Testo integrale con note e bibliografia

Premessa.
Il ruolo della Corte costituzionale deve essere difeso da tutti noi.
La Corte è una essenziale istituzione di garanzia e costituisce un insostituibile baluardo per la tenuta e la coerenza del nostro ordinamento giuridico e per la nostra democrazia.
Le critiche all´operato della Corte, o meglio, alle sue decisioni - critiche legittime essendo la Corte una istituzione del nostro ordinamento democratico – devono essere sempre fatte con spirito costruttivo, finalizzate quindi alla tutela ed al rafforzamento di questa fondamentale istituzione del nostro ordinamento.
Ed è questo spirito costruttivo che ispira le mie odierne riflessioni e che costituisce la cifra del mio intervento odierno.
Intervento che si focalizza essenzialmente sulle notissime sentenze della Corte n. 194 del 2018, n. 150 del 2020 e n. 59 del 2021 e che, per mancanza di tempo, dovrà inevitabilmente trascurare altri pur rilevanti provvedimenti emessi in questi ultimi tempi dalla Corte in materia di diritto del lavoro.
Le ragioni della scelta di queste sentenze sono evidenti.
Esse riguardano tutte profili significativi della disciplina delle conseguenze del licenziamento illegittimo, disciplina fortemente innovativa (rispetto all´art. 18 Stat. lav., entrato in vigore nel maggio 1970, e rimasto sostanzialmente invariato per oltre 40 anni) introdotta prima con la legge Fornero del 2012 (che ha dettato una radicale riscrittura del citato art. 18) e poi con il d.lgs. n. 23 del 2015 nell´ambito del c.d. jobs act.
Il poco tempo a disposizione ed il fatto di parlare ad una platea di esperti mi esime dal compito di illustrare il contenuto delle singole decisioni.
Inoltre, approfittando del fatto di essere l´unico magistrato nel panel dei relatori (gli altri relatori sono autorevoli membri dell´accademia) mi concentrerò particolarmente sulle problematiche applicative che traggono origine dalle citate decisioni.

Una diversità di approccio di cui sfugge la logica
Con i primi due interventi (C. cost. n. 194/2018 e C. cost. n. 150/2020) - che hanno riguardato il jobs act - la Corte ha cancellato uno dei tratti qualificanti del nuovo sistema sanzionatorio del licenziamento illegittimo costituito dalla predeterminazione, crescente in base all’anzianità - e quindi basata su elementi certi ed incontrovertibili - dell´indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato. Per usare le parole del legislatore delegante (art. 1, comma 7, lettera c) legge n. 183 del 2014) “un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio”.
Dal punto di vista datoriale ciò significava la prevedibilità del costo economico del licenziamento illegittimo.
La Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittimo il rigido meccanismo previsto dalla legge ed ha riconsegnato la determinazione di quel costo alla discrezionalità del giudice.
Con il terzo intervento (C. cost. n. 59 del 2021) il giudice delle leggi, con riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ha eliminato l´alternativa fra tutela reintegratoria e tutela risarcitoria. Una alternativa che l’art. 18, comma 7, lasciava al potere discrezionale del giudice e che con la sentenza è stata eliminata, posto che, nel caso di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, la tutela, dopo la sentenza n. 59 del 2021, è unicamente quella reintegratoria.
Dalla lettura delle citate decisioni appare evidente la diversa valutazione, da parte della Corte, concernente la discrezionalità del giudice: nelle prime due sentenze (in senso cronologico) tale discrezionalità è considerata un valore costituzionalmente rilevante, mentre nella terza viene considerata come un elemento di irragionevolezza del sistema (come rilevato in dottrina, in particolare, da Cester e da Ichino).
A mio avviso, di tale diversa valutazione la Corte non fornisce convincente motivazione.
La sentenza n. 194 del 2018 ha affermato che la predeterminazione forfetizzata del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo (attualmente la misura minima dell'indennità è pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, laddove la misura massima è stata fissata in trentasei mensilità) contrasta, anzitutto, con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione di situazioni diverse. Ciò in quanto – afferma la Corte - nel predeterminare interamente il quantum in relazione all'unico parametro dell'anzianità di servizio, il comma 1 dell´art. 3 connota l'indennità, oltre che come rigida, come uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità laddove, secondo un dato di comune esperienza, il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L'anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è dunque solo uno dei tanti.
A questo punto la Corte ha affermato (e questo mi pare che costituisca il punto centrale della sua argomentazione), che il legislatore ha sempre valorizzato la molteplicità dei fattori che incidono sull'entità del pregiudizio causato dall'ingiustificato licenziamento e conseguentemente sulla misura del risarcimento.
La norma in esame si discosta, secondo la Corte, da tale criterio ed è pertanto illegittima atteso che, “in una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all'unico parametro dell'anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia”. Ha aggiunto inoltre la Corte che, all'interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell'impresa, la discrezionalità del giudice risponde all'esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, esigenza imposta dal principio di eguaglianza. La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un'indebita omologazione di situazioni che possono essere - e sono, nell'esperienza concreta - diverse.
Devo confessare che questo percorso motivazionale mi ha destato qualche perplessità.
Rilevo, in particolare, che per oltre quaranta anni, sotto il vigore dell´art. 18 Stat. lav. prima della riscrittura ad opera della legge Fornero, il giudice del lavoro era totalmente privo di discrezionalità nella determinazione dell´ammontare dell´indennità risarcitoria da licenziamento illegittimo, essendo questa determinata sulla base del numero delle mensilità intercorrenti dalla data del licenziamento a quella della reintegrazione (con il limite minimo delle cinque mensilità), e quindi sulla base di un criterio estremamente variabile e casuale costituito dalla durata del processo.
E ciò per qualsiasi violazione, anche meramente formale e anche di minima gravità.
E su questo regime rigido, generatore di frequentissime ipotesi di disuguaglianza di trattamento (fattispecie identiche di licenziamento illegittimo che davano luogo a liquidazioni del danno assolutamente diverse) la Corte non ha mai ritenuto di dover intervenire.
Tralascio, per ragioni di tempo, l´esame dell´ulteriore motivo di illegittimità posto alla base della decisione in esame, e cioè la violazione del criterio di ragionevolezza, non senza rilevare che, in questo caso, la motivazione appare piuttosto apodittica nell´affermare l´inadeguatezza della soglia minima dell´indennità (sei mensilità) sia sotto il profilo del ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, sia sotto il profilo della sua funzione dissuasiva.
Nella sentenza n. 59 del 2021, come dicevo in precedenza, la discrezionalità attribuita al giudice dal legislatore - art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge Fornero, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» - la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma (e cioè la tutela reintegratoria) - costituisce una ragione sufficiente per dichiarare l´incostituzionalità della norma nella parte in cui attribuisce tale discrezionalità.
Scrive infatti la Corte che la suddetta disposizione, nel sancire una facoltà discrezionale di concedere o negare la reintegrazione del lavoratore, pur nell'ampio margine di apprezzamento che compete al legislatore, viola i princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza.
Sul punto la Corte argomenta che il carattere meramente facoltativo della reintegrazione dei licenziamenti economici rivela una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del 2012 e viola pertanto il principio di eguaglianza. Ed infatti, secondo la Corte, le peculiarità delle fattispecie di licenziamento non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l'insussistenza del fatto meritevole del rimedio della reintegrazione e che, per il licenziamento economico, si richieda finanche il più pregnante presupposto dell'insussistenza manifesta. L'esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente, sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l'interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore.

L´applicazione del principio di eguaglianza secondo C. cost. n. 59 del 2021
Ma, a parte la suddetta poco comprensibile diversità di approccio vorrei soffermarmi sull`applicazione del principio di eguaglianza che, a mio avviso, nel caso di specie, merita qualche breve considerazione.
È pacifico che il principio di eguaglianza si applica solo con riferimento a situazioni omogenee.
E, in questa ottica, il ragionamento della Corte è molto semplice: l´insussistenza del fatto disciplinare posto alla base del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo e la insussistenza (per di più manifesta) del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sono situazioni omogenee per cui non trova giustificazione la norma che, con riferimento alla seconda ipotesi, attribuisce al giudice un potere discrezionale di scelta sul tipo di tutela da applicare, reintegratoria o indennitaria.
Ma, mi domando: è corretto basarsi sulla mera omogeneità linguistica delle espressioni usate dal legislatore, come sembra fare la Corte, senza tener conto della assoluta diversità degli istituti giuridici sottostanti e cioè giusta causa da un lato e giustificato motivo oggettivo dall´altro?
Nell´un caso il lavoratore viene accusato di un comportamento disciplinarmente rilevante, oggetto di previa contestazione che delinea i contorni del fatto addebitato ed individua chiaramente il perimetro dell´onere probatorio gravante sul datore di lavoro. Ove il fatto non venga provato nei suoi elementi costitutivi esso viene ritenuto insussistente con conseguente applicazione della tutela reintegratoria.
Nel caso del giustificato motivo oggettivo vi è una scelta tecnica ed organizzativa dell´imprenditore che determina la soppressione di un posto di lavoro. L´onere probatorio gravante sul datore di lavoro è molto più complesso e l´esito è a rischio in quanto coinvolge un delicato e a volte difficile apprezzamento della situazione aziendale da parte del giudice.
Ma vi è di più. Per costante giurisprudenza della Corte di cassazione l´onere probatorio a carico del datore di lavoro si estende all´impossibilità di ricollocazione del lavoratore all´interno dell´azienda (c.d. obbligo di repêchage). E, sempre secondo la giurisprudenza di legittimità, il repêchage può riguardare anche le mansioni inferiori.
Il che significa che l´onere probatorio a carico del datore di lavoro si estende a dismisura e può diventare estremamente difficoltoso.
Deve inoltre sottolinearsi che con un recente, meditato orientamento, la S.C. ha stabilito che anche il repêchage costituisce parte integrante della fattispecie e che quindi la mancata soddisfazione del relativo onere probatorio implica l´insussistenza del fatto contestato.
Come si vede, al di sotto di quel velo linguistico costituito dall´espressione insussistenza del fatto, si celano fattispecie estremamente diverse che giustificano pienamente, a mio avviso, un trattamento sanzionatorio diverso.
Diversità che il legislatore ha saputo cogliere attribuendo al giudice un potere discrezionale di scelta fra i regimi sanzionatori possibili e che la Corte non ha saputo o voluto, invece, considerare.
La Corte ha ritenuto altresì l´'irragionevolezza intrinseca del criterio distintivo adottato, che ha rimesso la scelta tra due forme di tutela profondamente diverse - quella reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella meramente indennitaria - a una valutazione del giudice disancorata da precisi punti di riferimento.
In questo contesto la Corte costituzionale ha bocciato senza mezzi termini (“è sprovvisto di un fondamento razionale”) la soluzione prospettata dalla Corte di legittimità che assoggetta a una valutazione in termini di eccessiva onerosità la valutazione del giudice relativa all´applicazione o meno della tutela reintegratoria.
Ad avviso della Corte costituzionale l’eccessiva onerosità, declinata come incompatibilità con la struttura organizzativa nel frattempo assunta dall’impresa, presuppone valutazioni comparative non lineari nella dialettica tra il diritto del lavoratore a non essere arbitrariamente estromesso dal posto di lavoro e la libertà di iniziativa economica privata. È, pertanto, manifestamente irragionevole la scelta di riconnettere a fattori contingenti, e comunque determinati dalle scelte del responsabile dell’illecito, conseguenze di notevole portata, che si riverberano sull’alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria.
Non ritengo di dover commentare, in questa sede, tale profilo motivazionale (che taccia i giudici di legittimità di adottare soluzioni “sprovviste di fondamento razionale”) ma mi limito ad osservare che in parallelo con quanto fatto nella sentenza n. 194 del 2018 la Corte costituzionale avrebbe forse potuto individuare dei parametri guida “provvisti di fondamento razionale” per l´esercizio del potere discrezionale attribuito al giudice; la Corte ha invece provveduto con una sentenza c.d. sostitutiva, che in effetti manipola e modifica il testo della legge, non limitandosi ad affermare la contrarietà a Costituzione del testo indagato, ma spingendosi a sostituirlo con un diverso testo, ritenuto conforme alla Carta fondamentale.
Come è stato rilevato in dottrina (ricordo, in particolare, Cester) tale tipologia di sentenza apre il problema del possibile sconfinamento della Corte verso poteri normativi che alla stessa sono preclusi, o, meglio, verso un ruolo “politico” della Corte che tenderebbe a sopravanzare il ruolo essenzialmente giurisdizionale assegnatole dalla Costituzione. E tale problema di sconfinamento è tanto più serio nel caso in esame nel quale la modifica del testo normativo è ispirata al rispetto di princìpi - come quello di eguaglianza - che si declinano alla luce di parametri dai contorni tutt’altro che definiti, come ragionevolezza e proporzionalità.

Conseguenze sul quadro normativo complessivo
A questo punto mi pare utile domandarsi se con queste sentenze la Corte costituzionale ha razionalizzato il sistema, lo ha semplificato e reso più chiaro e coerente.
La mia risposta a questo interrogativo è, purtroppo, negativa, specialmente con riferimento a quest´ultima sentenza (la n. 59 del 2021) che anzi, temo, sarà foriera di ulteriori dubbi e incertezze.
All´esito della sentenza della Corte, lo spazio di applicazione dell´istituto della reintegrazione nell´ambito del giustificato motivo oggettivo risulta fortemente ampliato, atteso che l´unico limite a tale ampliamento è costituito dall´ulteriore requisito previsto dalla norma e cioè dal fatto che l´insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere “manifesta”. È comunque difficilmente dubitabile che nella pratica, tenuto conto degli oneri probatori connessi, il regime sanzionatorio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo corra il rischio di diventare più severo rispetto a quello previsto per la giusta causa.
Il che è palesemente assurdo, sia per motivi etici (è giusto sanzionare più gravemente il datore di lavoro che abbia ingiustamente accusato il lavoratore di condotte illecite), sia per contrarietà a esplicite scelte del legislatore, scelte che si sono manifestate apertis verbis nella legge delega del jobs act.
Scelte di cui peraltro la Corte Costituzionale ha già sancito la piena legittimità avendo stabilito che il legislatore può legittimamente prevedere un meccanismo di tutela solo indennitario e non già anche reintegratorio, ed avendo confermato che l’esclusione della reintegrazione per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo sancita dal jobs act non pone un tema di incostituzionalità della norma. E ciò, nonostante il fatto che il d.lgs. n. 23 del 2015 abbia mantenuto la reintegrazione per il caso di licenziamento disciplinare viziato per “insussistenza” del fatto oggetto di contestazione.
Sempre nell´ambito della legge Fornero, il possibile notevole ampliamento delle ipotesi di sanzione reintegratoria nell´ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinata dalla sentenza in questione, e la motivazione di questo allargamento riferita quasi esclusivamente alla necessità di tutela del lavoratore, rende più accentuata la differenza di trattamento rispetto ai lavoratori dipendenti da piccole imprese, imprese cioè che non raggiungono il requisito dimensionale di cui al comma 8 dell´art. 18 Stat. lav. nella formulazione della legge Fornero.
Requisito dimensionale basato unicamente sul numero dei dipendenti e che, a causa dei nuovi assetti organizzativi consentiti dalle tecnologie informatiche, sta diventando sempre meno indicativo, almeno in alcuni settori, della forza economica dell´impresa.
Ai lavoratori delle “piccole” imprese si applica, come è noto, l´art. 8 della legge n. 604 del 1966 (come sostituito dall'art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990) che prevede un regime di tutela c.d. obbligatorio con indennità per il lavoratore licenziato apprezzabilmente inferiori.
La coerenza del sistema mostra criticità ancora più evidenti con riferimento al regime delle sanzioni da licenziamento illegittimo introdotta dal jobs act.
La forte espansione, indotta dalla sentenza della Corte, del regime della reintegrazione nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel vigore della legge Fornero si pone in netta controtendenza rispetto al regime previsto per i lavoratori assunti a partire dal marzo 2015, atteso che il d.lgs. n. 23 del 2015 prevede per tale tipo di licenziamento, nel caso di sua illegittimità, sempre e comunque la tutela indennitaria.
Inoltre il percorso argomentativo seguito dalla Corte potrebbe essere utilizzato anche all’interno del d.lgs. n. 23 del 2015, dove è accentuata la disparità di sanzioni a seconda che si tratti di licenziamento soggettivo basato sulla insussistenza del fatto (ancora munito di tutela reale) o di licenziamento oggettivo senza ulteriori qualificazioni (con tutela sempre e solo indennitaria).
Infine, devo riscontrare conseguenze sistematiche anche con riferimento alla disciplina dei licenziamenti collettivi.
All´interno della disciplina Fornero, va evidenziato che, l´ampliamento generato dalla sentenza in esame, della tutela reintegratoria nel g.m.o., sembra porsi in contrasto con la scelta del legislatore di limitare, in caso di licenziamento collettivo, la tutela reintegratoria alla sola ipotesi di violazione dei criteri di scelta laddove per tutti gli altri vizi procedurali è prevista la tutela indennitaria.
Aporia che diventa ancora più evidente con il d.lgs. n. 23 del 2015 che prevede, per il licenziamento collettivo l´applicazione generalizzata della tutela indennitaria (con l´unica esclusione, poco realistica, del licenziamento collettivo intimato in forma orale).
Meno drammatiche appaiono le conseguenze sistematiche derivanti da C. cost. n. 194 del 2018.
Mi pongo, con riferimento ad essa, una sola domanda: siamo sicuri che l´aver affidato al giudice il potere di determinare l´indennità in maniera non automatica, come previsto dal legislatore, ma sulla base di criteri che possono implicare valutazioni delicate e complesse, affidate alla sensibilità del singolo giudice, garantisca meglio il rispetto del principio di eguaglianza?

Conclusioni.
Le sintetiche riflessioni che vi ho rassegnato dimostrano in modo incontrovertibile, a mio avviso, la necessità di un intervento di forte razionalizzazione del sistema. Intervento che spetta solo ed esclusivamente al legislatore al quale è attribuito, in via esclusiva, il compito di fare le scelte politiche che ritiene più utili al Paese.
Deve quindi escludersi che siffatto intervento possa essere realizzato dalla Corte costituzionale che non può essere una terza istanza legislativa e che è e deve rimanere il guardiano dei confini della Costituzione.

 

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.