TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Questa volta la Commissione europea, nel promuovere la definizione legislativa di un tassello essenziale del Pilastro sociale europeo (iniziativa già promessa nell’European Pillar of social rights Action Plan del 4.3.2021), sembra essere partita con il piede giusto, senza incorrere- come nel caso della proposta sul salario minimo legale- in quei problemi di competenza ed attribuzione che stanno creando seri ostacoli al tentativo di attribuire ad ogni lavoratore europeo una retribuzione “ minima” decente, pur promessa nel Pillar all’art. 6 . Nel caso della proposta del 9.12.2021 “relativa al miglioramento delle condizioni del lavoro che si svolge attraverso piattaforme digitale” la “doppia” base giuridica prescelta e cioè l’art. 153 lettera b) (sostegno e miglioramento dell’azione degli Stati membri per quanto riguarda le condizioni di lavoro) TFUE e l’art. 16 TFUE sulla protezione dei dati personali (che replica l’art. 8 della Carta dei diritti elaborato nella prima Convenzione da Stefano Rodotà) che autorizza l’adozione, con la procedura ordinaria, di norme in questa materia anche riguardo l’attività degli Stati che rientrano nel campo di applicazione del diritto dell’Unione (che comunque già presidia a vasto raggio questo terreno con il Regolamento GDPR n. 679 del 2016) sembra del tutto coerente con il contenuto del provvedimento. La proposta, nelle sue premesse, cita anche (p. 15) i pertinenti articoli della Carta dei diritti: rispettivamente l’art. 31 sulle condizioni di lavoro eque e giuste (che ormai la Corte di giustizia utilizza come norma “interpretativa” di chiusura sul capitolo sociale dell’Unione), il già ricordato art. 8 sulla protezione dei dati personali, l’art. 16 sulla libertà di impresa ed infine l’art. 27 sul diritto di informazione e di consultazione sui luoghi di lavoro. Tra questi diritti, in particolare tra la libertà di impresa e gli altri tre, seguendo i criteri offerti dalla stessa Carta nelle sue clausole orizzontali, la Direttiva dovrebbe bilanciare pretese ed obblighi delle parti coinvolte. Anche la proposta di Direttiva sul salario minimo richiama l’art. 153 lettera b) ma che vi sia un punto di frizione con il tabù stabilito al quinto comma che proibisce l’adozione di prescrizioni minime in tema di retribuzioni (con la specifica procedura introdotta dall’articolo citato) è innegabile e tale contrasto è stata la bandiera per la fiera opposizione dei paesi nordici al varo della Direttiva. L’argomento della Commissione secondo cui la Direttiva non contiene, però, misure che hanno un'incidenza diretta sul livello delle retribuzioni (tesi avallata dai servizi giuridici dell’organo sovranazionale) e che, quindi, non rientra nel divieto non è parsa completamente convincente, posto che lo scopo prioritario della Direttiva dovrebbe essere proprio quello di interferire con il livello attuale delle retribuzioni minime e che la procedura prescelta rimane quella fissata dall’art. 153 , in quanto connessa strettamente al dialogo sociale europeo, sebbene si fosse in passato anche ipotizzato di intervenire utilizzando altre basi giuridiche (come quelle sul mercato comune o con la clausola di salvaguardia). Attualmente, dopo la proposta molto riduttiva del Consiglio (che - se leggiamo bene- finisce con il considerare “volontari” gran parte degli obblighi che riguardano il livello del salario fissati dalla Direttiva), la questione è sottoposta ai cosidetti triloghi (condotti sotto guida della Presidenza francese), nel corso dei quali il Parlamento europeo dovrebbe cercare di avversare il tentativo di “ normalizzazione” del Consiglio. L’impressione è che l’opposizione di molti governi (tra i quali ora figura implicitamente anche quello italiano, dopo la caduta del Conte bis, certamente molto freddo sull’ipotesi di un salario minimo europeo, soprattutto se si riuscisse a recuperare una qualche incidenza degli indicatori internazionali nella sua misurazione), la poca determinazione sul punto del sindacato europeo, l’assoluta indisponibilità delle parti datoriali, ed infine una certa incertezza e talvolta la netta contrarietà della dottrina, anche degli studiosi pro-labour più attenti alla sfera europea , stiano portando ad un sostanziale stemperamento dell’intervento sovranazionale. Un debolissimo e quasi-simbolico intervento che per gli stati che determinano i minimi retributivi attraverso la contrattazione collettiva finirebbe per avallare la via negoziale senza nessuna prova di resistenza sulla “ dignità” delle retribuzioni così stabilite e per porre- al più- qualche obbligo a carico degli stati che il salario minimo legale lo hanno davvero senza deleghe alle parti sociali. L’effetto di una simile Direttiva sarebbe paradossale “ santificando” l’operato dei maggiori sindacati anche in paesi, come il nostro, dove il problema di “retribuzioni indegne” sorge proprio da contratti al di sotto dei parametri internazionali stipulati non solo da organizzazioni di comodo ma anche, talvolta, da quelle maggiori, a carattere confederale.
Sembra in controluce in questa proposta sulle piattaforme doversi leggere una certa “saggezza” che spinge l’esecutivo europeo a non immettersi in un nuovo cul de sac fornendo poche regole lavoristiche che, dopo anni di confronto e dibattito (anche giurisprudenziale) tanto acceso quanto approfondito, sembrano difficilmente rifiutabili completando i segnali che i Tribunali di mezz’Europa hanno già fornito. La Commissione prudentemente aggancia questa proposta di Direttiva a quella sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili ( la n. 1152/del 2019 di cui è ancora pendente il termine per la trasposizione) presentandola come un suo completamento per lo specifico settore del lavoro su piattaforma: ricorda la Commissione ( pag. 5) che “la Direttiva relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili, prevede misure volte a proteggere le condizioni di lavoro delle persone che lavorano con rapporti di lavoro non standard. Sono incluse norme in materia di trasparenza, diritto all'informazione, periodi di prova, lavoro in parallelo, prevedibilità minima del lavoro e misure per i contratti a chiamata. Tali norme minime sono particolarmente pertinenti per le persone che lavorano mediante piattaforme digitali, data la loro organizzazione e i loro modelli di lavoro atipici. Anche se la Direttiva garantisce la trasparenza sulle condizioni di lavoro di base, l'obbligo di informazione per i datori di lavoro non si estende all'uso degli algoritmi nell'ambiente di lavoro e al modo in cui essi incidono sui singoli lavoratori”. Per la parte, forse la più incisiva, che riguarda le garanzie (procedurali e sostanziali) di coloro che operano attraverso le piattaforme a non subire passivamente decisioni negative adottate da algoritmi sulla base di abusivi trattamenti di dati sensibili, la Commissione si appoggia invece sul regolamento GDPR (2016/679) e richiama la proposta sull’Intelligenza artificiale ancora in fase di approvazione . La Commissione in sostanza mette gli attori del processo legislativo europeo di fronte a scelte che hanno già compiuto per la trasparenza dei rapporti di lavoro o per il rispetto dei diritti fondamentali su Internet. E’ vero che la proposta va ben oltre quanto dicano le due Direttive citate ma la correlazione “estensiva” sembra davvero plausibile e fondata sulle vicende degli ultimi anni di mobilitazioni, giudiziarie e non, dei settori più esposti del platform work nei vari paesi dell’Unione (a cominciare dai riders) nei quali in nessun caso la protezione è stata spontanea e raggiunta agilmente in via sindacale. Sarà difficile per lobbies, Stati liberisti, ambienti accademici restii pregiudizialmente a voler disciplinare le nuove praterie di Internet trovare argomenti per resistere o indebolire questa traccia regolativa (che replica a livello europeo i suggerimenti di alcuni paesi come la Spagna) .

2. Gli indici presuntivi di subordinazione: una rivoluzione o un adattamento alla giurisprudenza europea?

Ci pare difficilmente contestabile quanto si dice nelle premesse della proposta la Commissione: “ vi sono tuttavia anche molte persone che si trovano in una situazione di subordinazione rispetto alle piattaforme di lavoro digitali mediante le quali operano e sono oggetto di vari livelli di controllo da parte di queste ultime, ad esempio per quanto riguarda i livelli salariali o le condizioni di lavoro. Secondo una stima, fino a cinque milioni e mezzo di persone che lavorano mediante piattaforme di lavoro digitali potrebbero essere a rischio di errata classificazione della situazione occupazionale . Queste persone sono particolarmente esposte al rischio di cattive condizioni di lavoro e accesso inadeguato alla protezione sociale. A causa dell'errata classificazione, non possono godere dei diritti e delle tutele cui hanno diritto in quanto lavoratori subordinati. Tali diritti comprendono il diritto a un salario minimo, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la protezione della salute e della sicurezza sul lavoro, la parità di retribuzione tra uomini e donne e il diritto a ferie retribuite, nonché un migliore accesso alla protezione sociale contro gli infortuni sul lavoro, la disoccupazione, la malattia e la vecchiaia”.
Sembra ovvio che quanto indicato si riferisca in primis a quei settori nei quali l’intermediazione delle piattaforme conduce a prestazioni che si svolgono almeno in parte offline, ai moto fattorini o ciclo fattorini del food delivery o ai drivers di Uber o ad operatori consimili per i quali l’attività in concreto - a parte il reclutamento via piattaforma- è pressoché identica ai cugini dipendenti del terziario, che spesso, ma non sempre hanno vittoriosamente condotto battaglie legali per godere dei fundamental social rights loro negati e che in alcuni paesi (come oggi in Italia) beneficiano di una normativa ad hoc intermedia tra dipendenza ed autonomia. Ma le ambizioni della Commissione trascendono, e di molto, questo settore per intervenire- vedremo come e con che limiti- in una platea ben più vasta che coinvolge tutte le piattaforme anche quelle molto raramente investite da conflitti e da rivendicazioni i cui circuiti lavorativi iniziano e terminano in rete (crowd work, cloud work etc.), sono interamente virtuali senza contaminazioni con il mondo fisico e sporco del trasporto su strada; non si tratta di una proposta di Direttiva sui riders , ma di disciplina di un fenomeno molto più vasto in enorme espansione che secondo la C.E. in pochi anni dovrebbe passare dagli attuali 28 milioni a ben 43 e che sembrerebbe avere nel suo complesso un rapporto più costruttivo ed elaborato con le nuove tecnologie rispetto al semplice food delivery . Come ricorda Stefano Giubboni “nel proporre questa visione sincretica del lavoro tramite piattaforma, l’iniziativa della Commissione appare innovativa, essendo noto come, non soltanto nel mondo accademico, tenda a prevalere una differenziazione piuttosto marcata, sia nelle analisi che nelle proposte regolative, a seconda che il lavoro si svolga almeno in parte in siti fisici reali oppure interamente nella dimensione virtuale di Internet. In questo secondo caso, considerate le modalità di svolgimento della prestazione si tende infatti ad escludere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, sia pure di natura occasionale” .
La via percorsa dalla Commissione è, come già detto, innanzitutto quella di rendere più facilmente percorribile da parte dei lavoratori delle piattaforme l’accesso ad una corretta qualificazione del rapporto, resa ovviamente più ardua, come dimostra l’enorme contenzioso in tutti i paesi europei non risolta ovunque in modo univoco, per le modalità inedite con cui viene svolto il rapporto che sfidano le tradizionali griglie di inquadramento contrattuale . La Commissione recepisce così le indicazioni del sindacato sovranazionale favorevole all’introduzione di una presunzione relativa che non riguarda, però, sempre e comunque chi presta la sua attività lavorativa attraverso una piattaforma ma solo quando si integrano almeno 2 dei 5 indici indicati all’art. 4, baricentro dell’ipotesi regolativa sovranazionale. Ricordiamoli: a) determinazione effettiva del livello della retribuzione o fissazione dei limiti massimi per tale livello; b) obbligo, per la persona che svolge un lavoro mediante piattaforme digitali, di rispettare regole vincolanti specifiche per quanto riguarda l'aspetto esteriore, il comportamento nei confronti del destinatario del servizio o l'esecuzione del lavoro; c) supervisione dell'esecuzione del lavoro o verifica della qualità dei risultati del lavoro, anche con mezzi elettronici; d) effettiva limitazione, anche mediante sanzioni, della libertà di organizzare il proprio lavoro, in particolare della facoltà di scegliere l'orario di lavoro o i periodi di assenza, di accettare o rifiutare incarichi o di ricorrere a subappaltatori o sostituti; e) effettiva limitazione della possibilità di costruire una propria clientela o di svolgere lavori per terzi”.
Si tratta di un insieme di indici (o forse di valutazioni sintetiche di natura equitativa ) seguiti in moltissimi stati dell’Unione ed indicati dalla dottrina come tratti significativi della subordinazione, soprattutto in questa fase di transizione e quindi di incerta classificazione rispetto al secco elemento dell’etero direzione della prestazione collegata ad orari e luoghi stabiliti dal datore di lavoro. Apparentemente sembrerebbe nihil novi sub sole, in quanto si tratta di elementi che ricorrono nella giurisprudenza europea degli stati e della Corte di giustizia; gli elementi di novità riguardano non solo l’opzione presuntiva (che fra l’altro presenta il vantaggio di non dire nulla sul piano retributivo agendo solo sulla qualificazione del rapporto e quindi evitando l’ostacolo del tabù di cui all’art. 153 comma cinque già ricordato) che è raramente percorsa dalle legislazioni nazionali, ma anche l’avere accostato elementi che sono molto vicini al concetto di “etero direzione” come la “supervisione dell’esecuzione del lavoro” (che sembra trascendere di molto il mero coordinamento dell’attività) con altri “del tutto estrinseci al contenuto della preazione e al potere di dirigerne e conformarne modo, tempo e luogo”. Alcuni indici diventano così significativi al pari del meta-criterio - almeno per la dogmatica italiana- caratterizzante l’essenza del lavoro subordinato e cioè che la prestazione sia diretta e conformata dal datore di lavoro o da un suo delegato. Anche se l’art. 4 parla di indici di un “controllo sull’ esecuzione di lavoro” in realtà si tratta di circostanze che spesso sono estranee a questo profilo attenendo anche alla situazione personale ed esistenziale del lavoratore, al suo rapporto con il mercato etc. Pertanto la Direttiva non supera la definizione di lavoro dipendente che ci offrono le fonti internazionali ma tende a superarne la rigidità ed il dogmatismo oggi in sofferenza per via innanzitutto delle rivoluzione digitale, richiamando in sostanza quella che è stata chiamata la nozione comunitaria di subordinazione più duttile, inclusiva, che tenta una rimodulazione razionale e equitativa delle griglie di stampo ottocentesco e militarista  della “dipendenza” attraverso l’opera della Corte di giustizia meno sensibile ai dogmi dottrinari accademici  e disponibile a mixare gli aspetti “economico-esistenziali” del rapporto con quelli più direttamente concernenti le modalità di esecuzione della prestazione. Non si rompe con la tradizione e le fonti internazionali ma le operazioni di classificazione sono più morbide ed accoglienti. La proposta della Commissione è stata in genere bene accolta dagli studiosi pro-labour: si è sottolineato il fatto storico per cui oggi l’esecutivo U.E. avanza una proposta regolativa superando una lunga fase di attenzione al fenomeno delle piattaforme di lavoro, inaugurata dalla Comunicazione del Giugno del 2016 sulla sharing economy (che già ribadiva che per i dipendenti del settore vale il cosidetto capitolo sociale dell’Unione) ma astensionistica nei fatti. Efficacemente si è quindi dipinto questo passaggio come “from laisser- faire to fairness”; si è ancora sottolineato che la Commissione europea avrebbe preso il comando nella regolazione del lavoro su piattaforma  rafforzando la riconducibilità di alcune figure nell’alveo del lavoro subordinato ed offrendo nuovi diritti rispetto al pluspotere delle piattaforme e delle decisioni impersonali algoritmiche. Una kehre, dopo un complesso ascolto della società europea, è innegabile, anche se sotto il profilo strettamente lavostistico non ci sembra che si possa affermare che la scelta, in realtà come si è detto molto pragmatica, della Commissione sia quella di imporre una nuova super-nozione di subordinazione slegata dall’eterodirezione della prestazione, ed incentrata o sulla “dipendenza economica” o ancora l’ “eterorganizzazione” di questa, come si evince dai numerosi passaggi della proposta in cui si ribadisce che la nozione di subordinazione pertinente sia quella offerta dagli stati membri, sia pure tenuto conto della giurisprudenza della Corte di giustizia ( cfr. l’art. 1 comma 2 della proposta), e da una lettura complessiva dei 5 criteri prima ricordati. Molti operatori tramite piattaforme rimarranno con la loro qualificazione giuridica nonostante le più accessibili e sperimentabili procedure di verifica anche amministrativa , continuerà a declinare l’attitudine del concetto di “dipendenza” ad unificare sotto di sé la sempre più vasta fenomenologia di persone per le quali il rapporto con le nuove tecnologie sperimenta modalità produttive originali e creative (con ampi margini di libertà) che eccedono l’irrigimentazione e la gerarchia tipica (anche se in certi casi oggi addolcita ) del lavoro subordinato come “male comune” della modernità . Come Giudice ho sempre avuto qualche dubbio che, per le prestazioni di lavoro su piattaforma, si potesse prescindere dalla prevalente mancanza di obbligatorietà delle prestazioni, né mi pare molto convincente la tesi per cui comunque sarebbe sufficiente la continuità dell’interesse organizzativo aziendale a ricevere tali prestazioni in quanto mancherebbe comunque un obbligo frutto di accordo tra le parti. Tuttavia da Giudice non posso rimanere estraneo alle tante giurisprudenze nazionali (anche in paesi chiave dell’Unione) che hanno ricondotto riders o autisti nell’ambito della dipendenza onde attribuire loro le tutele minime, così da Giudice comune, organo di base del sistema multilivello europeo, non posso rimanere estraneo alla decisione dell’esecutivo dell’Unione di recepire questo orientamento e le richieste del sindacato sovranazionale trovando dei canali più facili e garantiti per una qualificazione giuridica che porti chi è più debole nel pianeta delle tutele. Si tratta di situazioni molto difficili e sottoprotette di attività lavorativa, di grave allarme sociale, per le quali la nozione di dipendenza della Corte di giustizia forse consentirà di arrivare ad un equo trattamento. Ma in prospettiva, per i settori che rimarranno,invece, governati dalle scarne disposizioni degli stati membri sul lavoro autonomo o nei quali non operano i regimi speciali intermedi adottati da alcuni paesi, l’esclusione di questi operatori, soprattutto se utilizzati in via continuativa, dalle protezioni lavoristiche e di welfare basiche non può che rimanere problematica ed ingiusta . Salvo quel che si ricorderà più avanti circa i diritti alla trasparenza “algoritmica” ed ad una procedura di confronto con chi gestisce le piattaforme che riguardano tutti i lavoratori (diritti che, se valorizzati adeguatamente, potrebbero portare ad un “recupero” contenutistico di alcune tutele soprattutto di natura antidiscriminatoria anche sulla decisione di esclusione dell’operatore) permane la logica dell’aut-aut: o si è subordinati ed allora si accede al floor of rights sovranazionale o non lo si è ed allora le protezioni “europee” sono solo quelle prima ricordate. Una dicotomia che sembra poco coerente non solo con molte scelte nazionali che offrono, almeno in certi settori come il food delivery o la logistica, alcune protezioni ad hoc ma anche con lo spirito del Pilastro sociale che guarda invece ad una ricomposizione del sistema delle tutele, anche di quelle welfaristiche, in chiave universalistica. Qui però la Commissione tenta un’operazione, sulla quale si dovrà tornare quando le scelte saranno assestate, con una proposta di guidelines in ordine alla legittimità di tutele contrattuali dei lavoratori autonomi in condizioni di debolezza contrattuale che identifica una serie di situazioni nelle quali si legittima una schermatura contrattuale dei lavoratori genuinamente autonomi perché questi, per ragioni soprattutto produttive e/o esistenziali, non potrebbero essere considerati degli “imprenditori” sulla base della nota giurisprudenza della Corte di giustizia ( ). La proposta è attualmente in stato di consultazione con le parti interessate e quindi appare prematuro valutarne l’impatto: ma appare ovvio che proprio nell’ambito del lavoro su piattaforme il numero degli operatori in condizioni di debolezza negoziale, ma difficilmente inquadrabili come subordinati anche sulla base degli indici offerti dalla Commissione, dovrebbe essere importante. Si apre, quindi, ad una contrattazione di settore (che dovrebbe prioritariamente interessare il lavoro su piattaforma) anche se certamente manca ancora un’idea su come si potrebbe favorire e promuovere questo genere di accordi, essendo il dialogo sociale europeo come definito dal capitolo sull’Europa sociale del TFUE limitato ai rapporti di tipo subordinato. Un primo passo significativo ed anche coraggioso visto che la Commissione intende rettificare e collocare sui giusti binari la giurisprudenza della Corte di giustizia.

3. Principi di correttezza e trasparenza nel funzionamento delle piattaforme e controllo sulle decisioni algoritmiche.

Più innovativa ed originale appare la seconda parte della proposta di Direttiva che riguarda direttamente il modo di operare delle piattaforme e che delinea un originale habeas corpus degli operatori ed introducendo forme di responsabilità inedite (accountability) per i gestori delle nuove “ferriere” di Internet.
Sintetizzando al massimo, perché su questo aspetto va ulteriormente approfondito il nesso con gli altri atti dell’Unione in corso di approvazione come la proposta di Direttiva sull’intelligenza artificiale (Com 2021 206 final) e l’insieme di provvedimenti che riguardano o riguarderanno il cosidetto digital compact (tra i quali la prevista Carta dei diritti dei diritti digitali ora all’attenzione del Parlamento e del Consiglio dopo la pubblicazione della bozza della Commissione) il primo insieme di disposizioni ( art. 6) riguarda i doveri di informazione delle piattaforme. L’onere informativo concerne “l'uso e le caratteristiche principali dei sistemi di monitoraggio automatizzati, utilizzati per monitorare, supervisionare o valutare l'esecuzione del lavoro dei lavoratori delle piattaforme digitali con mezzi elettronici, e dei sistemi decisionali automatizzati, utilizzati per prendere o sostenere decisioni che incidono in modo significativo sulle condizioni di lavoro dei lavoratori delle piattaforme digitali. Le informazioni da fornire comprendono le categorie di azioni monitorate, supervisionate e valutate (anche da parte dei clienti) e i principali parametri di cui tali sistemi tengono conto per le decisioni automatizzate. L'articolo 6 specifica in che forma e in quale momento tali informazioni devono essere fornite e che esse dovrebbero essere messe a disposizione, su richiesta, anche delle autorità del lavoro e dei rappresentanti dei lavoratori delle piattaforme digitali; si stabilisce inoltre che le piattaforme di lavoro digitali non devono trattare dati personali relativi ai lavoratori delle piattaforme digitali che non siano intrinsecamente connessi e strettamente necessari all'esecuzione del contratto. Sono compresi i dati sulle conversazioni private, sullo stato di salute, psicologico o emotivo del lavoratore delle piattaforme digitali e qualsiasi dato relativo ai periodi in cui il lavoratore della piattaforma digitale non sta svolgendo un lavoro mediante piattaforme digitali o non si sta offrendo per svolgerlo” ( ). Si tratta di previsioni forse già desumibili dal Regolamento del 2016 ma qui adattate e plasmate sulle caratteristiche anche tecniche del settore che concretizza ulteriormente il contenuto dell’art. 8 della Carta dei diritti e dell’art. 16 TFUE. L’art. 7 invece introduce ulteriori obblighi per le piattaforme che devono “monitorare e valutare periodicamente l'impatto sulle condizioni di lavoro delle decisioni individuali prese o sostenute da sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati. In particolare, le piattaforme di lavoro digitali dovranno valutare i rischi dei sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati per la sicurezza e la salute dei lavoratori delle piattaforme digitali e garantire che tali sistemi non esercitino in alcun modo una pressione indebita sui lavoratori delle piattaforme digitali o mettano altrimenti a rischio la loro salute fisica e mentale. L'articolo 7 stabilisce inoltre la necessità che le piattaforme di lavoro digitali garantiscano risorse umane sufficienti per tale monitoraggio dei sistemi automatizzati. Le persone incaricate del monitoraggio dalla piattaforma di lavoro digitale devono disporre della competenza, della formazione e dell'autorità necessarie per esercitare tale funzione e devono essere protette da conseguenze negative (quali il licenziamento o altre sanzioni) qualora non accolgano decisioni automatizzate.” La norma non specifica espressamente quali possano essere le sanzioni per l’ omesso monitoraggio; introducendo però l’art. 7 un principio di accountability per le conseguenze pregiudizievoli dei sistemi decisionali automatizzati sull’integrità psico- fisica dei lavoratori sembrerebbe che la sanzione sia quella risarcitoria in favore di chi ha subito effetti pregiudizievoli che la norma obbliga a valutare in anticipo con un rodaggio costante,tempestivo e competente . Certamente si apre un nuovo orizzonte, che non sembra avere nessun ancoramento in esperienze nazionali o in orientamenti giurisprudenziali, per la tutela di salute e sicurezza sul lavoro in senso molto ampio che acquisisce una efficacia anticipata e connessa anche alla qualità e competenza del personale dipendente della piattaforma addetto al compito. Ancora cruciale è l’art. 8 sul riesame umano di decisioni significative che stabilisce il diritto dei lavoratori di ottenere dalla piattaforma di lavoro digitale una spiegazione per una decisione presa o sostenuta da sistemi automatizzati che incida significativamente sulle loro condizioni di lavoro: “a tal fine la piattaforma di lavoro digitale deve offrire loro la possibilità di discutere e chiarire i fatti, le circostanze e i motivi di tali decisioni con una persona di contatto presso la piattaforma di lavoro digitale. L'articolo impone inoltre alle piattaforme di lavoro digitali di fornire una motivazione scritta per qualsiasi decisione di limitare, sospendere o chiudere l'account del lavoratore delle piattaforme digitali, di non retribuire il lavoro svolto dal lavoratore delle piattaforme digitali o che incide sulla situazione contrattuale del lavoratore delle piattaforme digitali. Se la spiegazione ottenuta non è soddisfacente o se ritengono che i loro diritti siano stati violati, i lavoratori delle piattaforme digitali hanno anche il diritto di chiedere alla piattaforma di lavoro digitale di riesaminare la decisione e di ottenere una risposta motivata entro una settimana. Le piattaforme di lavoro digitali devono rettificare la decisione senza indugio o, se ciò non è più possibile, fornire una compensazione adeguata, qualora la decisione violi i diritti del lavoratore delle piattaforme digitali”  . Qui sembrano intrecciarsi prerogative procedurali e sostanziali: il meccanismo di dialogo istituito tra gestori umani delle piattaforme e operatori sembra preordinata, facendo emergere alla luce del sole le ragioni dei gestori e quelle delle loro controparti, ad eliminare ogni forma di discriminazione sul lavoro (che guarda all’art. 21 della Carta dei diritti) o ritmi di attività non liberamente accettati o dannosi in sé . Un riferimento esplicito al principio di non discriminazione è offerto dal considerando n. 37 della proposta e confermato dal suo art. 18 che prevede l’adozione di tutte le misure necessarie per vietare il licenziamento o suo equivalente per il fatto che gli operatori abbiano esercitato i diritti previsti dalla Direttiva con una sorta di inversione dell’onere della prova nel caso di allegazioni che possono far presumere che questa sia stata la causa del recesso. Spetta allora alla piattaforma dimostrare l’esistenza di altre legittime ragioni per l’interruzione del rapporto.
Queste norme, come disposto espressamente dall’art. 10, si applicano a tutti coloro che svolgono un “lavoro attraverso piattaforme digitali”, anche quindi senza un rapporto di dipendenza. Infine l’art. 9 definisce gli obblighi di informazione e consultazione in favore dei rappresentanti dei lavoratori delle piattaforme digitali o, in mancanza di tali rappresentanti, dei lavoratori delle piattaforme digitali interessati da parte delle piattaforme di lavoro digitali per quanto riguarda le decisioni che possono comportare l'introduzione o modifiche sostanziali nell'uso dei sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati. I rappresentanti dei lavoratori delle piattaforme digitali o i lavoratori delle piattaforme digitali interessati possono essere assistiti da un esperto di loro scelta nella misura in cui ciò sia loro necessario per esaminare la questione oggetto di informazione e consultazione e formulare un parere.
La terza parte della Direttiva aggiunge, infine, doveri delle piattaforme di comunicare alle autorità amministrative competenti il numero di persone che svolgono attività per loro conto e la loro situazione occupazionale (art. 12), la possibilità dei rappresentanti degli operatori di promuovere ricorsi giudiziari ed amministrativi (art. 14) ed un pionieristico diritto alla socializzazione e comunicazione orizzontale (art. 15): “gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che le piattaforme di lavoro digitali creino la possibilità, per le persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali, di contattarsi e comunicare tra loro e di essere contattate dai rappresentanti delle persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali attraverso l'infrastruttura digitale delle piattaforme di lavoro digitali o tramite mezzi altrettanto efficaci, nel rispetto degli obblighi a norma del regolamento (UE) 2016/679. Gli Stati membri impongono alle piattaforme di lavoro digitali di astenersi dall'accedere a tali contatti e comunicazioni e dal monitorarli”.

4.Un primo, sommario, giudizio.

La proposta della Commissione appare, in conclusione, piuttosto coraggiosa ed equilibrata, non mira a “colonizzare” le nuove realtà produttive attraverso l’imposizione generalizzata di principi e criteri propri di altre fasi storiche di sviluppo, ma cerca innanzitutto di disciplinare i più evidenti e gravi casi di sottoprotezione . Non mi pare vi sia una propensione generalizzata sovranazionale all’inquadramento sotto le vetuste e logore griglie del lavoro subordinato di ogni operatore tramite piattaforma , ma un favor (in sé accettabile) per una estensione equitativa della nozione di dipendenza a situazioni (soprattutto nella logistica) che si avvicinano, sotto vari profili, ad attività tradizionalmente disciplinate attraverso tale nozione. Già da oggi si introdurrebbero, però, regole piuttosto esigenti in materia di trasparenza e accountability delle procedure decisionali automatiche adottate per via algoritmica aprendo i santuari digitali a meccanismi di verifica e controllo ed anche di contestazione della parti interessate ( et audietur altera pars), con possibili importanti ricadute sul piano della tutela di alcuni diritti non solo alla privacy ma anche ad una correttezza e buona fede nella gestione del rapporto ( persino in relazione alla sua durata). Finisce l’era dell’insindacabilità del “magico” mondo di Internet: chi vi opera traendo profitto dalle operazioni che mette in moto ha delle responsabilità sociali e lavorative. Al tempo stesso la proposta apre al negoziato sindacale ed al mondo degli autonomi (attraverso la correlata iniziativa sulla contrattazione collettiva per chi non è subordinato) e, soprattutto con le norme sulla trasparenza, si comincia a scrivere uno statuto di diritti che spettano al lavoro, in generale e oltre la subordinazione, non solo a quello assimilabile alle attività tradizionali, che potrebbe così accogliere gli sviluppi, le opportunità e le sfide offerte dall’intelligenza artificiale, volendo riprendere il titolo dell’ultimo volume di Luciano Floridi . Certo c’è ancora molto da fare ma il tema della “libertà di lavorare” di cui all’art. 15 della Carta di Nizza cioè di poter scegliere carichi, tempi e modi di attività (oggi più agibile alla luce delle innovazioni tecnologiche), senza per questo esser privato delle tutele fondamentali, sembra entrato nell’agenda sovranazionale. Farà, credo, la sua strada.

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