Testo integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

1. Il caso e la decisione della Corte di giustizia.

La sentenza merita grande attenzione non solo perché ha concluso un giudizio che ha portato a una nota e discutibile pronuncia della Corte di giustizia, ma per l’articolato e coraggioso ragionamento in diritto. Assunta con contratto a tempo determinato nel 2013 e con trasformazione consensuale del rapporto conclusa pochi giorni dopo il 7 marzo 2015, una lavoratrice ha impugnato il licenziamento collettivo a lei intimato, agendo ai sensi dell’art. 1, comma quarantaseiesimo ss., della legge n. 92 del 2012, così contestando l’operare del decreto legislativo n. 23 del 2015. A tacere dell’esito sfortunato del procedimento a cognizione sommaria , nel giudizio di opposizione si è discusso dell’applicabilità dell’art. 18 St. lav.. Molto meno complesso è risultato l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento , se si considera che tutti i paralleli giudizi degli altri lavoratori sono finiti con il loro successo e con il riconoscimento delle tutele dell’art. 18 St. lav., secondo quanto si ricava dalla motivazione .
Nell’ambito del giudizio di opposizione, sono state sollevate due questioni avanti alla Corte di giustizia , di cui una è stata oggetto fondamentale della decisione finale . Infatti, per la Corte , “la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 e allegato alla direttiva 1999 / 70 / Ce del Consiglio del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro Ces, Unice e Ceep (…), deve essere interpretata nel senso per cui non osta a una normativa nazionale che estenda un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa, è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data”.
Però, a seguito della pronuncia in esame, è stato disapplicato l’art. 1, secondo comma, del decreto n. 23 del 2015, con il riconoscimento dell’operare dell’art. 18, quarto comma, St. lav., con una soluzione meritevole di un attento esame critico. Per la giurisprudenza precedente, non vi erano stati molti dubbi sulla possibilità di riferire l’art. 1, secondo comma, del decreto n. 23 del 2015 a una trasformazionale consensuale del rapporto a termine in uno a tempo indeterminato, mentre opinioni opposte sono state formulate nell’ipotesi di accertamento giudiziale dell’originaria nullità del termine stesso . Nel caso di specie, la sentenza ha in modo espresso concluso per l’esistenza di una modificazione convenzionale non novativa dell’iniziale rapporto a tempo determinato, avvenuta pochi giorni dopo il 7 marzo 2021 .

2. La sentenza della Corte di giustizia sull’interpretazione delle disposizioni di diritto europeo.

A fronte della decisione della Corte , si era manifestata la convinzione per cui l’esito del giudizio di rinvio sarebbe stato l’opposto e, dunque, la sentenza in esame ha suscitato una significativa sorpresa e, se non ci si inganna, farà sorgere qualche discussione. A dire il vero, le affermazioni della Corte non convincono; per un verso, si è affermato che “la nozione di ‘ragioni oggettive’, ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, deve essere intesa nel senso” per cui “non consente di giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato con il fatto che tale differenza è prevista da una norma generale e astratta” , salvo soggiungere che il diverso regime può essere collegato al “perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro” . Queste sono premesse abbastanza scontate e desunte da orientamenti noti, senza un tentativo neppure parziale di considerazione innovativa della questione posta dal decreto n. 23 del 2015 .
A tale riguardo, la decisione della Corte ha solo trascritto la posizione della Repubblica italiana, con un generico riferimento al “fascicolo di cui dispone la Corte” e alle “risposte ai quesiti della Corte” e con il connesso, pericoloso avvicinarsi alla scorrettezza processuale . Quali sono questi elementi indeterminati, i quali inducono a concludere che “il Governo italiano considera che il trattamento meno favorevole (…) è giustificato dall’obbiettivo di politica sociale perseguito dal decreto legislativo n. 23 del 2015, consistente nell’incentivare i datori di lavoro ad assumere lavoratori a tempo indeterminato” ? Come capita spesso, solo in apparenza la sentenza ha fatto “salve le verifiche che devono essere effettuate dal giudice del rinvio, il solo competente a interpretare il diritto nazionale” , perché, poi, avventuratasi in un compito estraneo alla sua sfera decisionale, ha ricordato in modo non casuale che “gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire un determinato scopo fra gli altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo” e ha accreditato l’idea per cui “l’assimilazione a una nuova assunzione della conversione di un contratto a tempo determinato in” uno “a tempo indeterminato sarebbe giustificata dal fatto che il lavoratore (…) ottiene, in cambio, una forma di stabilità dell’impiego” .
Soprattutto, sul punto decisivo, la sentenza ha condiviso le affermazioni della Repubblica italiana, per la quale sarebbe adeguata la “assimilazione a un nuovo contratto della conversione di” uno a termine, per l’operare del regime sanzionatorio del decreto n. 23 del 2015, e “una siffatta misura (…) appare tale da incentivare i datori di lavoro a convertire i contratti”, circostanza “che, tuttavia, spetta al giudice del rinvio verificare” . Se tale ultimo assunto è indiscutibile, ci si può chiedere come mai la pronuncia abbia parlato di diritto italiano (e di “reintegrazione nell’impresa”, senza menzionare l’art. 18 St. lav. e considerare in modo separato i suoi diversi commi e le relative implicazioni), invece di soffermarsi sulla ricognizione di quello europeo. Lo stesso è accaduto a proposito della pretesa “necessità” del decreto n. 23 del 2015, con il sibillino commento per cui “detta misura si inserisce nell’ambito di una riforma del diritto sociale italiano volta a promuovere la creazione, attraverso l’assunzione o la conversione di un contratto a tempo determinato, di rapporti di lavoro a tempo indeterminato” . A dire il vero, la maggioranza parlamentare del 2015 di tutto può essere accusata, ma non di avere avversato i rapporti a termine, se si riflette sulla loro progressiva accettazione in carenza di ragioni giustificatrici e della collegata motivazione.
Sono di difficile interpretazione le affermazioni conclusive della Corte, poiché, per un verso, si afferma, “se il nuovo regime di tutela (…) non si applicasse ai contratti che sono stati convertiti, sarebbe escluso sino dall’inizio qualsiasi effetto di incentivo alla conversione” , con una evidente petizione di principio; infatti, si dà per scontata l’esistenza del preteso “effetto di incentivo”, senza alcuna dimostrazione, a tacere dell’evidente invasione dello spazio di accertamento e di valutazione del giudice italiano. Per altro verso, si precisa, l’art. 1, secondo comma, del decreto n. 23 del 2015 “si inserisce in un contesto particolare, da un punto vista sia fattuale che giuridico, che giustifica in via eccezionale la differenza di trattamento” , il cui sussistere era stato, a dire il vero, escluso poche righe prima.
A tacere dell’impossibilità di stabilire quale sia il “contesto fattuale” chiamato a sorreggere il decreto n. 23 del 2015, poiché nulla si dice in merito, tale ultima frase riconosca un regime peggiorativo per i dipendenti con un rapporto a tempo determinato, nonostante la tesi fosse stata negata prima . Soprattutto, senza alcuna motivazione e senza una delimitazione del concetto, con l’individuazione dei suoi presupposti e della sua portata, la decisione sottintende la possibilità di deroga in via eccezionale al criterio generale sulla parità di trattamento, con una tesi poco comprensibile sul piano logico e contraddittoria nel suo svolgersi.

3. La pretesa violazione della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 e allegato alla direttiva 1999 / 70 / Ce del Consiglio del 28 giugno 1999.

Ricordato il principio di diritto riportato nella sentenza della Corte, quella in esame mette in luce lo spazio decisorio del giudice del rinvio, peraltro con una affermazione incontestata . Menzionando altri precedenti della giurisprudenza europea e osservando come vi sia stata sancita l’illegittimità di una interpretazione restrittiva della clausola 4 dell’accordo del 18 marzo 1999, la pronuncia ha ravvisato senza problemi la natura comparabile dell’attività e della posizione professionale dei lavoratori coinvolti nella stessa procedura di licenziamento collettivo . La questione fondamentale è la ravvisata giustificazione della disparità di trattamento, per pretesi interventi di politica sociale ; a tale fine, spetta al giudice nazionale l’indagine sulla natura e sugli scopi del decreto n. 23 del 2015 . La decisione in esame ricorda i precedenti per cui “la qualità di lavoratore a tempo indeterminato” acquisita “non esclude la possibilità (…) di avvalersi del principio di non discriminazione enunciato nella clausola 4” e, sebbene il punto sia stato ripreso dall’ultima sentenza , apparteneva alle indicazioni date in passato dalla Corte . Quindi, con esatta ricostruzione del suo orientamento, la citata clausola 4 non cessa “di essere applicabile una volta che il lavoratore interessato abbia acquisito lo status di lavoratore a tempo indeterminato” .
Il punto fondamentale per il giudice italiano è stabilire se “l’introduzione di tutele più attenuate in caso di licenziamento illegittimo sia diretta a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato” e qui si giunge al problema teorico e metodologico dirimente, poiché la Corte vuole che si stabilisca se l’art. 1, comma secondo, del decreto n. 23 del 2015 persegua un obbiettivo di politica sociale, ma l’indagine sul fine di una disciplina è di per sé complessa e presenta una ineliminabile discrezionalità. Non se lo nasconde la decisione, la quale ha il merito insolito (ma notevole) di porre il tema nella sua complessità, senza trincerarsi dietro affermazioni di scuola o apodittiche. Infatti, si precisa, “il canone della ragionevolezza (…) non può limitarsi a una semplice dimensione discorsiva ma deve investire i profili causali del rapporto strumenti mezzi / fini e quelli di proporzionalità del bilanciamento di interessi. In tale prospettiva il giudizio di adeguatezza deve coinvolgere (…) l’impiego di dati extra – normativi, quali le conoscenze tecnico – scientifiche, i modelli e i riscontri di tipo fattuale, utilizzabili per valutare la ‘pertinenza’, intesa quale giudizio di idoneità sul piano tecnico dello strumento per il conseguimento del fine, e la ‘congruenza’, intesa quale valutazione della norma alla luce dei principi sistematici, per verificare se la legge sia in rapporto logico con il fine che la giustificherebbe come ragionevole” .
L’osservazione è perspicua, perché mette nella giusta prospettiva il carattere complesso e opinabile della statuizione, comunque da adottare, in risposta alle indicazioni dell’ordinamento europeo. Ci si può chiedere se questo abbia riflettuto su tali elementi di inevitabile difficoltà e, in fondo, di soggettività, relativi al quesito sollevato al giudice italiano, mentre sorprendono le affermazioni apodittiche proprie della Corte (e con errori di conoscenza della nostra disciplina) . Al contrario, per quanto le conclusioni della pronuncia in esame siano per loro natura discutibili, nel senso etimologico dell’espressione, non è “sufficiente inserire nel preambolo di una qualsiasi riforma legislativa il fine occupazionale per ritenere provato il giudizio di adeguatezza” .
Lo scopo deve essere oggettivo e, cioè, coerente con l’impianto prescrittivo visto nella sua concordanza sistematica, mentre i pure meritori fini soggettivi del legislatore storico non possono essere sufficienti, se mai fossero certi. Chi mai vorrebbe una disposizione che … deprima il mercato del lavoro? Né ci si deve interrogare sulla … sincerità dei componenti del Governo e degli Organi parlamentari, poiché tali aspetti sono irrilevanti, in quanto il ragionamento critico deve presupporre l’interpretazione delle norme alla stregua dei consueti canoni e solo su questa base si può rispondere ai quesiti sollevati dalla Corte e impliciti nella citata clausola 4; ci si può domandare se la sua impostazione e la sua abituale lettura siano razionali, se lasciano tanto spazio al giudice nazionale, con il compito arduo di determinare lo scopo delle disposizioni e, quindi, di avventurarsi su un sentiero infido, nel quale divergenti opinioni sono inevitabili. Lo dimostra questa fattispecie, in cui si conclude che, dalla lettura di alcuni atti preparatori e di deliberazioni dell’Ocse, l’art. 1, comma secondo, del decreto n. 23 del 2015 “non trova alcuna giustificazione razionale sul piano empirico, dal momento che nessuna correlazione positiva tra riduzione delle tutele e incremento dell’occupazione è mai stata avvalorata nella letteratura economica” .
L’esito argomentativo è persuasivo, soprattutto se riferito all’art. 1, secondo comma, del decreto n. 23 del 2015; a tacere dell’irrilevante scopo soggettivo del legislatore storico, si può forse pensare, alla stregua di criteri di comune esperienza e con una riflessione sulla portata prescrittiva e sulle sue realistiche conseguenze, che, conosciuto un dipendente, il datore di lavoro sia condizionato, nell’offerta di una trasformazione consensuale del rapporto in uno a tempo indeterminato dal passaggio dalla protezione dell’art. 18 St. lav. a quella del negozio a tutele crescenti? E ciò anche a volere considerare la sua stesura originaria e non il testo oggi in vigore, con differenze molto più sfumate, dopo le modificazioni prescrittive e gli interventi della Corte costituzionale. E, si noti, tale concessione è fatta solo per completezza, poiché gli obbiettivi di politica sociale dovrebbero essere colti sulla scorta di quanto oggi regolato, appunto per il necessario esame della questione sul versante sistematico.
Anzi, come conclude la sentenza, in aderenza a fenomeni storici, “l’effetto di incremento dei contratti a tempo indeterminato” dopo il 2015 è “correlato esclusivamente alla legge sugli sgravi contributivi e non alla legge del 2015” , e di tale intervento strutturale dell’art. 1, comma centodiciottesimo, della legge n. 190 del 2014 era del tutto consapevole la maggioranza parlamentare dell’epoca, che ha voluto gli “sgravi” proprio come massimo rafforzamento della stipulazione di accordi a tempo indeterminato, nonostante la libera conclusione di quelli a termine, senza la necessità di ragioni giustificatrici. Sostiene la pronuncia: “il giudizio di ragionevolezza non può che sortire un risultato negativo sotto il profilo della congruenza e adeguatezza causale, non realizzando la norma alcun equo contemperamento tra la tutela del posto di lavoro e l’interesse all’occupazione quale ‘fine di interesse generale’ che giustifica la riduzione delle tutele” .

4. L’obbiettivo del legislatore di promuovere l’occupazione e la stipulazione di contratti a tempo indeterminato.

La conclusione è interessante, perché basata su una esatta percezione di quanto sia delicato il compito affidato al giudice nazionale, in qualche modo costretto a cimentarsi con un quesito senza risposta, tanto meno certa. Escluso il risalto delle convinzioni del legislatore storico, il cui immaginario non può avere rilievo ai fini della ricomposizione sistematica chiesta dalla Corte, e accettata la sua visione della clausola 4 (di necessità, seppure con perplessità) , ci si deve domandare dove trovare lo scopo oggettivo di politica sociale, e la sentenza risponde con riguardo agli effetti misurabili o, comunque, plausibili della disciplina . Non è facile trovare una alternativa e non si può replicare che si sposta l’analisi sulle conseguenze senza investire le finalità, perché resta da stabilire dove si potrebbero reperire queste ultime, se si discute di un testo normativo e si vuole astrarre dalla ricerca delle irrilevanti convinzioni del Governo e degli Organi parlamentari, salvo essere sicuri di determinarle con attendibilità (e potrebbe essere una illusione). A differenza del contratto (compreso quello collettivo), la prescrizione entra per sua natura nel sistema e vive fuori da qualunque nesso con l’intento specifico degli autori, se mai potesse essere chiarito.
A volere concedere (e non è poco) che la maggioranza parlamentare del 2015 avesse una univoca strategia, non si può guardare a questa, come ha fatto la Corte con una ingenua e acritica trascrizione delle difese della Repubblica italiana, protesa a sostenere la legittimità del decreto n. 23 del 2015. Se si seguisse questo percorso, si accrediterebbe in modo supino quanto il Governo o gli Organi parlamentari vogliano fare trasparire di sé e qualunque valutazione sulla compatibilità di una norma con la clausola 4 partirebbe da una inaccettabile e inevitabile presunzione di legittimità, perché sarebbe accettata l’immagine precostituita della disposizione e si discuterebbe solo di necessità e di adeguatezza. Però, se si seguisse questo itinerario, la valutazione rimessa al giudice nazionale sarebbe esangue, in quanto il sussistere di tali requisiti dovrebbe essere riscontrato sulla base della visione della legge che i suoi autori proiettino, mentre i loro fini sono irrilevanti, prima di essere indimostrabili .
Se si considera l’art. 1, secondo comma, del decreto n. 23 del 2015 per la sua portata, non per apodittiche aspirazioni, esso avrebbe potuto provocare modificazioni sul mercato del lavoro solo se si condivide la tesi per cui, assunto un prestatore di opere prima del 7 marzo 2015, una impresa potesse essere influenzata ai fini della prosecuzione del rapporto a tempo indeterminato dalla diversa determinazione del regime sanzionatorio in tema di licenziamento illegittimo. Se si astrae dal mito e si guarda alla realtà, una minima parte dei datori di lavoro italiani e dei loro dirigenti è in grado di comprendere la differenza nell’impianto e nelle conseguenze operative intercorrente fra l’art. 18 St. lav. e il decreto n. 23 del 2015, a tacere della valutazione dei comportamenti legittimi . Ispirato da una notevole avversione per i giovani dipendenti , con parziali correzioni della giurisprudenza costituzionale e delle riforme, il decreto n. 23 del 2015 assume una visione irrealistica dei processi decisionali dell’impresa e manifesta l’esasperata idea della centralità del conflitto individuale, il cui risalto organizzativo è sopravvalutato.
Lo riconosce la sentenza in esame, la quale contraddice lo spirito della decisione della Corte ed esercita con coraggio il potere del giudice nazionale, cercando non lo scopo del legislatore, ma l’assetto regolativo, alla stregua di una interpretazione sistematica. Su tale base, prima di tutto, è indimostrabile e, secondo verosimiglianza (e in carenza di una conclusione sicura), non è convincente il sussistere di un effetto positivo sulla stipulazione di accordi a tempo indeterminato. Poco importa la politica dell’allora maggioranza parlamentare se si guarda al portato delle norme e alle loro conseguenze. Su questa strada, la pronuncia è poco attaccabile. Se mai, fa bene a trascurare alcuni passaggi della decisione della Corte, a proposito di pretese condizioni eccezionali che avrebbero permesso la conservazione del decreto n. 23 del 2015, nonostante la citata clausola 4.
A tale riguardo, in carenza di una minima spiegazione del ragionamento della Corte, sarebbe stato difficile seguirla e la distonia è netta, ma giustificata dall’impossibile comprensione del significato e della giustificazione teorica e prescrittiva di queste pretese deroghe alla parità di trattamento. Soprattutto, se ci si allontana da una visione incentrata sulla “politica” e si guarda alla portata dei precetti, questi devono essere esaminati per quanto esprimono e per il cambiamento percepibile apportato al sistema, con il ricorso a criteri assiologici. Di questi dà dimostrazione la pronuncia, ma, in difetto, come si può stabilire se una norma migliori la condizione dei prestatori di opere a tempo determinato? Non è lontano il tempo in cui la stessa Corte ha considerato coerente con la promozione dell’occupazione giovanile la disciplina italiana sul lavoro intermittente e sull’impossibile sua prosecuzione dopo i venticinque anni, salvo ravvisare oggi l’incompatibilità dell’innocua e prudente norma sull’età massima per la partecipazione al concorso da notaio .

5. Gli accordi novativi relativi ai rapporti a tempo determinato stipulati prima del 7 marzo 2015.

Se la giurisprudenza di legittimità aveva già escluso l’operare del decreto n. 23 del 2015 per rapporti instaurati a tempo determinato prima del 7 marzo 2015, ma con successivo accertamento della nullità del termine , le stesse argomentazioni sono ora riprese per evitare possibili vizi di legittimità costituzionale, poiché l’art. 1, settimo comma, lett. c), della legge di delegazione n. 183 del 2014 consentiva al Governo di prevedere per le “nuove assunzioni” il contratto a tutele crescenti. Per quanto sia nota la scarsa fortuna avanti alla Corte costituzionale delle questioni imperniate sulla violazione dei limiti della delegazione , lo stesso … non capita con i giudici di merito, che, pure, possono intervenire con una (meritoria) interpretazione adeguatrice, come accaduto in questa vicenda.
Come si afferma, “al fine di ascrivere” all’art. 1, secondo comma, del decreto n. 23 del 2015 “un significato né pleonastico, né tanto meno irrilevante nella sua portata precettiva, occorre (…) individuare quelle ipotesi di contratti a termine stipulati prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 23 del 2015 che si convertono in contratti a tempo indeterminato dopo tale data”, ma con “effetto novativo”, poiché sono “nuove assunzioni” , con il connesso rispetto dell’art. 1, settimo comma, lett. c), della legge n. 183 del 2014. Tale “effetto novativo” può essere il frutto di un conforme accordo, sebbene ciò sia improbabile, poiché simili intese sono sconosciute nella prassi; peraltro, lo stesso “effetto” (seppure non in senso tecnico) si può produrre o nell’ipotesi di superamento del termine per oltre trenta giorni o nella violazione (successiva al 7 marzo 2015) dei cosiddetti intervalli o nell’infrazione (sempre posteriore al 7 marzo 2015) al limite complessivo massimo di durata del rapporto, con osservazioni esatte della pronuncia, per cui la trasgressione alla disciplina sul rapporto a tempo determinato non sempre comporta un accertamento della nullità del termine che, per eventi intervenuti dopo il 7 marzo 2015, retroagisca alla stipulazione, come ricordato dalla relativa normativa.
Il ragionamento è lineare e fondato; se la legge di delegazione prevedeva l’introduzione del contratto a tutele crescenti per le “nuove assunzioni”, una interpretazione orientata al rispetto dei parametri costituzionali (se possibile) deve evitare che il decreto n. 23 del 2015 si riferisca a fattispecie diverse, e la sentenza raggiunge questo obbiettivo. Se mai, ci si deve chiedere come tale profilo si coordini con la disapplicazione sancita per la violazione della clausola 4. Nel caso di specie, il problema è irrilevante; la trasformazione consensuale non ha effetti novativi e già su tale base (quindi, in ossequio ai criteri costituzionali) si giunge a escludere l’applicabilità dell’art. 1, secondo comma, del decreto n. 23 del 2015, così che, in qualche modo, la lunga riflessione sull’ordinamento europeo potrebbe essere pleonastica. Nel caso (raro) di effetto novativo, comunque si porrebbe il tema della contrarietà dell’art. 1, comma secondo, del decreto n. 23 del 2015 alla clausola 4, poiché la questione ha carattere generale.
Libere le valutazioni sullo spirito politico del decreto n. 23 del 2015 e sulla sua coerenza con gli interessi del Paese, la (discutibile) presenza di due sistemi sanzionatori in tema di licenziamento illegittimo impone uno sforzo di ricomposizione del sistema e a questo ultimo l’interprete deve guardare senza essere per nulla vincolato a una pretesa fedeltà al legislatore . Il Governo e la maggioranza parlamentare devono operare per la realizzazione del loro indirizzo politico, ma ciò non vale per il giurista, poiché, divenendo parte dell’ordinamento, il precetto recide qualunque nesso con il suo autore ed è un frammento di un tessuto regolativo da cogliere nelle sue interrelazioni e nella sua inevitabile complessità. Tale sforzo può portare a molte differenti soluzioni, per il naturale carattere opinabile delle valutazioni ricostruttive, senso stesso dello studio della giurisprudenza.
Tuttavia, sia in tema di legittimità costituzionale, sia a proposito della coerenza della disposizione italiana con la clausola 4, il ragionamento deve essere oggettivo e a tale stregua si deve considerare la “politica sociale”. A differenza dell’impostazione della Corte, la decisione in esame ne è consapevole e il suo sforzo di ricomposizione è basato su questo presupposto, con esiti finali persuasivi. L’interpretazione letterale non è sudditanza rispetto alla vera o pretesa convinzione del legislatore storico, ma comprensione del testo nella sua oggettività, comunque da inserire nel sistema. Quindi, l’obbiettivo di “politica sociale” non è quello della maggioranza parlamentare, ma presuppone una valutazione oggettiva del frammento normativo nel suo inquadramento ricostruttivo. Non a caso, l’esito del processo è per sua natura discutibile e le convinzioni della Corte possono essere disattese dal giudice italiano.

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