TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa. A partire dal primo provvedimento d’urgenza, il d.l. n. 18 del 2020 che ha cercato di mitigare gli effetti sociali della pandemia in corso, l’Italia sino al recente d.l. n. 41 del 2021 ha adottato quello che è stato subito individuato, anche nei media e nell’immaginario popolare, come un “blocco dei licenziamenti”, prorogato di volta in volta, anche se con modalità diverse (che riguardano sia il profilo delle deroghe che quello della precisa scadenza del divieto, sia infine, la correlazione con il regime delle casse integrazioni e il loro costo), da ultimo per le imprese che usufruiscono della Cigo sino al 30.giugno 2021 e per quelle che, invece, hanno accesso al FIS, alla Cassa in deroga sino al 31.10.2021 Altri articoli di questo numero della Rivista esaminano queste modalità nel merito e quindi non ci soffermeremo sugli aspetti che connotano la perdurante sospensione del potere di licenziamento ( la prima in Italia dal 1947 in poi); in queste note si affronterà l’aspetto connesso della legittimità (in senso ampio, squisitamente europeo) dei provvedimenti in parola alla luce delle disposizioni delle due Carte di validità continentale dei diritti fondamentali (la Carta di Nizza e la CEDU) e della giurisprudenza delle due Corti deputate alla loro applicazione, quella del Lussemburgo e quella di Strasburgo. Una particolare attenzione verrà dedicata alla sentenza della Corte di giustizia (Grande Chambre) del 21.12.2016, Iraklis, C-201/15, resa riguardo il caso di una legge greca di limitazione del potere di intimare licenziamenti collettivi, che ci sembra offrire delle indicazioni importanti anche per il nostro tema, pur riguardando ostacoli legislativi (di fonte interna, anche se emessi in occasione del recepimento nel 1983 della direttiva all’epoca vigente) al recesso a carattere permanente e non dichiaratamente temporanei, come nel caso del “blocco” italiano.
2.La ratio della normativa italiana. Un recente provvedimento del Tribunale di Roma (di cui si parla in altri contributi della Rivista) ha ravvisato come ratio del blocco quella di “evitare in via provvisoria che le pressoché generalizzate conseguenze economiche si traducano nella soppressione immediata di posti di lavoro”, ratio che lo stesso Giudice definisce <<in un certo senso di ordine pubblico>> cogliendo certamente nel segno posto che il divieto in parola rientra nel quadro di un insieme di misure (di ordine pubblico in senso costituzionalmente ampio, come dice il Giudice romano) che si integrano tra loro nel disegno di assicurare una sorta di congelamento della situazione vigente prima dell’esplosione del contagio impedendo il panico, la disperazione diffusa o la rassegnazione popolare ( ). Questo disegno dal Governo cosidetto Conte bis è stato racchiuso nello slogan “nessuno rimarrà indietro”, una rete organica di protezione del reddito (che offre una solidarietà “di base”), in modo da gestire misure inevitabili di isolamento e restrizione dei territori e poter avviare, in condizioni di ordine e di fiducia (salvaguardate anche dalla garanzia delle protezioni vitali), una transizione verso la normalità con il declino dell’epidemia. Il Piano antipandemico si compone, in realtà, di tre pilastri, forse talvolta imperfettamente connessi ti tra loro, nell’urgenza degli interventi, ma che nel complesso hanno realizzato anche una importante funzione anticiclica, garantendo una certa tenuta dei consumi e del reddito delle famiglie, una tutela a carattere sociale della cittadinanza più che dei soli lavoratori. Infatti, in virtù della principale riforma condotta a termine in questo paese negli ultimi 20 anni nel campo del welfare (ancorché di tipo assistenziale e non assicurativo) e cioè l’introduzione del reddito di cittadinanza (RDC) di cui al d.l. n. 4 convertito in l. n. 23 del 2020 ( ), è stato possibile coprire una prima fascia di cittadini in difficoltà disoccupati, emarginati o anche working poor. Dopo una difficile fase di avviamento, non solo per la notevole complessità della trama normativa ( la mancanza di molti decreti attuativi e la grande incertezza su taluni aspetti importanti di funzionamento nell’erogazione dei benefici) ma anche per una “narrazione tossica” della stessa da parte dei media e degli stessi fautori della legge con la stigmatizzazione dei beneficiari e l’esaltazione delle cosidette norme anti-divano, la riforma del “welfare per gli ultimi” è progressivamente decollata sino ad avere un buon take up che si è incrementato nel durare della pandemia sino a interessare ben 1.500.000 nuclei familiari ( ). La normativa in questione è stata messa in una sorta di “bolla”, in attesa di poterne verificare gli aspetti più problematici, rilevati dagli studiosi, con il rientro nella normalità. Si è quindi replicato il RDC con una sorta di “reddito minimo temporaneo” (il REM) con condizioni di accesso (patrimoniali e reddituali ) più permissive, il che ha portato a coprire i bisogni essenziali di altre 300.000 famiglie. A ciò va aggiunta una misura di sostegno chiamata “reddito di ultima istanza” per lavoratori non coperti da cassa integrazione o da altre indennità (i famosi bonus) di cui parleremo di cui si sono avvalsi anche i professionisti a basso reddito ( ) ed altre categorie a confine tra autonomia e subordinazione. Questo primo pilastro è certamente rivolto alla cittadinanza “bisognosa” che si trova in condizioni economiche “indecenti” , anche se, come nel RDC, si contemplano lavoratori che per le caratteristiche del loro rapporto sono in difficoltà non arrivando, attraverso l’attività prestata, a sostenersi. Questo pilastro è stato integrato con un insieme di bonus ( o indennità) per precari, stagionali, discontinui, lavoratori “invisibili” (come sono in gran parte quelli, ad esempio, del settore sportivo ) cui è stata aggiunta, almeno nella prima fase degli aiuti, la platea dei titolari di partita Iva, cui con meccanismi automatici (e da un test di necessità) è stato concesso un bonus. In questo caso la copertura avviene secondo schemi “lavoristici” anche se molto allentati: per i lavoratori dello spettacolo, ad esempio, è stato considerato sufficiente aver prestato solo 7 giornate lavorative, per accedere ai bonus nel tempo rinnovati, il che ci porta ad una copertura più vicina a quella offerta dal RDC che ad una estensione delle tutele tradizionali del reddito da lavoro. Infine l’ultimo pilastro è rappresentato dalla varia tipologia di casse integrazioni agganciate più saldamente agli schemi “lavoristici” per coloro che godevano di un rapporto in atto (nel marzo del 2020) ma con uno sfondamento, piuttosto spettacolare, dei limiti corporativi ed assicurativi vigenti verso una copertura universalistica delle protezioni attraverso misure se non proprio identiche, commensurabili tra loro (con la creazione di una causale ad hoc per il Covid) e a carico, ove necessario, delle finanze pubbliche ( ). Quest’ultima operazione, coperta per una quota consistente dai fondi ricevuti dall’Italia dal SURE, ha comportato un investimento statale, nel capitale umano, di oltre trenta miliardi. Pertanto il blocco dei licenziamenti appare come il correlato necessario del “piano” italiano contro la pandemia che solo in parte ha utilizzato i meccanismi di compensazione delle perdite o di contrasto della povertà ma, nell’intento di proteggere tutti (o quasi tutti), ha cercato di stabilizzare per i lavoratori lo status quo ante impedendo la caduta verticale dei livelli occupazionali che rappresenta non solo una perdita di capacità reddituale, ma di fiducia nel futuro e di consenso per le istituzioni, anche nella gestione della transizione. Non è stato, quindi, una versione di helicopter money, come in alcuni paesi, ma un mix tra erogazioni automatiche e largheggianti di denaro e forme di congelamento del mercato del lavoro, anche in vista di un bouncing back ( ) europeo, indotto e facilitato dall’Unione, che operi una razionalizzazione ed una maggiore inclusività dei sistemi esistenti che già erano sotto stress per la rivoluzione informatica e l’espandersi di modalità inedite di lavoro autonomo ( ). Per quanto si possa pensare che, nella sua plastica sinteticità, la norma che per prima ha stabilito il blocco possa aver alimentato qualche dubbio interpretativo, questa esprime- ci pare- con determinazione la volontà di congelare i rapporti di lavoro in essere, per lo meno per il periodo di maggiore virulenza del virus non ancora terminato: completa, quindi, il quadro di una protezione quasi-universale dei cittadini laboriosi, per i lavoratori condotto attraverso le griglie di protezione tipiche dei dipendenti, sia pure adattate ai fini emergenziali. Se si fosse operato diversamente, senza una sospensione del potere di licenziamento, correlata ad una estensione dell’accesso alla cassa integrazione, l’ondata di licenziamenti (visto che molti datori erano fuori del sistema degli ammortizzatori, che il FIS era in pratica inutilizzato visto le insormontabili difficoltà nel ricorrervi, che le piccole imprese- cioè la prevalenza degli imprenditori italiani- erano i più colpiti dalla pandemia) avrebbe travolto il paese generando seri problemi di ordine pubblico (anche nella sua accezione più ristretta). Certo in Italia il blocco è stato generale e correlato solo de facto all’utilizzazione (anche solo potenziale) delle casse (per lo meno nei primi mesi) , mentre in altri paese, nostri partner europei, la correzione è stata più stretta. Ma questa ci sembra una scelta discrezionale del legislatore che ha ritenuto di salvaguardare il capitale umano attraverso il congelamento dei rapporti di lavoro con una temporanea limitazione della libertà di impresa, sostenuta sul piano dei costi dall’accesso, in genere non oneroso, a forme di integrazione salariale, in alcuni casi fuori sistema. Il problema è se la scelta del legislatore italiano sia, o meno, compatibile con il diritto dell’Unione. Certamente queste misure di intervento sono estremamente coerenti con le linee di politica economica individuate dal Consiglio con le Raccomandazioni del 20.7.2020 ove si legge come seconda raccomandazione “fornire redditi sostitutivi e un accesso al sistema di protezione sociale adeguati, in particolare per i lavoratori atipici, attenuare l’impatto della crisi sull’occupazione”. Nella parte narrativa si esprime una certa empatia per le misure del Governo italiano: <<le misure di confinamento adottate in risposta alla crisi sanitaria stanno avendo un forte impatto negativo sul mercato del lavoro e sulle condizioni sociali. Prima della crisi la situazione sociale stava lentamente migliorando, anche se il rischio di povertà o esclusione sociale, la povertà lavorativa e le disparità di reddito rimanevano elevati e caratterizzati da notevoli differenze regionali. Tenuto conto dell'impatto della pandemia di Covid-19 e delle sue conseguenze, gli ammortizzatori sociali dovrebbero essere rafforzati per garantire redditi sostitutivi adeguati, indipendentemente dallo status occupazionale dei lavoratori, in particolare di coloro che si trovano di fronte a carenze nell'accesso alla protezione sociale. Il rafforzamento del sostegno al reddito e del reddito sostitutivo è particolarmente pertinente per i lavoratori atipici e per le persone in situazioni di vulnerabilità. È altresì fondamentale la prestazione di servizi per l'inclusione sociale e nel mercato del lavoro. Il reddito di cittadinanza, del quale ha beneficiato più di un milione di famiglie nel corso dell'ultimo anno (513 EUR in media), può attenuare gli effetti della crisi. Tuttavia si potrebbe migliorarne la diffusione tra i gruppi vulnerabili. Il governo ha introdotto un ulteriore "reddito di emergenza" a carattere temporaneo per sostenere le famiglie che finora non erano ammissibili a beneficiare del reddito di cittadinanza. Anche le persone impiegate nell'economia sommersa, in particolare in settori come l'agricoltura, il settore alimentare e l'edilizia abitativa, rischiano di trovarsi di fronte a carenze nell'accesso alla protezione sociale e al sostegno al reddito. …. Dall'inizio della crisi l'Italia sta adottando misure per attenuare l'impatto sull'occupazione. I regimi di riduzione dell'orario di lavoro (Cassa integrazione) hanno svolto e sono destinati a svolgere in futuro un ruolo di primo piano. L'ammissibilità è stata estesa per includere le piccole imprese e le microimprese e tutti i settori economici e i lavoratori dipendenti>>.
Nessuna contestazione muovono prima la Commissione e poi il Consiglio a proposito del blocco. Segnali ancor più evidenti della strategicità, per l’Unione, della salvaguardia dei livelli occupazionali ci vengono dal Regolamento dello SURE (2020/672) del 19.5.2020 che istituisce un strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione nello stato d’emergenza che, attraverso prestiti sostanzialmente senza interessi e con un piano di restituzione di lungo periodo, mira a consentire agli stati europei, i cui bilanci sono stati logorati dalle misure di emergenza anti Covid , di mantenere i livelli di occupazione attraverso interventi straordinari e, per il diritto dell’Unione, anche non convenzionali come i sostegni ai lavoratori autonomi. Non vi è quindi dubbio che, per quanto sopra ricordato, il blocco italiano rientrasse in quell’opera di equilibrio occupazionale che, nell’opera di elaborazione delle strategie di crescita e sviluppo, gli organi dell’Unione indicavano a tutti i paesi come necessaria con interventi adeguati, alla metà del 2020.
3. Il blocco dei licenziamenti può costituire una questione di diritto dell’Unione? Prima di scendere nel merito della compatibilità con il diritto dell’Unione del “blocco italiano” vogliamo precisare quali possano essere, e con quali effetti, i link al diritto europeo che notoriamente comportano, ex art. 51 della Carta dei diritti, l’applicabilità della stessa ( ). Come già accennato ci sembra che sia proprio il già richiamato precedente della sentenza Iraklis ad offrici sul punto indicazioni piuttosto precise; non esamineremo in questa sede le numerose critiche mosse alla Corte di giustizia da una parte della Dottrina, di orientamento pro-labour ( ), non solo perché -essendo stata la decisione emessa dalla Grande Chambre-difficilmente l’orientamento della Corte del Lussemburgo potrà cambiare a breve, ma soprattutto perché – giusta o sbagliata che sia- la Iraklis sembra offrire argomenti decisivi per ritenere che le scelte del legislatore italiano dal marzo del 2020 sino all’ultimo decreto legge del marzo 2021 sul “blocco” abbiano rispettato l’ordine giuridico sovranazionale. Ricordiamo che la normativa greca del 1983 prevedeva nel caso di licenziamenti collettivi non preceduti da accordo sindacale una complessa procedura di valutazione (alla luce delle condizioni del mercato del lavoro, la situazione dell’impresa e l’interesse dell’economia nazionale) che poteva concludersi anche con la decisione di non autorizzazione al recesso. Il giudice remittente greco (il Consiglio di stato) ritiene sussistente la competenza della Corte di giustizia in base a due profili, da un lato la violazione degli artt. 49 e 63 TFUE e dall’altro della direttiva 98/59/CE sui licenziamenti collettivi, sono questi i collegamenti tra la fattispecie esaminata con il diritto dell’Unione che fanno ritenere che questa si collochi nel suo “cono d’ombra” si da far ritenere applicabile la Carta dei diritti (ex art. 51) con la conseguenza che le disposizioni prima indicate vanno interpretate alla luce dei diritti fondamentali della Carta, se ne possa valutare il rispetto del “contenuto essenziale” e le forme di bilanciamento con altri diritti protetti dalla Carta (in particolare l’art. 30) o con finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o con l’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui (art. 52). Pertanto eventuali ostacoli al licenziamento (ad esempio quelli adottati dal “blocco” italiano) potrebbero essere censurati, sempre seguendo i principi dell’Iraklis, come forme di illegittima restrizione alla libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE, cioè come misure “idonee ad ostacolare o rendere meno attraente l’esercizio della libertà di stabilimento”( p. 48). L’impresa può espandere la propria attività in altro stato membro, aprendovi altri stabilimenti anche attraverso società controllate; nel caso dell’ Iraklis si trattava di una società greca controllata dalla multinazionale francese Lafargue, leader mondiale del settore del cemento intenzionata a chiudere uno dei tre stabilimenti produttivi in territorio greco. Ora, dice la Corte di giustizia, così come la libertà di stabilimento implica che l’impresa operante in un paese membro possa espandersi in altro paese ed assumervi manodopera, analogamente deve consentire a tale impresa di <<modulare successivamente la sua attività in quel mercato o di rinunciare ad esso, separandosi in tali prospettive dai lavoratori assunti in precedenza>> (punto 56). La normativa greca incide su questa libertà mentre la Corte esclude un’autonoma configurazione di una restrizione all’art. 63 TFUE sulla libertà di circolazione dei capitali che sarebbe il mero riflesso di quella prima esaminata. Vedremo successivamente se l’ingerenza sin qui descritta possa, e a che condizioni, essere giustificata dai fini perseguiti dallo stato membro. Circa la direttiva sui licenziamenti collettivi la Corte ricorda che il grado di armonizzazione richiesto dal legislatore sovranazionale concerne solo la questione del diritto alla consultazione ed informazione ma non arriva a determinare le modalità dei recessi; tuttavia una normativa nazionale non può impedire l’effetto utile della direttiva le cui procedure implicitamente ammettono che i licenziamenti siano ammissibili previo esaurimento degli obblighi previsti dalla direttiva. Pertanto il secondo link tra il “blocco italiano” e il diritto dell’Unione è certamente la direttiva. Traendo le conseguenze di quanto sin qui detto: nel caso di licenziamenti individuali il collegamento, che qui discutiamo solo in astratto, è dato dalla prospettazione della sospensione del potere di recesso come restrizione (illegittima, in quanto non rientrante nei casi di bilanciamento possibili o, non necessaria e non proporzionale ex art. 52 della Carta, ma questo verrà esaminato nel prossimo capitolo) alla libertà di circolazione di cui all’art. 49 TFUE, peraltro di applicazione diretta. Il Giudice greco (in linea di principio) avrebbe potuto anche disapplicare la normativa greca ove non avesse dubbi che correttamente invece si è posto, dovendosi misurare non tanto sull’entità della restrizione quanto sulla giustificazione sociale di questa alla luce di criteri di bilanciamento tra diritti di natura diversa o con interessi di carattere generale che correttamente ha richiesto al supremi garanti dell’ordinamento sovranazionale di vagliare. Tuttavia sarebbe sbagliato radicare una competenza in linea di principio in ogni caso di licenziamento della Corte del Lussemburgo in quanto dalla Iraklis emerge chiaramente che si può prospettare una restrizione al 49 TFUE solo se sussiste una situazione di trans-nazionalità solo- cioè- se si tratta di un’impresa che opera in uno stato che, direttamente o anche attraverso il controllo societario, si sia espansa in altro stato reclutando in quest’ultimo manodopera che poi viene a non poter dismettere in relazione a nuovi piani di riorganizzazione produttiva. Pertanto laddove un licenziamento individuale non sia stato intimato da un’impresa di tal genere la questione rimane strettamente nazionale; è certamente prospettabile che un blocco ai licenziamenti collettivi sia invece prospettabile come una violazione del diritto dell’unione , ma -come diremo più avanti- la Corte ha parlato solo di una privazione di ogni effetto utile della direttiva, quindi in una logica fortemente se non radicalmente privativa del potere datoriale di recesso. Poniamoci, da ultimo, un’ulteriore questione di principio: di fronte ad una prospettazione (circostanziata nel modo prima indicato) del blocco come restrizione al 49 TFUE e alla direttiva il Giudice che nutrisse dei dubbi interpretativi a chi si dovrebbe rivolgere? Poiché l’attrazione della questione in ambito europeo implica che la normativa primaria e secondaria sovrazionali prima ricordate siano interpretate alla luce della Carta e, a sua volta, si applichi il Testo di Nizza anche per i criteri di bilanciamento che offre (art. 52) ci si potrebbe chiedere se, trattandosi di contemporanea applicabilità anche della nostra Carta costituzionale che tutela al suo art. 41 il diritto di iniziativa privata, se non si debba tener conto della molto discusso obiter di cui all’ordinanza n. 269 del 2017 della nostra Corte delle leggi e che, quindi- si debba innanzitutto far prevalere l’incidente di costituzionalità sul rinvio pregiudiziale. Ora sappiamo che in sostanza la Consulta ha precisato nelle decisioni n. 20 e 63 del 2019 che l’originario “deve” (adire per prima la Corte delle leggi) va interpretato nel senso del “può” , cioè che spetta al Giudice decidere quale delle due strade intraprendere per prima. Questa giusta assegnazione al potere di valutazione del Giudice nazionale quale Corte superiore interpellare prioritariamente appare sacrosanta visto che è questo Giudice a conoscere il caso e ad avere la responsabilità di offrire una risposta all’istanza di giustizia che è stata sottoposta alla sua competenza decisionale ( ). Non da ultimo le rettifiche della Consulta consentono di ritenere il nostro sistema coerente con quello sovranazionale come precisato dalla Corte del Lussemburgo nella Global Starnet (20.12.2018, C-322/16). Tuttavia sulla base di queste precisazioni “permissive” della Corte delle leggi italiane è sorta una terza via “ agnostica” che vorrebbe praticare contestualmente la cosidetta doppia pregiudizialità attivando le due strade contemporaneamente verso Roma e verso il Lussemburgo che, astrattamente parlando, non sembrerebbe in contrasto con i due sistemi, nazionale e sovranazionale ( ). Tuttavia questa linea “ mediana” non mi convince in quanto tende a drammatizzare il conflitto tra Corti superiori che vengono investite nello stesso momento di una questione di rilevanza costituzionale senza dare tempo all’una o all’altra di meditare termini e modi di soluzione della controversia; inoltre deresponsabilizza il Giudice nazionale che deve,invece, sforzarsi di individuare quale sia il canale di maggior pertinenza da percorrere come, ad esempio, ha ben saputo fare la nostra stessa Corte costituzionale con l’ordinanza n. 182 del 2020 rilevando che il tema della dedotta discriminazione dei migranti dall’accesso alle prestazioni familiari aveva una dimensione indubbiamente paneuropea: << l’incertezza, che è necessario dirimere in maniera sollecita, è tanto più grave in quanto riguarda sia il settore nevralgico della politica comune dell’immigrazione dell’Unione europea nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sia il tema della parità di trattamento tra cittadini dei paesi terzi e cittadini degli Stati membri in cui soggiornano, che di tale politica rappresenta elemento qualificante e propulsivo>> e quindi optando per un rinvio pregiudiziale, mentre la Cassazione aveva ritenuto prioritaria la risposta costituzionale nazionale sulla base della, per fortuna, superata 269. Ancora è stata la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 254 del 2020 (che conclude il doppio rinvio contestuale operato dalla Corte di appello di Napoli su un licenziamento collettivo ) ha evidenziato che “come questa Corte ha ribadito di recente (sentenze n. 63 e n. 20 del 2019 e ordinanze n. 182 del2020 e n. 117 del 2019), l’attuazione di un sistema integrato di garanzie ha il suo caposaldo nella leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni, chiamate – ciascuna per la propria parte – a salvaguardare i diritti fondamentali nella prospettiva di una tutela sistemica e non frazionata. A tale riguardo, non è senza significato che l’art. 19, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993, consideri nel medesimo contesto – così da rivelarne il legame inscindibile – il ruolo della Corte di giustizia, chiamata a salvaguardare «il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati» (comma 1), e il ruolo di tutte le giurisdizioni nazionali, depositarie del compito di garantire «una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione» (comma 2)>> (punti 2.1, 2.2.). L’integrazione raggiunta tra le due dimensioni- interna e sovranazionale- deve indurre il Giudice comune a stabilire lui stesso chi interpellare, assumendo la responsabilità che gli compete o di organo di base del sistema multilivello o di giudice di uno stato membro ( ). La Consulta nelle decisioni prima citate ci parla di un ordine, frutto di integrazione tra fonti; se pure talvolta quest’ordine deve essere ricostruito e non appare prima facie, nella sua sistematicità evidente, tuttavia il Giudice nazionale non può che concorrere a costruirlo. Ci sembra, dunque, che ove un Giudice nazionale non sia convinto del “blocco” italiano ed abbia dubbi sia sulla sua costituzionalità che sulla compatibilità con il diritto dell’Unione (per i soli casi che abbiamo visto di g.m.o. configurato come una restrizione alla libertà di circolazione da parte di una impresa in condizioni “transnazionali” o di un licenziamento collettivo) debba preferire la strada del rinvio pregiudiziale trattandosi di una questione che coinvolge il mercato comune e le sue libertà costitutive (da interpretarsi certamente alla luce dell’art. 16 CFDUE unito però ai criteri di bilanciamento con altri diritti ed interessi prioritari espressi nella medesima Carta), cioè il canale- sino ad oggi- prioritario del processo di integrazione nell’ambito del quale la Corte di giustizia ha già indicato come pertinenti limiti e deroghe derivanti dal raggiungimento di obiettivi di natura sociale.
4.Il blocco italiano e i paletti della Corte di giustizia. Sempre nel già esaminato caso Iraklis la Corte di giustizia ha ritenuto in buona sostanza che una procedura di verifica come quella prevista dalla Grecia fosse in linea di principio compatibile con la direttiva 98/59/CE salvo che non fosse emerso, giudizio riservato al Giudice del rinvio, che i criteri di detta valutazione e la loro applicazione in concreto non privino alle disposizioni della direttiva un effetto utile. Al tempo stesso il sistema adottato di autorizzazione ai recessi appare una restrizione indebita all’art. 49 TFUE in quanto i criteri di valutazione sono apparsi troppo generici ed indeterminati, lesivi del principio di certezza ed affidamento e quindi non rispettosi del principio di “proporzionalità” . Di fatto i test per un corretto bilanciamento di cui all’art. 52 della Carta sono stati applicati anche alea restrizioni dell’art. 49 TFUE rappresentando questa libertà un aspetto determinante della più generale libertà di impresa di cui all’art. 16 CFDUE. La Corte alla fine ha stabilito che la libertà d’impresa poteva in astratto essere sacrificata sulla base del perseguimento di fini rientranti tra gli obiettivi dei Trattati (cfr. particolare negli art.3 TUE ed anche più in dettaglio dagli artt. 151 e 147 TFUE), come la tutela dei lavoratori e il contrasto della disoccupazione, finalità che rientrano tra le ragioni di interesse generale riconosciute dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, non ha invece salvato quello della salvaguardia dell’interesse dell’economia nazionale. In linea di principio quindi il meccanismo di valutazione dei licenziamenti collettivi non appare violare l’art. 16 della Carta. Tuttavia la Corte ha sottoposto la normativa ad un ulteriore test alla luce della seconda parte dell’art. 52 della Carta: posto che un regime nazionale di inquadramento (si usa in italiano tale termine piuttosto infelice per indicare la procedura greca di autorizzazione) deve mirare ad un << giusto equilibrio tra gli interessi collegati alla promozione dei lavoratori e dell’occupazione …. e quelli attinenti alla libertà di stabilimento ed alla libertà d’impresa>> criteri come “situazione d’impresa” o “condizioni del mercato del lavoro” appaiono formulati troppo genericamente ed in modo impreciso lasciando all’autorità che decide uno spazio discrezionale non controllabile, non fondato su circostanze specifiche ed oggettive, potendo rendere vano anche il previsto potere di opposizione in sede giudiziaria. Si supera quindi lo spazio per una limitazione del diritto strettamente ancorato a quanto è necessario per raggiungere i fini di protezione sociale dichiarati, con violazione del principio di proporzionalità. La legge ellenica in sostanza è salva, va solo riscritta con più attenzione.
Ora venendo al blocco italiano ( , e tenuto conto dell’impianto piuttosto complesso del ragionamento della Corte di giustizia (che a noi sembra molto più permissivo sulla legittimità delle discipline limitative nazionali di quanto non fossero le decisioni del 2007 del cosidetto Laval quartet, tanto da non aver suscitato alcuna protesta del Governo greco dell’epoca), sembra che la prima sostanziale differenza con il caso greco risieda nella temporaneità della misura adottata nel nostro paese . Le strettoie elleniche avevano carattere permanente (al punto che la Corte di giustizia chiede al giudice del rinvio se alla fine privassero la direttiva di ogni effetto utile), mentre nel “bel paese” le misure sono state sempre temporalizzate e prorogate sempre in correlazione con il prolungamento dello stato d’emergenza. Non credo che questa correlazione sia un presupposto necessario, come pure è stato sostenuto, perché la perdurante, eccezionale, gravità della situazione economico- sociale potrebbe di per sé determinare la necessità di mettere tra parentesi per un breve periodo la possibilità di intimare licenziamenti, recessi ma di fatto- sino a tutt’oggi- questo aggancio è stato mantenuto. Questo ci porta a dire che nel caso italiano non sussiste alcun profilo, neppure ipotetico, di attentato al contenuto essenziale del diritto di cui all’art. 16 della Carta o della privazione di un effetto utile della direttiva 98/59/Cee visto che le misure sono strettamente temporalizzate e sono state prorogate sulla base di quanto suggerito dagli scienziati di tutto il mondo sul perdurare dell’epidemia. Pacificamente il diritto d’impresa, così come il diritto di proprietà di cui all’art. 17 di proprietà ( ), non costituisce nel sistema della Carta un diritto assoluto ma può essere soggetto a limitazioni come previsto dall’art. 52 della stessa Carta che interviene a definire finalità e modalità di tali limitazioni. La misura del blocco appare necessaria ad assicurare finalità di interesse generale che la Corte di giustizia ha ritenuto legittime ed incluse nell’orizzonte dei Trattati persino in una situazione non emergenziale e comunque la ratio della normativa, come già premesso, è più ampia di quella della tutela occupazionale mirando a salvaguardare la stessa struttura produttiva, le sue potenzialità ed il suo capitale umano, dal crollo della fiducia e della coesione tra i cittadini (vorremmo dire la tutela dei presupposti materiali e personali per continuare a perseguire quei fini di progresso sociale di cui parla l’art. 151 TFUE): non dobbiamo dimenticare che l’Italia è stata il paese europeo inizialmente colpito con la maggiore durezza dal contagio (ragione per cui è stato il paese destinatario del 23% di tutti gli aiuti disposti dal Recovery), il primo a essere stato costretto a trovare in pochi, drammatici, giorni un ragionevole punto di equilibrio tra il proseguimento - almeno in part-e delle attività produttive essenziali, la tutela dei bisogni vitali di gran parte della popolazione e il rispetto di condizioni di sicurezza sanitaria. La necessità della misura del resto non è stata contestata con particolare insistenza neppure dalle associazioni datoriali (che, dopo un iniziale momento di rigidità polemica, hanno poi tenuto un atteggiamento molto collaborativo con le scelte governative), non risultano pressioni diffuse sui Tribunali per ottenere un rinvio alla Corte costituzionale delle misure adottate nel tempo ove la questione non è pendente. Il messaggio trasmesso ha avuto un tono rassicurante restituendo a tutti i lavoratori almeno la speranza di poter riavere la precedente occupazione; in questo senso diversi, meno risoluti, provvedimenti non avrebbero realizzato lo stesso obiettivo “psicologico” (con evidenti riflessi anche di altra natura, soprattutto economica) presso un’opinione pubblica ancora fortemente turbata per la risoluzione dei licenziamenti “ facili” del triennio 2012-2015( ).
La questione che può essere sensatamente sollevata riguarda la proporzionalità della misura, più volte prorogata. La provvisorietà della misura e la sua correlazione alla pandemia in corso è il primo, più importante, segnale di attenzione a limitare l’ingerenza nell’esercizio di un fundamental right di rango europeo alla situazione epidemica in corso ed agli effetti economici di questa, a cominciare dall’impossibilità per molti settori produttivi di continuare l’attività in sicurezza. Il legislatore ha quindi scelto di tenere conto dell’evoluzione della crisi, senza disporre un blocco di più ampia dimensione temporale che forse avrebbe potuto tranquillizzare maggiormente la popolazione ma che avrebbe potuto compromettere il diritto delle imprese a riorganizzarsi sul piano produttivo. Non voglio affermare, ovviamente, che si è avuto una forma di quella governance “attraverso i numeri” di cui parla polemicamente Supiot nell’ampia e intrigante Raccolta di suoi saggi recentemente uscita in Italia ( ), ma sicuramente un’attenzione doverosa alle parole degli scienziati, pur nell’inevitabile mediazione e traduzione politica dei dati in scelte di bilanciamento tra diritti. Il primo temperamento di questa drastica decisione risiede nella sua stretta temporaneità. Va anche osservato che la misura è conforme alla lettera ed allo spirito delle Raccomandazioni rivolte all’Italia nel luglio 2020 a blocco già iniziato e con quanto indicato agli stati nei Regolamenti per l’utilizzazione dello SURE e del Revovery Plan (che a sua volta presuppone il rispetto delle Raccomandazioni per godere delle risorse stanziate). In ogni caso il legislatore ha mostrato di avere fatto notevolissimi sforzi (soprattutto nel reperire le risorse necessarie attraverso plurimi scostamenti di bilancio ed i prestiti dello SURE) per garantire a tutte le imprese l’accesso alla cassa integrazione, in certi periodi concesse a tutte le imprese gratuitamente con una causale apprestata per l’emergenza e senza intaccare i contatori generali. Un’ imponente manovra di generalizzazione dell’istituto, come detto, che se è vero che ha garantito protezione a tutti i lavoratori, ha incluso anche tutte le imprese coprendo (in certi casi e in certi periodi certamente solo in parte) i costi per il personale. La normativa sul blocco è stata anche alleggerita introducendo alcune deroghe connesse non solo a situazioni di chiusura dell’attività, ma anche alle negoziazione tra le parti sociali. Nel complesso il rapporto tra regole (il blocco ha nella sostanza sempre ribadito la formula utilizzata nel Marzo del 2020) e deroghe (pochi casi introdotti con il d.l. n. 104 del 2020) non sembra essere particolarmente complesso nella sua ricostruzione per una comunità di interpreti del diritto del lavoro stremata dai problemi ermeneutici connessi all’alluvionale legislazione del Jobs act del 2015, per cui non può di certo dirsi che la certezza del diritto e l’affidamento delle imprese sia stata compromessa. Qualche dubbio forse poteva porsi per la correlazione stabilita nel decreto di agosto 2020 tra l’esercizio del potere di recesso e l’utilizzazione delle casse integrazioni nel caso in cui il recesso fosse finalizzato ad un processo di riconversione produttiva ma il Ministero del lavoro e l’ INPS hanno prontamente chiarito che il legislatore intendeva l’utilizzazione delle casse in senso virtuale (potenziale) per cui la finalità della norma risiedeva nell’intento di evitare una sorta di data “fatale” di scadenza generalizzata del blocco cercando di differenziare temporalmente le scadenze in relazione al periodo di (possibile) fruizione delle casse. A ciò va aggiunto che le imprese sono state incentivate, con uno sgravio contributivo ad hoc, a osare il rischio della riaperture dopo l’uso delle casse integrazioni con una ulteriore facilitazione nella gestione del “blocco”. Vi è stata quindi una visibile attenzione per temperare eventuali costi dell’operazione (almeno quelli più legati al fattore-lavoro) cui corrispondono, ricordiamolo, i sacrifici subiti da moltissimi lavoratori che hanno percepito compensi sensibilmente più bassi, stante i massimali ridotti previsti dal sistema “ammortizzatori”. E’ l’intera comunità del lavoro che è stata investita da una prova eccezionale di solidarietà al fine di preservare le occasioni di un rilancio: come il diritto d’impresa sono stati limitati altri diritti dall’art. 36 alla libertà di circolazione delle persone sino al diritto di proprietà (blocco degli sfratti) o al giusto processo (in presenza) in un bilanciamento, dettato dall’emergenza, con altri beni costituzionali primari e con la protezione della salute. Ulteriore riprova che il”blocco “ supera il test di proporzionalità è rappresentato dalla sua evoluzione nelle varie proroghe, prima con la ricordata introduzione di deroghe (dai primi dati sembra essere stata attivato piuttosto diffusamente il nulla osta dell’accordo sindacale conferendo una certa duttilità sistemica fondata sul vaglio sindacale di un vantaggio reciproco) accompagnato da un robusto incentivo a correre il rischio di “riaperture” ma anche da una distinzione selettiva operata nell’ultimo decreto n. 41 del 2021 per la quale il blocco sarà generalizzato solo sino al 30.6.2021 ma successivamente le imprese che hanno la CIGO riacquisteranno il potere di recesso mentre le altre che usufruiscono del FIS e della cassa in deroga (che saranno erogate per la causale Covid con risorse pubbliche) vedranno l’ulteriore proroga sino al 31 ottobre. Il blocco è stato ulteriormente mutuato sui settori produttivi interessati scegliendo la via della stretta aderenza alla necessità delle misure: le imprese che hanno la CIGO, in genere a carattere manifatturiero e tradizionalmente industriale, con vocazione all’export e mediamente di dimensione più grande rispetto alle altre, la situazione di empasse produttiva sembra in corso di remissione con il profilarsi di una ripresa dell’attività. Tali imprese, con l’attenuazione del rischio epidemico, dovrebbero creare nuova occupazione (in certi casi questo è già avvenuto): protrarre dopo il 30 giugno il blocco non costituirebbe, sembra questa la ratio della selezione operata dal d.l. n. 41, una misura necessaria perché le talvolta necessarie ristrutturazioni con la chiusura di reparti non economicamente efficienti o di alcune posizioni sarebbe più che compensata da un incremento occupazionale connesso al plausibile rimbalzo operativo. Il test dell’art. 52 della Carta non potrebbe essere superato. Ma per gli altri settori che accedono a FIS e cassa in deroga, notoriamente più colpiti dalla crisi, tradizionalmente con meno risorse per fronteggiare le avverse congiunture, di dimensione in genere limitate, questo discorso non può farsi: il ritorno alle regole ordinarie comporterebbe il sacrificio di centinaia di migliaia di lavoratori in un momento in cui nemmeno è stata apprestata una rete di protezione comparabile con quella della CIGO con la creazione di un sistema ragionevolmente universale degli ammortizzatori sociali con un accesso per tutte le imprese sulla base di un sistema assicurativo praticabile anche per aziende più piccole. Il ragionamento sotteso al nuovo provvedimento del Governo Draghi ( ) sembra alla fine convincente e fondato su una differenza obiettiva e documentabile tra le aziende, tale da avvalorare la tesi per cui le scelte operate in Italia sul blocco abbiano valutato i limiti “sovranazionali” e che una serie di accorgimenti normativi praticati nel tempo (utilizzo delle casse con modalità selettive meno onerose e più vantaggiose di quelle ordinarie, premialità economica della riapertura dopo le casse, distinzione tra settori con l’ individuazione di quelli in situazione di maggiore difficoltà) che si uniscono alla provvisorietà dei provvedimenti correlati alla permanenza dell’epidemia dimostrano che l’esigente test della proporzionalità prescritto dall’art. 52 della Carta sia stato superato. Un’ eventuale istanza di rinvio pregiudiziale dovrebbe essere, quindi, rigettata apparendo la “questione di diritto dell’Unione” non meritevole di ulteriori chiarificazioni da parte della Corte di giustizia.
5. Il blocco dei licenziamenti e la Cedu. Conclusivamente ritengo che il “blocco” non sia censurabile, neppure in astratto, alla luce della Convenzione europea ratione materiae . Infatti la libertà d’impresa, protetta dalla Carta al suo art. 16, non ha un correlato nel Testo della Convenzione del 1950 ampliato dai vari Protocolli essendo irriducibile alla “ protezione della proprietà” assicurata dall’art. 1 del Protocollo addizionale (n.1) alla Cedu e, quindi, non rientra nel novero degli human rights (che del resto costituiscono un categoria più ristretta di quella accolta dalla Carta di Nizza di fundamental rights che integra anche i diritti sociali, del lavoro e i cosidetti nuovi diritti) sotto guarentigia convenzionale. Di questa mancanza di simmetria tra le due Carte europee, recano traccia anche le Spiegazioni alla Carta che, anche ai fini del terzo comma dell’art. 52, definiscono anche le corrispondenze tra le rispettive formulazioni. Mentre la spiegazione dell’art. 17 afferma che << questo articolo corrisponde all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Cedu” ed aggiunge che << ai sensi dell’art. 52 paragrafo 3, questo diritto ha significato e portata identica al diritto garantito dalla Cedu e le limitazioni non possono andare oltre quelle previste da quest’ultima>>, per l’art. 16 ci si limita a ricordare alcune storiche sentenze della Corte di giustizia ed a precisare che << questo diritto si esercita nel rispetto del diritto dell’Unione e delle legislazioni nazionali. Esso può essere sottoposto alle limitazioni previste dall’art. 52, paragrafo 1, della Carta>>. E’ ben vero che la Convenzione (e questo vale anche per suoi Protocolli) sono un living instrument per la tutela delle persone e che quindi è soggetta ad una vis espansiva collegata all’evoluzione sociale ed allo sviluppo dei costumi e delle aspettative dei singoli ma tra libertà d’impresa e diritto di proprietà sembrano sussistere alcune differenze dell’ordine, per dirla con il linguaggio del femminismo radicale di “ quelle che fanno differenza” cioè invalicabili che attengono alla struttura più profonda delle due prerogative (entrambe fondamentali nella Carta di Nizza). La prima, non a caso chiamata libertà, ha un campo applicativo dinamico, creativo in quanto connessa anche a capacità personali innovative, la seconda invece definisce un rapporto con dei “beni”, un dominio oggettivo su cose o anche un potere dispositivo su assetti giuridici riconosciuti in modo certo e stabile come può essere la proprietà intellettuale opportunamente ricompresa nell’alveo di protezione dell’art. 17 della Carta (ma dimenticata dal Protocollo). La prima contempla una rete di virtualità organizzative e progettuali, aspetti di “distruzione creatrice” che Joseph Shumpeter ha saputo magistralmente descrivere, la seconda stabilizza rapporti accertati e duraturi, il potere sulle “cose” (e sulla idee) esistente ( ). Per questa ragione i diritti di credito a prestazioni di welfare ove riconosciute pacificamente sono stati considerati come rientranti nel “patrimonio” del lavoratore e quindi protetti ex art. 1 Prot. n. 1 con una giurisprudenza, certamente di segno garantista, che evita provvedimenti legislativi di ablazione ingiustificata, in genere con effetto retroattivo, di diritti sociali consolidati , ma discutibile sul piano della teoria generale in quanto implica una sorta di trasmutazione valoriale dei diritti socio-economici, il che certamente non accade nel sistema della Carta di Nizza. La protezione dell’art. 1 Prot. n. 1 è, del resto, costruita come un limite all’interferenza statale nel duplice senso che si ha diritto al rispetto dei propri beni e non se ne può essere privati se non cause di pubblica utilità; la finalità del mantenimento di un rapporto prestabilito ed accertato dal diritto di proprietà non sembra potersi, dunque, conciliare con il carattere multiforme ed in divenire continuo con cui si esprime la libertà d’impresa che è essenzialmente un potere di scelta e di autodeterminazione, peraltro non necessariamente esercitato (oggi sempre più raramente) dal proprietario dei beni che vengono interessati da queste scelte . Pertanto mentre il ripetuto blocco italiano degli sfratti è stato più volte sindacato alla luce del Protocollo addizionale ,il controllo della Corte Edu sembra implausibile sul blocco dei licenziamenti, incidendo sulla libertà di impresa. Si potrebbe forse ipotizzare, stante l’aria di famiglia tra le due prerogative, che la parte ricorrente possa allegare e dimostrare che tale blocco, nonostante costituisca solo una provvisoria sospensione di rapporti di lavoro afferenti ad una certa impresa, abbia comportato come conseguenza di ostacolare il godimento dei propri beni (una violazione degli obblighi positivi e negativi del diritto di cui all’art. 1 Prot. 1) ma ci sembra che un simile ponte tra libertà d’impresa e diritto di proprietà (con i suoi correlati obblighi a carico dello stato) sia piuttosto arduo da prospettare visto che il blocco di cui discutiamo costituisce un ostacolo provvisorio all’esercizio di una facoltà contrattuale (che può certamente generare dei danni) ma non riguarda minimamente il rapporto tra un soggetto e le sue proprietà, tra le quali certamente non potrebbe rientrare l’attività svolta per accordo negoziale da un dipendente. In ogni caso, volendo prescindere dalla precedenti considerazioni, si dovrà preventivamente esaurire le vie giuridiche interne e giova ricordare che, quanto più ci si allontana dal nucleo duro degli human rights come originariamente contemplati nel testo del 1950, tanto più in genere la Corte Edu sembra propensa a riconoscere un ampio margine di discrezionalità agli stati membri come, proprio riguardo l’art. 1 Prot. 1, si è dimostrato per le misure di austerity adottate nei paesi UE nella crisi economica internazionale a proposito delle quali la Corte di Strasburgo ha ritenuti legittimi i tagli a pensioni e salari in Grecia come in Portogallo ed in altri paesi in quanto “patriottici” e comunque costituenti un male minore rispetto ai default annunciati : sembra quindi piuttosto improbabile che la mera sospensione del potere di licenziamento di cui stiamo discutendo, adottata per fronteggiare una crisi senza precedenti, come quella che stiamo ancora vivendo possa portare a conclusioni diverse.

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