Testo integrale con note e bibliografia

 

Sommario: 1. L’esercizio della funzione nomofilattica della Cassazione ed il regime sanzionatorio del licenziamento ingiustificato; 2. Tecniche di accertamento del “fatto contestato”: questioni generali; 3. Sussistenza e natura disciplinare del “fatto contestato”: complementarietà e perimetri dell’indagine; 4. La disarticolazione del “fatto contestato”: sussistenza vs. proporzionalità; 5. La necessaria rilevanza disciplinare del “fatto contestato”. 6. Accertamento implicito della natura di illecito disciplinare del “fatto contestato”: insufficienza.

1. Le sentenze di maggio (Cass., 8, 9 e 28 maggio 2019, nn. 12174, 12365 e 14500) sul sistema sanzionatorio del licenziamento disciplinare ingiustificato costituiscono il punto di approdo dell’attività interpretativa condotta dalla Cassazione nell’esercizio esemplare della nomofilachia che l’Ordinamento pone a garanzia dell’“esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”.
Infatti la Cassazione ha chiarito e delimitato le ipotesi previste dagli artt. 18, co. 4 St. lav. e 3, co. 2, D. lgs., 4 marzo 2015, n. 23 nelle quali opera ancora la reintegrazione nel posto di lavoro.
Ipotesi che si configurano quando il “fatto contestato”, cioè quello addebitato dal datore di lavoro al dipendente con l’atto di avvio del procedimento disciplinare, a) risulta insussistente (sia per l’art. 18 che per le tutele crescenti); b) oppure si identifica (ma solo per l’art. 18) con una delle infrazioni tipizzate nel codice disciplinare e punite con una sanzione conservativa (e non espulsiva).
L’adempimento della funzione nomofilattica non si presentava certamente agevole per la Cassazione per la complessità delle norme che nel 2012 hanno profondamente innovato il sistema sanzionatorio del licenziamento disciplinare con la riscrittura dell’art. 18, poi sostituito nel 2015 (per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015) dalle tutele crescenti.
Ma più che le difficoltà indotte dalla cripticità del dato normativo, hanno pesato le resistenze al cambiamento, come avviene sempre quando mutano equilibri (sociali, economici e normativi) fortemente radicati e consolidati. In questi casi, infatti, il cambiamento determina una temporanea (di breve o lunga durata) instabilità prima di raggiungere un nuovo assetto, frutto di equilibri diversi. Ciò avviene, specialmente, quando il cambiamento riguarda materie, come quella del licenziamento, ove si misurano e si contrappongono interessi (oltreché sensibilità sociali) di rilievo costituzionale.
Un’evidenza di quanto appena accennato è data, del resto, dalle incertezze e/o resistenze che hanno profondamente travagliato la giurisprudenza di merito nell’individuare i rimedi applicabili al licenziamento disciplinare ingiustificato sottratto all’egemonia della reintegrazione. Ora, però, queste incertezze dovrebbero ridimensionarsi nel solco tracciato dalla Cassazione.
Incertezze che, invece, vengono alimentate, su un diverso versante, dalla sentenza della Corte Costituzionale 8 novembre 2018, n. 194 per quanto riguarda il meccanismo (un tempo) automatico di determinazione e quantificazione dell’indennità (che non ha natura risarcitoria) dovuta al lavoratore ingiustamente licenziato la cui misura non è più predeterminabile in relazione all’anzianità, ma oscilla tra un minimo di sei ed un massimo di trentasei mensilità.
Nel contempo, però, la stessa sentenza concorre a convalidare e consolidare, riconoscendone in questa parte la legittimità costituzionale, il fondamento sistematico del nuovo regime dei rimedi al licenziamento ingiustificato i cui effetti estintivi vengono, di norma, preservati e, solo eccezionalmente, neutralizzati con la reintegrazione, realizzando così un capovolgimento rispetto all’originario e consolidato assetto dell’art. 18 (per lungo tempo considerato intoccabile).
Un nuovo regime, peraltro, condiviso da due legislature di segno politico molto diverso, come testimonia la modifica apportata alle tutele crescenti dal decreto dignità (art. 3, co. 1, d.l., 12 luglio 2018, n. 87, convertito con l. 9 agosto 2018, n. 96), circoscritta alla misura dell’indennità.
A margine delle osservazioni accennate, sul piano generale si può osservare che il diritto del lavoro sopravvive, smentendo i timori espressi da alcuni, al nuovo assetto del regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo.
Anzi il capovolgimento di prospettiva (se non si vuole dire del paradigma), alimenta e vivacizza un utile dibattito focalizzato sulla riorganizzazione delle tutele dovute (per l’ordinamento interno e comunitario) al lavoratore licenziato, ponendole a carico non solo del datore di lavoro, ma anche del sistema di governo del mercato del lavoro responsabilizzato (sebbene ancora privo della necessaria effettività) a promuovere il suo reimpiego in una nuova occupazione, seguendo una prospettiva di politica del lavoro – ritenuta perseguibile dalla Corte Costituzionale (a prescindere dagli esiti) – finalizzata non già ad incrementare l’occupazione, quanto piuttosto a favorire il ricorso al contratto di lavoro a tempo indeterminato (riducendone lo svantaggio competitivo dovuto ai vincoli in materia di licenziamento).

2. Prima di esaminare i temi trattati dalla Cassazione nella sentenza 12174/2019 – cui in questa sede si limita il commento – appare utile mettere in ordine logico-sistematico i precedenti della Cassazione sull’insussistenza del “fatto contestato”, distinguendo le indicazioni di carattere generale dalle altre sul contenuto della formula utilizzata dal legislatore.
Quanto alle prime meritano di essere segnalati almeno tre punti: a) la diversità dei presupposti per accertare, da una parte, la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento e, dall’altra, per individuare il rimedio da adottare (reintegra o indennità) a fronte di un licenziamento ingiustificato); b) la delimitazione del campo di applicazione della reintegrazione ai soli casi espressamente indicati dal legislatore (art. 18, co. 4 e art. 3, co. 2), generalizzando per converso la residuale operatività dell’indennità in ogni altra ipotesi di licenziamento illegittimo (art. 18, co. 5 e art. 3, co. 1); c) l’interpretazione restrittiva delle condizioni legali di accesso alla reintegrazione, in quanto essa costituisce un’eccezione alla regola generale della liquidazione dell’indennità.
Per quanto riguarda la distinzione delle due fasi dell’indagine affidata al Giudice si palesa ormai chiaro che la prima è preordinata a verificare la legittimità del licenziamento facendo riferimento all’insieme delle condizioni (procedurali e sostanziali) di esercizio del recesso del datore di lavoro; la seconda – soltanto eventuale, in quanto si colloca a valle dell’esito negativo della prima – è finalizzata ad individuare, in base ai presupposti stabiliti dal legislatore, quale sanzione debba essere applicata nel caso concreto, senza sovrapporre e confondere – come spesse accade – tale operazione con quella relativa alla verifica della legittimità del licenziamento e con le condizioni rilevanti a tal fine (ad esempio quella della proporzionalità), ma irrilevanti per selezionare la sanzione da adottare.
Invece quanto alla diversificazione delle tutele accordate dal legislatore e l’alternativa tra indennità e reintegrazione, si può osservare che il legislatore distingue nettamente tra il licenziamento ingiustificato, cioè non sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo idonei a legittimarlo ed il licenziamento posto in essere in violazione non già delle regole proprie del licenziamento, bensì di situazioni giuridiche da sempre più intensamente protette a presidio di beni fondamentali (come avviene, ad esempio, con il divieto di discriminazione o nei casi puniti con la nullità).
Con le tutele crescenti tale diversificazione diventa ancora più netta, in quanto le ipotesi di reintegrazione vengono ulteriormente limitate e l’unica prevista nel caso del licenziamento disciplinare si applica quando tale licenziamento sia stato adottato con riferimento ad un fatto che il lavoratore non ha commesso o, addirittura, che risulta essere legittimo.
In estrema sintesi si può, quindi, dire che l’indennità si applica in modo generalizzato in tutti i casi in cui il licenziamento disciplinare abbia violato i limiti sostanziali (giusta causa, giustificato motivo, proporzionalità) e procedurali previsti dal legislatore per il legittimo esercizio del recesso del datore di lavoro.

3. Passando dalle questioni più generali ai problemi applicativi affrontati dalla sentenza commentata, si deve muovere dal principio di diritto in essa enunciato che collega la reintegrazione all’“insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, [ma che] comprende non soltanto i casi in cui il fatto non sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”.
All’interno di questo principio si possono individuare due nuclei che definiscono e differenziano il campo dell’indagine del Giudice: il primo riguarda “l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”, il secondo concerne l’oggetto dell’indagine che “comprende non soltanto i casi in cui il fatto non sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”.
I due profili sono tra loro complementari e l’uno sorregge la funzionalità dell’altro a condizione che non si confondano o sovrappongano i due ambiti dell’indagine che devono rimanere distinti nei rispettivi perimetri: a) la verifica della sussistenza del fatto contestato non può trasmodare in una valutazione della sua proporzionalità rispetto al sanzione del licenziamento adottata dal datore di lavoro; b) il fatto contestato deve necessariamente essere illecito e, per questo, idoneo ad integrare un’infrazione disciplinare.

4. Per quanto concerne l’indagine che il Giudice dovrà condurre relativamente alla “insussistenza del fatto contestato” e volendo scandirne i passaggi, si può dire che tale indagine deve prendere le mosse dal “fatto”, così come è stato individuato nell’addebito comunicato al lavoratore con il primo atto di avvio del procedimento disciplinare. Quindi il “fatto” che assume rilievo negli artt. 18, co. 4 e 3, co. 2 è quello “contestato” al dipendente e per il quale viene licenziato.
Rispetto ad esso si dovrà, poi, verificare: a) sul piano oggettivo, l’idoneità del “fatto” a configurare un illecito disciplinare; b) nonché l’effettivo accadimento del fatto storico; c) … anche per quel che concerne gli elementi che concorrono a definire e qualificare il “fatto”, ma soltanto se e per quanto risultino dalla formulazione della contestazione: ad esempio, l’intenzionalità (se l’addebito riguarda il danneggiamento degli strumenti di lavoro) o le sue conseguenze (nel caso in cui si faccia riferimento ai danni prodotti) oppure la reiterazione dell’infrazione; d) … espungendo, per converso, gli elementi che, seppur descritti nella contestazione, si palesano irrilevanti ad integrare l’illecito disciplinare, ciò potrebbe riguardare i complementi di luogo (dove è accaduto) o tempo (quando); e) resta, invece, estranea all’accertamento la “minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità” (Cass. 18418/2016) che non ha nulla a che vedere con la sussistenza; f) infine, sul piano soggettivo, dovrà essere acclarato non solo che il lavoratore è l’autore del “fatto”, ma anche che ne abbia la responsabilità (in quanto il “fatto” è a lui giuridicamente imputabile e non indotto da una forza maggiore).
Il punto centrale di questa ricostruzione – su cui si è registrato un vivace dibattito ed un forte contrasto, anche se in modo non sempre diretto – riguarda la distinzione tra i due concetti: quello della sussistenza “del fatto contestato” e l’altro della valutazione della sua proporzionalità rispetto alla sanzione del licenziamento che è stata applicata dal datore di lavoro. Una distinzione chiara (o, almeno, che dovrebbe essere tale in base alla formulazione del dato normativo), il primo concetto è finalizzato a verificare se l’infrazione disciplinare sia stata posta in essere dal lavoratore licenziato, mentre il secondo ne presuppone l’esistenza, per misurarne la (maggiore o minore) gravità.
Dovrebbe essere superfluo, ma forse è opportuno evidenziate che la valutazione in termini di proporzionalità della sanzione applicata (il licenziamento) rispetto all’infrazione commessa dal lavoratore resta necessaria e determinante ex art. 2106 cod. civ., ma solo per accertare la legittimità del licenziamento (così come avviene per qualsiasi altra sanzione disciplinare conservativa), mentre è irrilevante per individuare il rimedio (l’indennità o la reintegrazione) da applicare a seguito dell’esito negativo di tale accertamento.
Del resto questo è quello che è sempre avvenuto anche in passato, in quanto la violazione del principio di proporzionalità non ha mai interferito sui rimedi da applicare al licenziamento illegittimo, neppure nel testo originario dell’art. 18 ove la reintegrazione costituiva l’unica conseguenza, quale che fosse l’illegittimità che viziava il licenziamento.
Su questo punto si è registrato quello che può essere considerato un vero e proprio sviamento interpretativo.
Infatti, per sostenere la tesi dell’applicabilità della reintegrazione al licenziamento posto in essere in violazione dell’art. 2106, veniva evocata l’antitesi tra fatto materiale e fatto giuridico, qualificando il “fatto contestato” come fatto giuridico e, a mo’ di conseguenza indefettibile, la necessità di valutarne la proporzionalità e non solo l’insussistenza.
A ben vedere, però, la controversia interpretativa si focalizzava sul punto della reintegra del lavoratore ingiustamente licenziato non già per una condotta materiale lecita, bensì per un’infrazione avente ad oggetto comportamenti non gravi rispetto ai quali si prospettava la necessità di indagarne la sussistenza anche con riferimento alla proporzionalità ex art. 2106, essendo questo un requisito connaturato al fatto giuridico.
La Cassazione ha corretto l’erroneità di questo falso sillogismo, evidenziando che la condizione per applicare la reintegrazione è (e non potrebbe essere diversamente secondo il dato normativo) quella posta dal legislatore, cioè l’insussistenza del “fatto contestato” e che rispetto ad essa è inconferente ogni valutazione in termini di proporzionalità.
Tutto ciò, peraltro, non presenta differenze sostanziali tra l’art. 18, co. 4 e l’art. 3, co. 2, sebbene in quest’ultima norma il “fatto” sia stato qualificato come “materiale”.
Infatti, come spiega la Cassazione, con tale qualificazione il legislatore ha colto l’occasione per esplicitare e precisare - rispetto a quanto già espresso nell’art. 18, co. 4 ed alle posizioni emergenti nella giurisprudenza di merito - che all’accertamento della sussistenza del “fatto”, “resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” (così testualmente l’art. 3, co. 2). Quindi il legislatore esclude espressamente che la verifica della sussistenza del “fatto contestato” possa implicare anche la valutazione della sua proporzionalità.
In questa stessa prospettiva si deve aggiungere che ricondurre il “fatto contestato” all’inadempimento contrattuale – come molti propongono – appare condivisibile soltanto se aiuta a comprendere che tale fatto si deve configurare come un illecito disciplinare, con la conseguenza che dovrà essere reintegrato (ex artt. 18, co. 4 e 3, co. 2) il dipendente licenziato per una condotta rivelatasi lecita.
Viceversa l’accostamento del fatto contestato all’inadempimento non appare appropriato se mira ad evocare anche la “scarsa importanza” che deve connotare l’inadempimento per giustificare la risoluzione del contratto (art. 1455 cod. civ.), predicando attraverso questo argomento la necessità di verificare la sussistenza del “fatto contestato” anche con riferimento alla sua proporzionalità.
E ciò non tanto perché il recesso dal rapporto di lavoro è assoggettato a regole peculiari (la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo), quanto piuttosto perché nell’individuazione del rimedio da adottare nel caso di un licenziamento ingiustificato assume rilievo l’articolazione del sistema sanzionatorio disciplinato dal legislatore ed i presupposti specifici ivi previsti per selezionare il rimedio applicabile, in base a valutazioni e scelte politiche la cui legittimità è stata da ultimo convalidata dalla sentenza della Corte Costituzionale, 8 novembre 2018, n. 194.
Del resto le norme sui rimedi restitutori (artt. 18, co. 4 e 3, co. 2) non sono le stesse dettate in materia di limiti al licenziamento che, quando vengono violati (ad esempio, perché l’inadempimento non risulta “notevole” o il licenziamento si palesa sproporzionato), comportano a carico del datore di lavoro le conseguenze individuate sulla base di presupposti che non possono coincidere, a pena della loro inutilità, con quelli posti all’esercizio del recesso.

5. Come si è detto non contrasta con tale conclusione, ma anzi ne costituisce un completamento, la necessità di verificare che “il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare” che la stessa sentenza della Cassazione (12174/2019) sollecita a condurre, senza che possa essere dato per scontato in base alla descrizione dell’infrazione contestata (nel caso di specie l’allontanamento dal posto di lavoro).
Infatti la condotta del lavoratore potrebbe essere stata causata da forza maggiore o, comunque, giustificata da un evento (un improvviso malore tale da non consentire al dipendente di preavvertire il datore di lavoro dell’allontanamento) che ne escluderebbe la natura di illecito disciplinare.
L’osservazione, pur fondata, che tali eventualità siano poco probabili non esclude affatto la necessità dell’accertamento che i Giudice di merito deve effettuare, come viene richiesto dalla Cassazione.
Con riferimento all’indagine in ordine alla natura disciplinare del “fatto contestato” si possono svolgere alcune brevi precisazioni, richiamando quanto già in precedenza accennato.
La prima riguarda il punto di partenza dell’indagine che è costituito dall’infrazione identificata secondo la formulazione che si legge nella contestazione disciplinare.
Ma l’accertamento non si può esaurire a questo dato e dovrà, invece, proseguire per stabilire se le concrete modalità di realizzazione della condotta siano tali da evidenziare cause idonee ad elidere una responsabilità disciplinare (riprendendo l’esempio già utilizzato, la forza maggiore che ha determinato la condotta).
Inoltre va ribadito ancora una volta che l’accertamento della natura disciplinare dell’illecito prescinde del tutto dalla valutazione della sua gravità o lievità, in quanto si arresta e si esaurisce alla concreta idoneità della condotta del lavoratore a configurare un’infrazione disciplinare, come tale suscettibile di contestazione, id est il “fatto contestato”.

6. In appendice alle considerazioni fin qui svolte vale la pena di soffermarsi sulla fattispecie concreta esaminata dalla Cassazione e, prima ancora, dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Genova.
L’interesse a questo approfondimento riguarda proprio l’accertamento della natura di illecito disciplinare dell’infrazione che aveva portato al licenziamento della lavoratrice, per capire se la remissione di tale accertamento al Giudice di rinvio disposta dalla Cassazione fosse necessaria o meno, come alcuni hanno sostenuto, ritenendo già sufficientemente acclarato tale profilo.
In effetti, leggendo la motivazione della sentenza della Cassazione e la descrizione dei “fatti di causa” si sarebbe portati ritenere che non fosse necessario alcun approfondimento ulteriore in ordine alla rilevanza disciplinare dell’infrazione contestata alla lavoratrice (temporaneo abbandono non autorizzato del posto di lavoro).
Infatti tale infrazione viene descritta dalla Cassazione facendo riferimento ad un ’“allontanamento dal posto di lavoro”; condotta che “non era stata negata nella sua realtà storica”, ma che “non poteva ritenersi, in concreto, per le circostanze in cui si era verificata, di gravità tale da giustificare il licenziamento” (punto 2.1. dei “fatti di causa”).
Però, se si leggono le motivazioni delle sentenze di merito, la ricostruzione delle vicende processuali appare, almeno in parte, diversa.
Infatti nella sentenza del Tribunale di Genova (29 gennaio 2016) viene riportato che la lavoratrice si era difesa “giustificando il proprio operato necessario per consumare un veloce spuntino durante la giornata lavorativa di almeno 10 ore” ed il Tribunale, sulla scorta di tali deduzioni, aveva affermato l’illegittimità del licenziamento con le conseguenze indennitarie previste dall’art. 3, co. 1, pur rilevando che “trattasi di un comportamento lecito, non suscettibile di sanzione disciplinare”.
Anche la sentenza della Corte d’Appello di Genova (21 dicembre 2016) sembra confermare tale ricostruzione e, in particolare, le deduzioni della lavoratrice in ordine al fatto che “il licenziamento era comunque da dichiarare illegittimo in quanto il suo comportamento, consistente nell’essersi allontanata per consumare un veloce spuntino durante la giornata lavorativa di 10 ore almeno, era lecito”.
A fronte di ciò il Giudice di secondo grado aveva ritenuto di non accogliere la domanda di reintegrazione avanzata dalla dipendente ex art 3, co. 2, “in quanto l’allontanamento dal posto di lavoro senza autorizzazione, che costituisce appunto il fatto contestato alla lavoratrice, non è stato contestato nella sua realtà storica, solo che esso non può ritenersi di tale gravità, viste le circostanze in cui si è verificato, da giustificare il licenziamento”.
Appare chiaro, allora, che la lavoratrice aveva specificamente dedotto la legittimità del proprio comportamento (definendolo “lecito”), chiedendo di essere reintegrata ex art. 3, co. 2 e, a fronte di tale prospettazione, il Giudice di merito avrebbe dovuto prendere motivatamente posizione, negando o affermando la legittimità della condotta della lavoratrice in base alle circostanze allegate (si consideri, peraltro, che il datore di lavoro non si è mai costituito in giudizio, il che avrebbe dovuto comportare l’esame anche della delicata questione della ripartizione degli oneri probatori e di allegazione relativi all’individuazione della sanzione applicabile).
Viceversa le circostanze prospettate dalla lavoratrice (la necessità di consumare un “veloce spuntino” dopo “almeno 10 ore di lavoro”; senza alcuna pausa ?) sono state sì prese in esame dai giudici di merito, ma non già per stabilire se fosse lecita la condotta della lavoratrice (quanto meno con riferimento alla mancata richiesta di autorizzazione preventiva), ma soltanto per escludere che il licenziamento fosse proporzionato all’infrazione.
L’indicazione che si può trarre dalla sentenza della Cassazione è quella che l’accertamento dell’idoneità del fatto contestato a configurare, in concreto, un illecito disciplinare non può essere dato per scontato e, quando la questione viene prospettata dal lavoratore, il Giudice deve farsi carico della relativa indagine, dandone conto nella motivazione della sentenza con la quale definisce il giudizio.

 

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