Testo integrale con note e bibliografia

1. L’art. 14, DL, 14 agosto 2020, n. 104 (nel prosieguo DL) ha confermato il divieto di licenziamento già previsto dall’art. 46, DL, 17 marzo 2020, n. 18, convertito con L, 24 aprile 2020, n. 27 finalizzato a tutelare l’occupazione dei lavoratori messa a grave rischio dalle conseguenze della pandemia.
L’art. 14, co. 1 esordisce affermando che il licenziamento “resta precluso”, enunciando così l’intenzione di procedere in continuità rispetto all’art. 46, ma in realtà il legislatore disciplina il divieto in netta discontinuità, in quanto tale divieto non è più sottoposto ad un termine (fissato dall’art. 46 prima in sessanta giorni e, poi, in cinque mesi) che ne rendeva uniforme l’applicazione nei confronti di tutti i datori di lavoro, ma è subordinato a “condizioni” (definite tali, a dimostrazione della loro rilevanza, nel co. 2, dell’art. 14 con riferimento al GMO) nuove e in precedenza non previste che ne modificano l’ambito applicativo.
Quindi mentre l’art. 46 impediva, in modo generalizzato ed inderogabile, qualsiasi licenziamento per ragioni economiche, l’art. 14 collega il divieto alla fruizione delle integrazioni salariali (art. 1, DL) o all’esonero contributivo (art. 3, DL) che il legislatore ha messo a disposizione dei datori di lavoro, precisando ulteriormente che l’operatività del divieto permane fino a che tale fruizione non è integralmente avvenuta.
Inoltre la declinazione del divieto di licenziamento è ben diversa rispetto a quella dell’art. 46 in tutti e tre i punti che la connotano: a) il divieto di licenziamento in senso stretto (co. 1 e 2); b) le eccezioni a tale divieto (co. 3); c) la revoca del licenziamento (co. 4).
Non sembra possibile, quindi, nutrire dubbi sulle differenza di presupposti del divieto di licenziamento (ieri) nell’art. 46 e (oggi) nell’art 14 con un risultato complessivo che rende tale divieto più flessibile rispetto a quello dell’art. 46 (perché non opera in modo generalizzato ed indistinto, ma si applica solo nei confronti dei datori di lavoro che si avvalgono delle integrazioni o dell’esonero) ed anche mobile (in quanto la sua durata è, comunque, variabile in relazione ai tempi diversificati di fruizione delle integrazioni o dell’esonero).
Se questa affermazione appare difficilmente contestabile, ben più complicata è la questione relativa all’identificazione dell’esatto contenuto delle condizioni cui è subordinato il divieto di licenziamento che sono formulate in modo oscuro e complesso a causa del non facile compromesso raggiunto dalla maggioranza di Governo su questo tema che ha indotto, probabilmente, ad esprimere cripticamente il risultato di tale mediazione.
L’esito applicativo dell’art. 14 causato dalle segnalate incertezze appare scontato e sarà quello di un blocco di fatto (ma non di diritto) dei licenziamenti a cui il datore di lavoro preferirà rassegnarsi per evitare i rischi del contenzioso giudiziario ed i suoi oneri, valutandoli comparativamente con la riduzione del costo del lavoro di cui può beneficiare usufruendo delle integrazioni (art. 1) o dell’esonero (art. 3) previsti nell’arco temporale che arriva fino al 31 dicembre 2020.
Peraltro a queste incertezze imputabili al dato normativo si aggiungono altre difficoltà che rendono ancor più complesso il quadro di riferimento all’interno del quale il datore di lavoro deve effettuare le sue scelte in funzione delle strategie aziendali che dovranno tener conto di molteplici fattori economici e sociali: le previsioni di ripresa dei mercati per l’anno 2021, le tensioni sindacali e sociali che i licenziamenti comunque determinerebbero, anche il rischio del contenzioso giudiziario e, financo, quello reputazionale (a livello territoriale e nazionale) per le ripercussioni dei licenziamenti, ancorché legittimi.

2. Quanto da ultimo accennato mette in evidenza l’importanza delle alternative al licenziamento economico previste dall’art. 14, co. 3 in forma di eccezione al relativo divieto e, segnatamente, di quella riferita alle “ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, a detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22”.
Di sicuro questa è, sul piano sistematico ed applicativo, l’eccezione più significativa prevista dall’art. 14, co. 3.

Infatti consente un’applicazione generalizzata rispetto alle altre due che sono ben più circoscritte in quanto il licenziamento è possibile soltanto nelle tassative ipotesi di liquidazione della società per cessazione di attività o di fallimento, cioè quando l’attività imprenditoriale è venuta meno o è minata dal dissesto economico e con essa la premessa necessaria per garantire l’occupazione del personale dipendente.

Sul piano sistematico, poi, il congegno elaborato dal legislatore per la risoluzione del rapporto di lavoro si evidenzia per l’originalità della soluzione elaborata che si fonda sulla combinazione di tre diversi profili: quello dell’accordo collettivo che costituisce la premessa necessaria per raccogliere, poi, l’adesione individuale volontaria del singolo lavoratore che determina l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, con l’attribuzione della tutela previdenziale derivante dal riconoscimento della Naspi.

3. Si deve subito precisare che la norma in esame, a ben vedere, non dà vita ad una deroga al divieto di licenziamento sancito dall’art. 14, co. 1, in quanto le risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro o le dimissioni del lavoratore costituiscono alternative sempre possibili e praticate anche in costanza del divieto di licenziamento sia nel regime dell’art. 46 che dell’art. 14.
Si tratta, piuttosto, di una speciale fattispecie di risoluzione consensuale del contratto di lavoro a formazione progressiva che viene innescata dall’accordo sindacale concluso in sede aziendale che può incorporare (secondo una delle possibili formulazioni dell’accordo di cui si dirà in seguito) anche la proposta irrevocabile del datore di lavoro e si completa con l’eventuale adesione del dipendente che, nel loro insieme, producono l’effetto estintivo del rapporto di lavoro ed il diritto del lavoratore alla Naspi.
Né sembra possibile contestare che la risoluzione prevista dall’art. 14, co. 3 abbia natura consensuale.
Infatti se è pur vero che il legislatore si riferisce alle “risoluzione del rapporto di lavoro”, senza aggiungere che essa è consensuale, è fin troppo agevole rilevare che l’effetto estintivo si produce soltanto a seguito della adesione espressa volontariamente da ogni singolo lavoratore, quindi senza il consenso individuale del lavoratore la risoluzione non si perfeziona.
La manifestazione di volontà del datore di lavoro finalizzata a risolvere il rapporto di lavoro è contenuta, come si è detto (aggiungendo che questa è una delle variabili possibili che si esamineranno in seguito), nell’accordo aziendale con la sottoscrizione del quale il datore di lavoro, quindi, non solo perfeziona tale accordo, ma si vincola anche nei confronti dei lavoratori (ai quali l’accordo fa riferimento) a recepire le loro (eventuali) accettazioni alla proposta di risoluzione inserita nell’accordo sindacale.
Ciò consente di ribadire che non è certo l’accordo aziendale (neppure una volta che sia stato associato all’adesione del dipendente) a produrre la risoluzione del rapporto di lavoro, in quanto tale accordo, come precisa lo stesso legislatore, ha solo la funzione “di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro” che quindi si configura pur sempre come atto bilaterale di autonomia individuale e non collettiva che interviene tra il datore ed il prestatore di lavoro.

4. Quanto appena detto sulla natura consensuale della risoluzione del rapporto di lavoro indotta dall’accordo aziendale previsto dall’art. 14, co. 3, consente di aggiungere qualche ulteriore osservazione con riferimento a tre distinti punti per evidenziare che: a) il perfezionamento dell’accordo non richiede l’apertura di una procedura di licenziamento collettivo in base agli artt. 4 e 24, L 23 luglio 1991, n. 223, in quanto l’accordo non è parte di quella procedura né il legislatore lo inserisce o riconduce ad essa e si distingue nettamente dagli accordi che, diversamente da quello in esame, sono eventuali e possono chiudere la procedura di confronto sindacale (art. 4, co. 9, L n. 223/1991) con la precipua finalità di stabilire, d’intesa con il sindacato, i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare; b) nell’accordo aziendale le parti stipulanti non devono neppure formalizzare una dichiarazione di eccedenza di personale, a guisa di certificazione necessaria per la produzione degli effetti (il riconoscimento della NASPI) che il legislatore collega all’accordo; c) salvo quanto si dirà in seguito, il datore di lavoro non può, nemmeno, scegliere di avviare le trattative prodromiche all’accordo utilizzando la procedura di riduzione di personale prevista dall’art. 4, L n. 223/1991.
Si tratta di tre distinti profili ai quali, seppur brevemente, occorre accennare per comparare – mettendone in evidenza le differenze - l’accordo previsto dall’art. 14, co. 3 con altri casi analoghi presenti nel nostro ordinamento di rinvio all’accordo sindacale per la gestione dei lavoratori eccedenti.
Ad esempio l’art. 8, co. 3, DL 20 maggio 1993, n, 148 consente di utilizzare il distacco per gestire situazioni di eccedenza di personale. La legittimità di tale distacco è subordinata alla conclusione di “accordi sindacali” nei quali, però, deve essere indicato espressamente che sono stipulati “al fine di evitare le riduzioni di personale”. In questo caso, quindi, pur non essendo necessaria l’apertura di una procedura di licenziamento collettivo ex art. 4, L n. 223/1991, l’accordo sindacale deve attestare la funzione del distacco di misura alternativa (in tutto o in parte) al licenziamento collettivo.
In un'altra ipotesi, l’art. 4, co. 1, L 28 giugno 2012, n. 92 prevede la possibilità di “incentivare l’esodo dei lavoratori più anziani” mediante “accordi tra datori di lavoro … e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello aziendale” con i quali “il datore di lavoro si impegni a corrispondere ai lavoratori una prestazione di importo pari al trattamento di pensione che spetterebbe in base alle regole vigenti, ed a corrispondere all’INPS la contribuzione fino al raggiungimento dei requisiti minimi per il pensionamento”. Il legislatore, in questo caso, indica anche una modalità alternativa, in quanto “la stessa prestazione può essere oggetto di accordi sindacali nell’ambito di procedure ex articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero nell’ambito di processi di riduzione di personale dirigente conclusi con accordo firmato da associazione sindacale stipulante il contratto collettivo di lavoro della categoria”.
Nel caso che ci occupa, invece, l’accordo aziendale previsto dall’art. 14, co. 3 non richiede, come si è detto, né la dichiarazione di eccedenza del personale e non può essere formalmente veicolato e incardinato in una procedura di riduzione di personale ex L n. 223/1991 che ne snaturerebbe la funzione di atto collettivo autorizzativo della risoluzione consensuale incentivata dal riconoscimento della NASPI.
Con quanto appena detto non si vuole, però, escludere che nella pratica delle relazioni sindacali si possa arrivare in via indiretta all’accordo sindacale dell’art. 14, co. 3.
Infatti l’ambivalenza da sempre e frequentemente registrata in sede applicativa tra CIGS e licenziamento per riduzione di personale potrebbe riemerge anche nella gestione delle eccedenze di personale che si presenteranno di qui al 31 dicembre 2020, cioè nel vigore degli artt. 1 (integrazioni salariali) e 14, co. 1 (divieto di licenziamento), DL.

Il caso potrebbe riguardare un datore di lavoro che – non fruendo delle integrazioni salariali (art. 1) o dell’esonero contributivo (art. 3) – dovesse avviare una procedura di licenziamento collettivo sul presupposto della legittimità della stessa. A fronte di tale iniziativa è fin troppo facile immaginare che il sindacato reagirà sollecitando l’azienda ad utilizzare le integrazioni salariali dell’art. 1, DL evitando (rectius: differendo) così i licenziamenti. In questa prospettiva il confronto sindacale finirà per toccare il tema dei maggiori costi che comporterebbe per il datore di lavoro il ricorso alle “ulteriori nove sette settimane di trattamenti” di integrazione salariale (art. 1, co. 2), insieme a quello della riduzione del costo dei lavoratori divenuti improduttivi che, comunque, il datore di lavoro potrebbe realizzare fino al 31 dicembre 2020 utilizzando le integrazioni ed evitando, così, i rischi del contezioso giudiziario e le tensioni sindacali che inevitabilmente conseguirebbero al licenziamento.
In questo contesto così articolato potrebbe accadere che le parti decidano di concludere (unitamente alle integrazioni salariali dell’art. 1) l’”accordo collettivo aziendale … di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro”. Sarà però necessario abbandonare formalmente la procedura di licenziamento collettivo che avrà avuto soltanto la funzione di veicolo del predetto accordo aziendale dovrà essere stipulato con i sindacati a ciò legittimati dal legislatore (e non, quindi, con le RSA o la RSU).

Del resto la possibilità prevista dell’art. 14, co. 3 presenta molte analogie con la pratica degli accordi sindacali di chiusura delle procedure di licenziamento collettivo che individuano i lavoratori da licenziare in quelli che non si oppongono al licenziamento (la mobilità c.d. volontaria, riservata ai lavoratori che manifestano preventivamente la volontà di accettare il licenziamento), con qualche differenza non trascurabile, ad esempio di escludere il diritto al preavviso per il lavoratore conseguente al licenziamento collettivo (che comporta le ben note conseguenze contributive), ma anche la “precedenza nella riassunzione presso la medesima azienda entro sei mesi” dal licenziamento collettivo ex art. 15, co. 6, L 29 aprile 1949, n. 264 e, infine, la difficoltà di invocare la sospensione dell’obbligo di assunzione dei lavoratori disabili prevista dall’art. 3, co. 5, L. 12 marzo 1999, n. 68 (un aspetto quest’ultimo in alcuni casi di non trascurabile rilievo).
Anzi a ben vedere la fungibilità è pressoché totale tra l’accordo di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro dell’art. 14, co. 3 e le procedure di riduzione di personale riservate ai lavoratori che non si oppongono al licenziamento, almeno per quelle aziende (normalmente di dimensioni medio-grandi e che si muovono in un contesto di relazioni sindacali partecipative) che, come dimostra l’esperienza applicativa, hanno utilizzato le procedure di riduzione del personale solo su base volontaria.

5. Sempre nella prospettiva dell’esplorazione dei modelli di riferimento, si può osservare che la soluzione adottata dal legislatore nell’art. 14, co. 3 si ispira a quella dell’art. 7, L, 15 luglio 1966, n. 604 (così come modificato dall'art. 1, co. 40, L. n. 92/2012) che, com’è noto, prevede l’obbligo del datore di lavoro di avviare una procedura preventiva al licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei lavoratori assunti entro il 6 marzo 2015.
In questo caso il datore di lavoro è obbligato - prima del licenziamento la cui legittimità è, quindi, subordinata all’esperimento della procedura - ad effettuare una comunicazione all’Ispettorato territoriale del lavoro che convocherà il datore di lavoro ed il dipendente per “esaminare anche soluzioni alternative al recesso” e, se “la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro”, il lavoratore potrà eccezionalmente beneficiare della NASPI che, di regola, non è dovuta se il dipendente ha volontariamente determinato la cessazione del rapporto di lavoro.
Com’è noto l’attribuzione della NASPI - nelle sue due componenti, quella indennitaria e quella conseguente al riconoscimento dell’anzianità contributiva - ha avuto un notevole effetto nell’agevolare la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, in quanto funge da co-finanziamento che consente, in definitiva, di incrementare l’importo dell’incentivo all’esodo riconosciuto dal datore di lavoro al dipendente a fronte dell’estinzione del rapporto di lavoro.
Ciò è dimostrato anche da quanto avviene nella prassi applicativa quando, spesso, si ricorre alla simulazione del licenziamento, che dà diritto al lavoratore di beneficiare della NASPI, per poi transigere la controversia relativa a tale licenziamento con il pagamento di una somma che è assoggettata allo stesso regime fiscale e di esenzione contributiva dell’incentivo versato a fronte di una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.
Con l’art. 14, co. 3 il legislatore si è spinto oltre l’art. 7, L. n. 604/1966, equiparando, al fine del riconoscimento della NASPI, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta in sede di Ispettorato territoriale del lavoro, con quella conseguente all’accordo aziendale con funzione, per così dire, autorizzativa non già del patto estintivo del rapporto di lavoro, bensì dell’erogazione del trattamento di disoccupazione che, altrimenti, non sarebbe dovuto.
Quindi, mentre resta escluso il diritto alla NASPI nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro convenuta tra datore e prestatore di lavoro seppure nel periodo di vigenza dell’art. 14, la preventiva stipulazione dell’accordo aziendale, al pari della conciliazione intervenuta nel corso della procedura ex art. 7, L n. 604/1966, consente l’accesso al beneficio della NASPI.
Come si dirà in seguito la norma in esame è destinata a produrre i suoi effetti limitatamente al periodo di efficacia temporale dell’art. 14 (31 dicembre 2020), ma l’utilità del modello - che sarà dimostrata dalla sua positiva sperimentazione - dovrebbe convincere il legislatore a rendere strutturale per il futuro una modalità – anche diversa dall’accordo sindacale aziendale – di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, incentivata accordando la NASPI.

6. Come si è detto il presupposto per la realizzazione della risoluzione disciplinata dall’art. 14, co. 3 è l’”accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale”.

Anche in questo caso, come in molte altre occasioni, il rinvio del legislatore all’accordo sindacale pone alcuni problemi inerenti all’interpretazione dei criteri adottati per circoscrivere tali accordi legittimandone alcuni e, quindi, escludendone, altri.

La selettività esercitata dal legislatore con l’art. 14, co. 3 riguarda il livello aziendale dell’accordo ed i sindacati stipulanti.

Quanto al primo punto il legislatore circoscrive la legittimazione ai soli accordi aziendali, quindi escludendo quelli territoriali o nazionali che potrebbero semmai (ma si tratta di un’ipotesi di non facile realizzazione) soltanto dettare norme-quadro per agevolare ed indirizzare quelli aziendali.
Agli accordi aziendali possono essere equiparati quelli c.d. di gruppo che si applicano nei confronti di tutte le società appartenenti allo stesso gruppo. Infatti l’ambito applicativo di questi accordi è pur sempre quello aziendale anche se la firma dell’accordo avviene da parte della sola società capo-gruppo per delega (formale o informale) delle altre società del gruppo.
La scelta del legislatore si fonda su solide ragioni in quanto solo a livello aziendale può essere apprezzata l’esigenza di agevolare l’esodo del personale dipendente, ma pone un problema per i datori di lavoro di piccole dimensioni che non hanno (né, a dire la verità, intendono coltivare) alcuna relazione con il sindacato, con la conseguenza che per loro e per il personale dipendente sarà assai difficile accedere alla risoluzione consensuale incentivata dalla NASPI prevista dall’art. 14, co. 3.
In questo caso potrebbe essere utile riflettere – pur tenendo conto delle oggettive diversità e del breve arco temporale di applicazione dell’art. 14, co. 3 – sulla possibilità di replicare con riferimento agli accordi aziendali richiamati da questa norma le soluzioni già sperimentate dall’Accordo interconfederale 14 luglio 2016 che consente alle imprese, dove non è costituita una RSA, di accedere ad una contrattazione di secondo livello la cui applicazione è necessaria perché i dipendenti possano beneficiare dell’imposta sostitutiva applicabile ai premi variabili in relazione alla produttività negoziati in sede aziendale o territoriale.
Passando al secondo punto, si deve ricordare che gli accordi aziendali di cui all’art. 14, co. 3, devono essere firmati dal datore di lavoro e “dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale”.
La norma utilizza, com’è noto, un’espressione ricorrente nel nostro ordinamento che, per un verso, consente con certezza di escludere le RSA o la RSU dal novero dei soggetti legittimati a sottoscrivere tali accordi, ma, per altro verso, solleva le consuete incertezze per quanto riguarda sia l’identificazione dei sindacati abilitati sia la possibilità di stipulare accordi separati.
Per quanto riguarda l’esclusione delle RSA o della RSU sarebbe auspicabile un ripensamento del legislatore, quanto meno utilizzando la collaudata formula, prevista per la prima volta nell’art. 8, co. 1, DL 13 agosto 2011, n. 138 e poi replicata nell’art. 51, D. lgs., 15 giugno 2015, n. 81, che seleziona nell’ambito delle rappresentanze aziendali quelle riconducibili (dice il legislatore le “loro”) ai sindacati comparativamente più rappresentativi.
Con riferimento a questi sindacati la scelta del legislatore di utilizzare la preposizione articolata “dalle” anziché la preposizione semplice “da” “organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale” evidenzia, secondo una tradizionale esperienza, la volontà di una maggiore selettività nell’individuazione dei sindacati legittimati a sottoscrivere l’accordo aziendale che, quindi, sembra possibile identificare nelle associazioni nazionali di categoria (ovviamente anche nelle loro articolazioni territoriali) firmatarie del CCNL applicato dal datore di lavoro e, più precisamente, se non tutte, almeno quelle che vantano la maggiore rappresentatività rispetto alle altre.

7. Si è già detto che l’accordo aziendale previsto dall’art. 14, co. 3 non ha un contenuto univoco, ma può assumere contenuti variabili in base alle scelte di volta in volta effettuate delle parti stipulanti.

Infatti l’accordo aziendale si può limitare ad autorizzare le risoluzioni consensuali dei rapporti di lavoro che, poi, il singolo datore di lavoro concluderà con ogni lavoratore interessato individuandone le condizioni e, all’opposto, potrà invece disciplinare compiutamente tali condizioni, rimettendo al lavoratore soltanto la decisione in ordine all’adesione che è necessaria per perfezionare la risoluzione a seguito della quale si produce l’effetto estintivo del rapporto di lavoro.

Quale che sia la soluzione preferita dalle parti stipulanti l’accordo aziendale rispetto alle due ipotizzate (o tutte quelle intermedie che si possono immaginare), non c’è dubbio sulla necessità di regole finalizzate a disciplinare le risoluzioni dei rapporti di lavoro.

La scelta, quindi, è se uniformare queste regole (o anche solo alcune di esse) nell’accordo aziendale, con la conseguenza di predeterminarle in modo vincolante o lasciare che esse siano concordate dal datore di lavoro con ogni singolo dipendente.

Nella prima ipotesi sarà, quindi, necessario individuare nell’accordo aziendale i lavoratori che potranno accedere alle risoluzioni: tutti quelli dipendenti dal datore di lavoro firmatario dell’accordo oppure soltanto alcuni di essi, ponendo in questo caso limiti quantitativi o riferiti alle condizioni personali dei lavoratori (collegate, ad esempio, al raggiungimento dei requisiti per la pensione o anche alle ridotte capacità lavorative), ma anche escludendo dalla risoluzione alcune categorie di lavoratori o anche singoli dipendenti necessari all’impresa. Sarà anche indispensabile individuare il termine finale entro il quale le adesioni individuali dovranno pervenire al datore di lavoro, nonché la data in cui si dovrà verificare l’estinzione del rapporto di lavoro che potrebbe essere anche rimessa all’indicazione del lavoratore, ma fissando un termine entro il quale, una volta intervenuta l’adesione, l’estinzione si riterrà comunque avvenuta.

Non c’è dubbio però che la condizione più rilevante riguarda, soprattutto, l’incentivo economico che il lavoratore riceverà a fronte dell’adesione all’accordo aziendale ed alla conseguente risoluzione che estingue il rapporto di lavoro.
In relazione a tale incentivo si deve, in primo luogo, evidenziare che la sua erogazione, sebbene molto probabile, non è necessariamente imposta dall’art. 14, co. 3, con l’effetto di rendere in questo caso (eccezionalmente) onerosa la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.
Infatti nella formulazione utilizzata dal legislatore (“accordo collettivo aziendale … di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro”), oggetto di “incentivo” è la risoluzione del rapporto di lavoro. Risoluzione che costituisce l’obiettivo al quale tendono le parti stipulanti l’accordo sindacale e che il legislatore vuole favorire consentendo al lavoratore (o, meglio, ai lavoratori indicati nell’accordo nel caso in cui l’individuazione sia selettiva) di beneficiare della NASPI che, quindi, costituisce l’incentivo offerto dal legislatore per agevolare gli accordi di risoluzione del rapporto di lavoro.
Come già detto, in alternativa alla formulazione dell’accordo aziendale nei termini più sopra ipotizzati, è anche possibile, anzi probabile, che tale accordo abbia un contenuto molto semplificato, limitandosi ad autorizzare le risoluzioni del rapporto di lavoro che le parti (prestatore e datore di lavoro) intenderanno convenire per accedere alla NASPI. In questo solo caso le condizioni della risoluzione consensuale - che dovrà avvenire nelle forme previste dall’art. 26, D. lgs., 14 settembre 2015, n. 151 - saranno pattuite bilateralmente tra prestatore e datore di lavoro.
Come già detto uno dei punti più rilevanti della risoluzione del rapporto di lavoro, è quello dell’erogazione di un incentivo all’esodo, questione che si collega strettamente (se non inscindibilmente), come dimostrano le esperienze maturate nell’applicazione pratica, con quella della distinta transazione generale finalizzata ad estinguere ogni possibile pretesa relativa al rapporto di lavoro, acquisendo in tal modo la certezza di evitare ogni futura rivendicazione. Tali transazioni, però, dovranno essere sottoscritte, a pena della loro validità, nelle sedi previste dall’art. 2113, co. 4, cod. civ., con la conseguenza che anche l’adesione del lavoratore dell’accordo aziendale troverà in questa occasione un’ulteriore (anche se non necessaria) conferma.

8. Una volta stipulato l’accordo aziendale l’effetto estintivo del rapporto di lavoro si produrrà “limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo”.

Sembra, quasi, che per l’estinzione del rapporto di lavoro sia sufficiente la dichiarazione unilaterale del lavoratore (non viene nemmeno prevista la forma scritta) di adesione all’accordo aziendale che abbia regolato compiutamente le condizioni della risoluzione del rapporto di lavoro, quindi senza neppure la necessità di stipulare in questo caso un ulteriore accordo bilaterale di risoluzione consensuale tra il dipendente ed il datore di lavoro nelle forme dell’art. 26, D. lgs., n. 151/2015 (che sarà, invece, necessario, come si è detto, se l’accordo aziendale non disciplina le condizioni della risoluzione del rapporto di lavoro).
Ipotesi possibile, ma poco probabile in quanto come si è detto la risoluzione sarà agevolata con l’erogazione di un incentivo all’esodo che si accompagnerà ad una transazione generale nelle sedi previste dall’art. 2113, co. 4 nelle quali si ribadirà anche la volontà risolutiva delle parti del rapporto di lavoro.
Sarà anche possibile che, come accade non di rado, le parti individuali nel convenire la risoluzione del rapporto di lavoro differiscano l’effetto estintivo del rapporto di lavoro fissando un termine.
Ad esempio non si può escludere che, stipulato l’accordo aziendale e successivamente la risoluzione del rapporto di lavoro, l’estinzione sia differita al 30 dicembre 2020 e che il lavoratore venga sospeso e posto in CIGO-Covid fino a tale data, non essendo la risoluzione prevista dall’art. 14, co. 3 posta in alternativa alle integrazioni salariali dell’art. 1, DL (come invece avviene per l’esonero contributivo).

9. Quanto da ultimo detto, induce a dedicare un solo cenno al complesso tema dell’efficacia temporale della risoluzione disciplinata dall’art. 14, co. 3.

Appare sufficientemente chiaro che tale norma opererà fin tanto che saranno in vigore le “preclusioni e le sospensioni” dei licenziamenti previsti dai co. 1 e 2 dello stesso art. 14, essendo stata dettata dal legislatore come eccezione al divieto di licenziamento ivi previsto.

Si può quindi dire che la vigenza della norma non potrà andare oltre il 31 dicembre 2020 o, comunque, prima se dovesse venir meno in capo al datore di lavoro il divieto di licenziamento (ad esempio con l’esaurirsi dell’esonero contributivo).

Il punto più delicato riguarda il caso già esemplificato dell’accordo di risoluzione del rapporto di lavoro convenuto tra le parti con differimento dell’effetto estintivo, quando tale effetto viene dilazionato oltre il 31 dicembre 2020.

Al riguardo sembra possibile dire che la fattispecie in esame prevista dall’art. 14, co. 3 si deve necessariamente e compiutamente realizzare in vigenza di tale norma, quindi entro il 31 dicembre 2020. Ma tale affermazione riguarda le due componenti della fattispecie, cioè l’accordo aziendale e la successiva risoluzione del rapporto di lavoro pattuita tra le parti che, quindi, potrà anche prevedere il differimento del termine in cui si produce l’effetto estintivo, in quanto è tale effetto che si colloca oltre la vigenza della norma e non la pattuizione con la quale il termine è stato convenuto.

Peraltro questa possibilità non trova ostacoli neppure nella disciplina della NASPI la cui erogazione non è limitata all’anno 2020, ma avverrà anche negli anni successivi. Né si può dire che l’art. 14, co. 3 nell’attribuire al lavoratore il diritto del lavoratore alla NASPI lo condiziona al momento in cui è stata convenuta la risoluzione del rapporto di lavoro, anzi al contrario per il legislatore “è comunque riconosciuto il trattamento di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22”.

 

10. Il tema appena toccato, solleva il dubbio sull’obbligo del datore di lavoro che ha convenuto la risoluzione del rapporto di lavoro ex art. 14, co. 3, di versare il contributo di finanziamento della NASPI che l’art. 2, co. 31, L n. 92/2012 pone a carico del datore di lavoro “nei casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che, indipendentemente dal requisito contributivo, darebbero diritto all’ASpI [oggi NASPI]”, fatte salve le ipotesi tassativamente previste dallo stesso art. 2, co. 34.

Infatti si potrebbe osservare che la risoluzione consensuale de rapporto di lavoro, pur determinandone l’estinzione, non rientra in via generale tra le “causali” che danno diritto alla NASPI e ciò potrebbe valere anche per la speciale risoluzione ex art. 14, co. 3.

Ma appare agevole replicare che il contributo è dovuto perché tale risoluzione, proprio in forza dell’art. 14, co. 3, costituisce oggi una delle causali idonee al riconoscimento della NASPI, una volta che, a questo titolo, si sia determinata l’interruzione (estinzione) del rapporto di lavoro.

 

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