Testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa
La drammatica stagione del Covid-19 verrà in futuro ricordata come un tempo di responsabilità e di sacrificio per chi è stato chiamato al proprio dovere di servizio, nelle corsie degli ospedali così come, inter alia, nei supermercati, nei campi coltivati o nelle strade cittadine.
La residua parte dei consociati è invece andata incontro, specialmente durante la fase di lock-down, ad una – doverosa – compressione delle libertà individuali (di circolazione, in primis) in nome di alt(r)i beni ed interessi collettivi, come la salute e la pubblica sicurezza: mutuando il lessico di Hannah Arendt, è possibile affermare che la cifra del tempo della pandemia è stata dunque la prevalenza della freedom sulla liberty .
Ad analoghe conclusioni si potrebbe giungere, mutatis mutandis, rispetto alla legislazione lavoristica dell’emergenza epidemiologica . Si pensi, in proposito, alla torsione incontrata da un istituto dalla natura essenzialmente volontaristica/bilaterale come il lavoro agile, divenuto – pro tempore – oggetto di un diritto potestativo (alternativamente, del datore di lavoro o del prestatore di lavoro) e, soprattutto, alla limitazione subìta dalla liberty imprenditoriale per effetto del c.d. blocco dei licenziamenti, disposto, durante la fase più acuta della pandemia, dall’articolo 46 d.l. 18/2020 ed in seguito confermato (o “prorogato”: v. infra) dall’art. 80 d.l. 34/2020 e dall’14 d.l. 104/2020.
Proprio di quest’ultima disposizione ci si occuperà nel presente contributo, il cui scopo, va premesso, non è di offrire una puntuale esegesi della norma , bensì di interrogarsi sugli equilibri tra la tutela dell’occupazione e la libertà di impresa in una misura il cui noto antecedente risale addirittura al II Dopoguerra e che trova oltretutto ben pochi riscontri nell’odierna esperienza comparata . In sintesi, il fine ultimo è comprendere, attraverso la lente della giurisprudenza europea e costituzionale, se ed eventualmente fino a che punto la situazione emergenziale giustifichi un – temporaneo – riallineamento di liberty e freedom nella regolazione della materia dei licenziamenti collettivi.

2. Breve ricognizione del dato normativo
Il blocco dei licenziamenti dell’era pandemica ha trovato spazio in tre – pressoché – consecutivi interventi, non del tutto sovrapponibili per condizioni soggettive, oggettive e temporali di applicazione .
In un primo tempo, l’articolo 46 del d.l. n. 18 del 17 marzo 2020 ha vietato l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo per sessanta giorni, disponendo altresì la sospensione dei procedimenti aperti dopo il 23 febbraio 2020 e pendenti al momento dell’entrata in vigore del decreto .
La stessa sorte è toccata ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, a prescindere dal numero di dipendenti impiegati : di converso, i licenziamenti disciplinari, anche plurimi e sempre salvi i casi di simulazione , non sono stati ricompresi nel divieto, al pari dei recessi ad nutum . A quest’ultimo riguardo, ci si è interrogati circa la sorta dei licenziamenti dei dirigenti: se quelli individuali per ragioni economiche, stante la distinzione tra il requisito (legale) del giustificato motivo oggettivo e quello (convenzionale) della giustificatezza , non sembrano rientrare nel blocco , a conclusioni opposte si dovrebbe giungere con riguardo al licenziamento collettivo del dirigente, che, sotto questo aspetto, non può non godere dello stesso trattamento riservato alle altre categorie di lavoratori .
A latere, va osservato che, stante la natura imperativa del divieto (e delle sue “proroghe”: v. infra), si può agevolmente ritenere che i licenziamenti intimati in violazione di esso siano affetti da nullità . Se è vero che una parte della giurisprudenza più risalente riconobbe il recesso intimato durante il blocco del II Dopoguerra temporaneamente inefficace e non invalido, è anche vero che l’argomento principale su cui poggiava tale lettura, ossia l’astrattezza e la conseguente insindacabilità in sede giudiziaria del negozio in parola, può oggi dirsi senz’altro superato .
L’art. 80 del successivo d.l. 34/2020 (c.d. Decreto Rilancio) ha esteso il blocco sino al 17 agosto 2020. Tuttavia, il provvedimento è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale nella tarda sera del 19 maggio 2020, quando il termine di sessanta giorni fissato dal D.L. n. 18 del 19 maggio 2020 era ormai spirato . In ragione di ciò, vi è chi ha parlato di una finestra temporanea di sottrazione al divieto . Almeno per i licenziamenti collettivi, però, la questione deve essere comunque stemperata, posto che il recesso intimato in assenza della relativa procedura – la quale, ovviamente, non poteva essere avviata e conclusa nel brevissimo lasso temporale tra i due provvedimenti in esame – si esporrebbe ad un’agevole censura ex art. 28 s.l. .
Da ultimo, l’art. 14 d.l. 14 agosto 2020, n. 104, ha confermato – anzi, dichiaratamente “prorogato” – il divieto di avviare le procedure di licenziamento collettivo e, parimenti, di ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. A differenza dei precedenti, però, il provvedimento in esame prevede un termine – non più fisso, bensì – mobile e, soprattutto, contempla le seguenti esclusioni (che saranno oggetto di singola trattazione nel successivo paragrafo 5): a) l’integrale fruizione dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all'emergenza epidemiologica da COVID-19 (estesi dallo stesso decreto di ulteriori 18 settimane), ovvero b) dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali per un periodo massimo di 4 mesi ed entro il 31 dicembre 2020 (per le sole imprese che non abbiano più richiesto l’integrazione salariale, della quale abbiano però fruito nei mesi di maggio e giugno 2020); c) la cessazione definitiva dell'attività dell'impresa, conseguente alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell'attività (fatta salva la possibilità di cedere l’azienda o il ramo); d) il fallimento, in assenza di esercizio provvisorio dell’impresa o di un settore della stessa; e) la sottoscrizione di un accordo collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.

3. Libertà di impresa e tutela dell’occupazione nell’ordinamento multi-level
Come ha di recente ricordato la Corte Costituzionale , nella regolazione della materia di licenziamenti – sia in punto di condizioni per la validità dell’atto , sia relativamente all’assetto dei rimedi – si impone un contemperamento tra i valori della tutela del posto di lavoro e della libertà d’impresa .
È quindi possibile sostenere che, (anche) in questo ambito, “nessuna singola finalità primaria può da sola caratterizzare un sistema complesso come la costituzione economica, nella quale sono analizzabili tre scopi fondamentali: economicità, giustizia sociale, libertà individuale”, ponendosi tali valori “in un rapporto di tensione che, mediante la regola del diritto, deve essere convertito in un rapporto di equilibrata integrazione” .
Se si guarda alla natura ed alla ratio del blocco dei licenziamenti (tanto individuali per giustificato motivo oggettivo, quanto collettivi), parrebbe potersi affermare che la limitazione dell’attività di iniziativa economica non si giustifichi solo nella difesa della “utilità sociale” di cui al comma 2 dell’art. 41 Cost., ma che la stessa possa trovare un addentellato pure nel comma 3 della stessa disposizione, che riserva alla legge il compito di “determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e private sia indirizzata e coordinate a fini sociali” .
Non per nulla, la norma da ultimo citata è stata la base giuridica della politica di intervent(ism)o pubblico che è stato una costante dell’economia italiana sino agli anni ‘80, quando i venti della globalizzazione e del (neo)liberismo hanno segnato una drastica inversione della rotta, sì da costringere, secondo un’accredita lettura, a ridimensionare il portato del comma 3 dell’art. 41 Cost. e da ricondurre per l’effetto ogni possibile limitazione della libertà di impresa entro l’alveo del comma precedente .
È significativo che proprio a quell’epoca, nel corso della quale si assistette ai primi tentativi di innesto dei diritti sociali in uno spazio giuridico sino ad allora dominato dalla primigenia dimensione economica , risalga la regolazione euro-unitaria in materia di licenziamenti collettivi, alla quale la disciplina nazionale, in precedenza affidata alla mera regolazione pattizia, ha dovuto necessariamente – e non senza fatica – conformarsi .
Non può essere infatti un caso che la dir. 75/129/CEE , della quale la vigente dir. 98/59/CE conserva l’impostazione di fondo, non intendesse in alcun modo mettere in dubbio il diritto del datore di lavoro di procedere ad una ristrutturazione .
Piuttosto, il legislatore europeo mirava a far sì che, nell’esercizio della liberty datoriale, si tenesse conto anche degli interessi antagonisti dei lavoratori : così si spiega la scelta di approntare un meccanismo di tutela consistente – non già nella fissazione di presupposti sostanziali per la valida intimazione dei licenziamenti collettivi, bensì – nella procedimentalizzazione del potere datoriale, atta a potenzialmente limitare, attraverso il coinvolgimento attivo dei rappresentanti dei lavoratori , il numero degli esuberi o comunque ad attenuarne le conseguenze sociali .
La procedimentalizzazione non si pone logicamente in contrasto, ma, anzi, postula l’esistenza del potere datoriale, al punto da renderne inutile l’espresso riconoscimento all’interno della normativa di rango secondario (Dir. 98/59/CE): del resto, la sua base giuridica, nell’opinione della Corte di Giustizia, si troverebbe in apicibus nella libertà di stabilimento, garantita dall’art. 49 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) e, soprattutto, nella libertà di impresa, protetta dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) .

4. Segue. La posizione della Corte di Giustizia Europea in Iraklis
Proprio il compromesso tra la necessità di proteggere i lavoratori e – mutuando l’espressione evocativa dell’Avv. Generale Wahl – “l’attenzione riconosciuta dalla Direttiva 98/58/CE ai datori di lavoro” si è posto al centro della discussa pronuncia Iraklis della Corte di Giustizia Europea .
La pronuncia pregiudiziale concerneva la normativa greca in materia di licenziamenti collettivi in base alla quale, in assenza di un accordo sindacale, il datore di lavoro poteva procedere al licenziamento solo qualora un’autorità pubblica, all’esito di una valutazione delle condizioni del mercato del lavoro, della situazione dell’impresa nonché dell’interesse dell’economia nazionale, non avesse negato, come nel caso oggetto del giudizio a quo , l’autorizzazione a realizzare, in tutto o in parte, i licenziamenti prospettati.
Ebbene, la Corte di Giustizia ha espressamente statuito che la libertà datoriale di procedere alla riduzione del personale possa essere legittimamente limitata per finalità di interesse generale, come quelle perseguite dal legislatore greco: se la libertà d’impresa “non costituisce una prerogativa assoluta, ma deve essere presa in considerazione rispetto alla sua funzione nella società” , le “considerazioni attinenti al mantenimento dell’occupazione possono costituire, in determinate circostanze e a certe condizioni, giustificazioni accettabili per una normativa nazionale avente l’effetto di ostacolare tale libertà” .
Al contempo, la Corte ha osservato che le restrizioni devono essere comunque proporzionate, non potendo giungere al punto di “vanificare la sostanza stessa della libertà di impresa”.
In questo senso, secondo il Giudice Europeo, le circostanze al ricorrere delle quali è possibile porre delle limitazioni alla libertà di impresa devono essere stabilite in modo chiaro, specifico e oggettivo .
È su questo aspetto che si sono concentrate le censure della Corte alla normativa greca, la quale, nella sua indeterminatezza, non consentiva ai datori di lavoro di comprendere quali fossero i criteri in base ai quali l’autorizzazione a procedere alla ristrutturazione venisse loro concessa o negata dall’Autorità pubblica nazionale.
Se si guardasse al mero dictum della pronuncia, si potrebbe senz’altro convenire con gli osservatori che hanno criticamente notato come il bilanciamento operato dai Giudici del Lussemburgo in Iraklis si sia orientato in senso liberistico , non diversamente da quanto avvenuto nel suo precedente Alemo-Herron e, ancor prima, nel c.d. Quartetto-Laval : del resto, si potrebbe difficilmente negare che, attraverso la valorizzazione delle esigenze di certezza delle imprese che, secondo la Corte, andrebbero ricondotte all’effetto utile della Dir. 98/59/CE , la liberty (i.e. le libertà economiche) abbia, ancora una volta, materialmente prevalso sulla freedom (i.e. i diritti sociali).
In realtà, non mancano neppure valide ragioni per vedere il “bicchiere mezzo pieno” dal punto di vista della seconda .
La Corte si è infatti distaccata dalle conclusioni dell’Avv. Generale Wahl, che aveva lamentato un pregiudizio immediato e diretto da parte della normativa greca, non tanto (o non solo) alla liberty imprenditoriale , quanto, addirittura, alla freedom dei lavoratori, sulla scorta del comune quanto trito argomento (recte, dell’assioma) secondo cui le rigidità, come quella in esame, condurrebbero alla disoccupazione e perciò arrecherebbero un grave nocumento alla forza lavoro .
Prendendo le distanze dall’approccio marcatamente neoliberista , (neo)lochneriano o “total market” che aveva segnato la cifra dell’era “Laval”, in Iraklis il Giudice Europeo ha invece aperto ad un bilanciamento “socialmente sensibile” tra la libertà di impresa e la difesa dell’occupazione , giungendo ad ammettere che, almeno teoricamente , la liberty possa trovare delle limitazioni in nome di una freedom che trova a sua volta spazio nel novero dei principi e dei valori ispiratori del diritto europeo (sociale e non).
In pochi avrebbero forse immaginato che tali spunti, contenuti nella prima parte della pronuncia, avrebbero potuto risultare di stretta attualità in una fase, come quella attuale, in cui – riprendendo una bella immagine – la Dolce Carlotta (i.e. l’Unione Europea) è chiamata, se non proprio costretta, a ritrovare nella solidarietà il perno del proprio equilibrio .

5. L’art. 14 d.l. 104/2020 alla prova di Iraklis
Come anticipato, in Iraklis la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nell’escludere una lettura assolutizzante della libertà di impresa, ha ammesso la legittimità delle restrizioni alla stessa che risultino: a) giustificate da motivi di interesse pubblico; ii) operanti in modo oggettivo e formulate in modo chiaro e comprensibile agli operatori economici; iii) proporzionate (non potendo giungere al punto di “vanificare l’essenza della libertà di impresa”).
Verrebbe, dunque, da chiedersi se, ferma restando la diversità tra la normativa greca (i.e. un sistema di autorizzazione amministrativa permanente) e quella italiana (i.e. un divieto temporaneo ed eccezionale) di riferimento, le limitazioni alla liberty imprenditoriale di procedere alla riduzione del personale poste dal blocco di cui al d.l. 104/2020 siano in grado di superare il “test Iraklis” .
Sul piano dell’oggettività, l’art. 14 d.l. 104/2020 non lascia alcuno spazio di discrezionalità all’autorità amministrativa (come nel caso greco) o all’eventuale intervento del giudice.
Piuttosto, è oggetto di discussione il ruolo della – eventuale – discrezionalità (i.e. volontà) del datore di lavoro rispetto all’operatività del divieto: ci si è infatti chiesti se quest’ultimo intervenga o meno laddove l’impresa decida di – o, semplicemente, non abbia i requisiti per – accedere alla cassa integrazione ovvero per fruire dei benefici contributivi .
Secondo una prima lettura, che pare più aderente anche al dato testuale, il divieto continuerebbe a operare (onde il riferimento alla “proroga”) fin tanto che l’impresa non esaurisca le ore di cassa oppure fruisca interamente dell’esonero .
Secondo una diversa veduta, il divieto entrerebbe invece in gioco solo laddove l’impresa scelga di usufruire degli ammortizzatori e degli esoneri, sino al loro esaurimento .
Va da sé che questa seconda opzione interpretativa escluderebbe in radice ogni nocumento alla – anzi, probabilmente, esalterebbe la – libertà di iniziativa economica , ma essa pare trovare un insuperabile scoglio nella ratio, prima che nella lettera, di un provvedimento che, a prescindere da ogni valutazione di merito, intende imporre un sacrificio ad una parte e non consentirle un calcolo costi/benefici ai fini dell’accesso ad uno strumento di sostegno .
Proprio con riguardo all’entità (i.e. intensità) del sacrificio richiesto alle imprese, assume un primario rilievo la circostanza che le stesse abbiano avuto la possibilità di accedere agli ammortizzatori sociali e/o agli sgravi contributivi : del resto, nelle parole dell’Avv. Generale Wahl in Iraklis, l’esistenza di un apposito “meccanismo compensativo” riduce inevitabilmente il vulnus arrecato agli interessi datoriali ed impedisce che la liberty di impresa venga “vanificata nella sua essenza”.
Non può infatti sfuggire il profondo nesso che lega la disciplina speciale degli ammortizzatori sociali con causale “Covid” ed il blocco dei licenziamenti .
Durante la fase iniziale (e più acuta) dell’emergenza, il ricorso ai primi, con modalità semplificate ed accelerate , è stato reso “sostanzialmente obbligatorio” e, soprattutto, universale, trovando riscontro nel divieto di avviare le procedure di licenziamento collettivo (e di intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo) imposto a tutte le imprese, comprese quelle decotte per ragioni extra o pre-Covid .
Nella versione successiva della normativa, invece, il legislatore ha opportunamente inserito una deroga all’irrecedibilità per le imprese fallite o costrette a cessare la propria attività , consentendo a queste ultime di chiudere , ma senza privare le imprese in difficoltà contingente della possibilità di continuare ad accedere agli ammortizzatori sociali (ad un costo variabile a seconda del relativo stato di crisi) .
La stessa idea di sostenere le imprese in crisi temporanea (tanto da avere fruito degli ammortizzatori sociali nei mesi di maggio e giugno 2020) e con possibilità di ripresa è, del resto, alla base dell’esonero contributivo di durata massima quadrimestrale previsto all’art. 3 d.l. 104/2020, (solo) all’esaurimento del quale (e comunque non oltre la fine dell’anno 2020) viene meno il divieto di licenziamento. Non per nulla, ove l’impresa sia invece (rimasta) in bonis e abbia l’esigenza di ricorrere a nuove assunzioni (o di trasformare i contratti a termine in rapporti sine die), l’esonero contributivo contemplato al successivo art. 6 d.l. 104/2020 non si pone in alcun modo in relazione con il blocco delle uscite, pienamente ed integralmente confermato. D’altro canto, come in ogni altra politica pubblica di incentivi all’assunzione , il “gioco” non potrà che risultare a somma positiva e non neutra, sì da doversi scongiurare il rischio, inter alia, di un turnover tra “vecchi e giovani” .
Da ultima, la deroga al blocco in caso di accordo sindacale parrebbe a prima vista trovare giustificazione nella prospettiva dello sviluppo del dialogo sociale in tempi di pandemia .
È pur vero però, che, a differenza dei protocolli in materia di sicurezza, la contrattazione collettiva (aziendale) funge essenzialmente da strumento di flessibilità, autorizzando le parti collettive – N.B.: non le sole RSU o RSA – a derogare al divieto di licenziamento attraverso l’apposizione di una clausola che consente poi alle parti del contratto individuale di lavoro di sciogliere il rapporto senza privare il lavoratore del diritto alla Naspi .
Guardando proprio al coinvolgimento delle parti sociali, la disposizione parrebbe svolgere il ruolo di complemento dell’art. 1, comma 2, lett. l), del “decreto liquidità” (d.l. 8 aprile 2020, n. 23, conv. senza modifiche sul punto con l. 5 giugno 2020, n. 40), che ha posto in capo alle imprese che beneficino della garanzia pubblica nell’accesso al credito l’obbligo (o, in una diversa prospettazione, l’onere) di “gestire i livelli occupazionali mediante accordi sindacali” . Tuttavia, è stato giustamente osservato in dottrina che mentre quest’ultimo impegno si estende per l’intero arco temporale dei finanziamenti pubblici per cui è erogata la garanzia (ossia fino a sei anni), tanto da porsi quale possibile prologo allo sviluppo di relazioni industriali partecipative, il blocco è temporaneo e contingente ed ivi il ruolo del sindacato è sostanzialmente limitato all’avallo degli accordi individuali di risoluzione del rapporto di lavoro .
Trattandosi, oltretutto, di risoluzioni consensuali che si inseriscono in una speciale fattispecie a formazione progressiva innescata all’accordo sindacale , si sarebbe comunque al di fuori del campo di applicazione della materia dei licenziamenti collettivi e della relativa procedura , a meno di non voler valorizzare – ma probabilmente sarebbe una fuga in avanti – il recente revirement della Cassazione che, richiamando alcuni precedenti del Giudice europeo , ha da ultimo statuito che il recesso successivo alla mancata adesione ad una proposta di modifica sostanziale delle condizioni contrattuali possa venire in rilievo ai fini dell’applicazione della normativa in parola .

6. Il primato della solidarietà in tempi di emergenza…
Riprendendo l’indimenticabile insegnamento di Luigi Mengoni, il dovere di solidarietà, quale principio giuridico fondativo dell’architettura costituzionale e “valore non negoziabile” , impone ai consociati – e, si potrebbe aggiungere, ai membri di un’Unione non solo economica – di “sobbarcarsi, in proporzione delle proprie possibilità, al peso comune costituito dai costi dello stare insieme in società” .
Guardando al blocco dei licenziamenti attraverso tale lente , non si può non porre in evidenza che, durante la drammatica stagione della pandemia, i sacrifici non abbiano risparmiato nessuno, compresi gli stessi lavoratori, costretti, a seconda delle circostanze, ad operare “in prima linea”, dal proprio domicilio (e non sempre in condizioni tali da garantire la conciliazione vita-lavoro perseguita dal “vero” lavoro agile), o a subire la sospensione del rapporto (e, di conseguenza, la decurtazione dell’introito mensile).
Dal punto di vista delle imprese, poi, l’indubbia limitazione della liberty di riorganizzare la propria attività è stata, come detto, quanto meno parzialmente compensata dall’accesso agevolato agli ammortizzatori sociali , pur con i tutt’altro che commendevoli ritardi da parte dei soggetti istituzionali incaricati della gestione dell’istituto.
Soprattutto, un argomento decisivo a favore della legittimità del blocco si può ricavare dai precedenti della Corte Costituzionale sulle misure adottate durante l’emergenza – non epidemiologica, bensì – petrolifera .
In tale contesto, il Giudice delle leggi è infatti giunto ad escludere, proprio sulla scorta dell’eccezionalità del momento e delle sottese ragioni di interesse generale, l’incostituzionalità di alcune disposizioni, di carattere transitorio e strettamente temporaneo, che altrimenti non avrebbero superato il vaglio .
Non per nulla, nei casi in cui il legislatore ha deciso di rendere l’intervento strutturale, il provvedimento è inevitabilmente incorso nella dichiarazione di incostituzionalità .
Non si vede come tali considerazioni non possano estendersi al blocco dei licenziamenti, che, se allo stato può trovare giustificazione nell’eccezionalità del momento e nelle correlate istanze di solidarietà, potrebbe difficilmente resistere alla censura del giudice delle leggi in ipotesi di proroga, rinnovo e, a maggior ragione, “stabilizzazione” .

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7…e la doverosa ricerca di nuovi equilibri nella stagione post-pandemica
A prescindere dalle questioni di costituzionalità, alcuni tra i più autorevoli economisti si sono espressi in favore dell’opportunità di ricorrere al blocco dei licenziamenti ai fini di scongiurare gli effetti potenzialmente dirompenti della pandemia sul tessuto occupazionale .
Le stesse voci, però, non hanno mancato di sottolineare come, tamponata l’emorragia, fosse necessario passare dal sostegno statuale esterno alla progettualità, in modo tale da governare e non subire la fase di trasformazione del lavoro che inevitabilmente seguirà la grande crisi .
Il fondamento lavoristico della Repubblica, d’altro canto, imporrebbe, secondo una celebre lettura, che il lavoro non sia condizionato dalla politica ma, piuttosto, il contrario : di tal guisa, sarebbe quanto mai opportuno indirizzarsi, anche grazie agli agognati “aiuti” europei, verso lo sviluppo effettivo e non cartolare delle politiche attive e, soprattutto, puntare su una politica seria di incentivi all’assunzione .
In questo modo, oltre a promuovere il lavoro “che non c’è” , il decisore politico dimostrerebbe di riporre nuovamente fiducia nel mercato (regolato) e nelle imprese, dopo aver imposto a queste ultime non pochi sacrifici nel corso della fase dell’emergenza .
Del resto, non sembra che le due – non necessariamente – alternative vie del prolungato assistenzialismo e del ritorno allo Stato-imprenditore siano in grado, riprendendo il leit motiv dell’intera riflessione, di adeguatamente contemperare i valori della freedom e della liberty. Sed de hoc satis.

 

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