenuto nel contesto di un fenomeno di traslazione nell’area del tort della responsabilità datoriale: fenomeno del quale non sussistono invece i presupposti nel sistema italiano, dove anche il danno non patrimoniale contrattuale trova ormai ampio riconoscimento di risarcibilità. Non vi sarebbe, dunque, ragione, nella nostra esperienza giuridica, e per quel che concerne appunto l’area del diritto del lavoro, per forzare il principio (desunto anche dalla regola generale secondo la quale ogni attribuzione patrimoniale postula una giustificazione) che esclude la possibilità che il danneggiato si arricchisca per effetto della condanna al risarcimento del danno del responsabile di esso.
Al tempo stesso, osserva Biasi, occorre scongiurare l’esito che l’autore di un illecito possa trarre vantaggio dalla commissione di esso, soprattutto quando si tratti di un illecito di natura contrattuale (se non altro perché in effetti, in questo caso, la considerazione è nostra, si viola una regola di condotta discendente da uno specifico progetto di cooperazione tra le parti). In questo ordine di idee, l’Autore propone - sulla base di uno sviluppo argomentativo di particolare interesse – un modello di sanzione civile che, nella forma del danno normativo o in re ipsa, permetta alla vittima dell’inadempimento di essere esonerato dalla dimostrazione, spesso ardua, del danno subito, al tempo stesso dispiegando un effetto deterrente sul responsabile della violazione; effetto deterrente che, a sua volta, presuppone la possibilità di conoscere ex ante, nei suoi esatti contorni, il contenuto della regola in ipotesi violata, oltre che il costo discendente dalla violazione stessa. Si tratta di una prospettiva che si apprezza, innanzi tutto, sul piano sistematico, perché attenta a quella funzione deterrente/dissuasiva della condanna risarcitoria che anche da ultimo ha trovato eco nella giurisprudenza della Corte Costituzionale: il riferimento è, ovviamente, alla ancora recentissima sentenza n. 183/2022, sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1° decr. lgs. 23/15, nella quale la Corte ha posto, tra l’altro, l’accento sull’esigenza di adeguare l’importo della condanna risarcitoria del datore di lavoro in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese alla specificità di ogni singola vicenda, “nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio”. Ed è anche una prospettiva in grado di condurre ad un più persuasivo inquadramento di questioni che faticavano a trovarlo sulla base dello strumentario argomentativo fin qui utilizzato dagli interpreti, prefigurando i contorni di un’adeguata sanzione civile di alcuni diritti dei lavoratori di particolare rilievo anche dal punto di vista del referente normativo costituzionale degli stessi (il diritto al salario minimo, il diritto al riposo).
E’ forse proprio attraverso la prospettiva da ultimo illustrata che potrebbe essere superata la divaricazione che, allo stato, sembra delinearsi tra la linea di sviluppo del diritto italiano, più aperta verso la prospettiva dei risarcimenti punitivi, sia pure entro i limiti delineati dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite più volte richiamata, e quella che emerge dal diritto eurounitario della responsabilità civile.

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