Testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6796 pubblicata il 2 marzo 2022, è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di un licenziamento disciplinare intimato dal datore di lavoro per un (“lieve”) abuso di permessi usufruiti dal lavoratore per l’assistenza ai familiari in situazione di handicap grave (art. 33, comma 3, L. n. 104/1992). Se da un lato, infatti, i permessi previsti dalla L. n. 104/1992 (così come quelli, incluso il congedo, previsti dall’art. 42 del D.lgs. n. 151/2001) costituiscono attuazione del sistema di welfare, rispondente ai doveri di solidarietà sociale, dall’altro possono sussistere fenomeni di abuso di tali agevolazioni. Nel caso deciso, un lavoratore veniva licenziato a seguito dell’iter previsto dall’art. 7 della L. n. 300/1970 per aver usufruito dei permessi per finalità estranee all’assistenza al familiare disabile (la fattispecie su cui la Corte si è pronunciata ricadeva nell’ambito di applicazione dell’art. 18 della L. n. 300/1970 nella versione in vigore a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1, comma 42, L. n. 92/2012). La pronuncia chiarisce che l’abuso del diritto (nel caso di specie l’utilizzo dei permessi per l’assistenza ai familiari disabili a fini estranei a tale attività), anche se sussistente in base ai fatti addebitati in sede di contestazione disciplinare, non è condizione sufficiente ad integrare una giusta causa di licenziamento del lavoratore. Tuttavia, in tale ipotesi può assumere carattere residuale la tutela reale, prevista dall’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970 (“Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria”), in luogo di quella indennitaria prevista dal successivo comma 5 (“Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria”). Il tenore letterale dell’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970 richiede infatti o l’insussistenza del fatto o che il comportamento addebitato sia riconducibile ad una condotta per la quale la contrattazione collettiva espressamente preveda una sanzione conservativa. Perciò o la condotta è tipizzata e così la sanzione oppure il licenziamento dovrà essere valutato sotto il diverso profilo della proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato (art. 18, comma 5, L. n. 300/1970). Ciò non è sempre agevole, dal momento che le ipotesi di irrogabilità delle sanzioni sono solo esemplificative, dunque lo sforzo di ricostruzione sta nella necessità di inquadrare il fatto concreto addebitato ad una ipotesi astratta, al fine di sostenere l’illegittimità del recesso proprio perché per quel fatto è invece prevista una sanzione più lieve. Nelle “altre ipotesi”, inoltre, il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e sanzione deve essere necessariamente svolto con riferimento al caso concreto, e non in via meramente astratta.

2. La vicenda processuale e la decisione della Corte.

Nel caso deciso, al lavoratore era stato contestato di aver fruito di tre giornate di permesso ex L. n. 104/1992, motivate con l’esigenza di prestare assistenza alla madre, per dedicarsi invece ad attività estranee a detto scopo. Il giudice di primo grado aveva dichiarato illegittimo il licenziamento e condannato il datore alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, oltre al pagamento di un’indennità risarcitoria, applicando l’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970. Il giudice di appello, invece, aveva ritenuto sussistente l’abuso di diritto da parte del lavoratore, seppur estremamente limitato nel tempo (in particolare, nella ricostruzione degli addebiti, uno era stato considerato irrilevante in quanto i fatti accertati erano risultati diversi da quelli contestati, mentre in relazione agli altri due episodi il lavoratore aveva utilizzato i permessi concessi dall’art. 33 della L. n. 104/1992 per l’intero turno di lavoro e solo per un periodo di tempo limitato, ossia per 3 ore su 16, aveva svolto attività non inerenti all’assistenza) e, in considerazione di tale condotta tenuta dal dipendente, aveva ritenuto sproporzionata la sanzione del licenziamento irrogata dal datore di lavoro. Il giudice di appello, considerato comunque sussistente il fatto, aveva applicato la sola tutela indennitaria prevista dall’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970, condannando il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria, in luogo del reintegro stabilito dal giudice di primo grado. Il lavoratore impugnava quindi per Cassazione la sentenza di appello per difetto di motivazione e contraddittorietà alla luce del fatto che, nonostante il giudice avesse ritenuto illegittimo il licenziamento, non avesse applicato la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 comma 4, anziché quella indennitaria prevista dal comma 5 della L. n. 300/1970. Inoltre, censurava la sentenza anche sotto il profilo della violazione del contratto collettivo applicabile, laddove era stata esclusa l’applicazione della sanzione conservativa. Sotto quest’ultimo profilo, la Corte d’appello aveva ritenuto, alla luce del fatto che la contestazione disciplinare mossa al lavoratore aveva escluso che la fattispecie fosse sussumibile nella previsione di assenza ingiustificata dal servizio, punita con la sanzione conservativa, dato che veniva contestato l’abuso nella fruizione dei permessi di cui alla L. n. 104/1992 e si trattasse, dunque, di un comportamento tenuto durante la sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa. La Cassazione non ha affrontato tale aspetto, poiché la questione se la condotta tenuta dal lavoratore fosse passibile di sanzione conservativa era stata decisa negativamente dal giudice di primo grado e il relativo capo di sentenza non aveva formato oggetto di censure in appello e, dunque, l’esame era precluso in sede di legittimità. Quanto alla tutela applicabile, nonostante fosse stato accertato il difetto di proporzionalità del recesso datoriale, il giudice di legittimità ha ritenuto corretta l’applicazione della sola tutela indennitaria, alla luce del fatto che gli addebiti mossi costituivano abuso del diritto, sebbene l’attività diversa da quella assistenziale fosse avvenuta in una percentuale ridotta. Accertata la condotta abusiva (ed esclusa l’ipotesi di “insussistenza del fatto contestato”), la fattispecie non è stata ricondotta ad una delle ipotesi in cui la contrattazione collettiva prevedeva l’applicazione di una sanzione conservativa, con esclusione quindi della possibilità di applicare la tutela prevista dall’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970. Secondo la Cassazione, “nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti, solo alcuni dei quali risultino dimostrati, la “insussistenza del fatto” si configura qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o se si realizzi l’ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità, ferma restando la necessità di operare, in ogni caso, una valutazione di proporzionalità tra la sanzione ed i comportamenti dimostrati, con la conseguenza che, nell’ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa, ricadendo la proporzionalità tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5, della L. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della L. n. 92 del 2012, per le quali è prevista la tutela indennitaria cd. forte”. Pertanto, laddove l’abuso del diritto per l’utilizzo a fini privati dei permessi per l’assistenza del familiare disabile è accertato come sussistente, il giudice è chiamato ad un duplice accertamento. In primo luogo, dovrà accertare se “il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili” (art. 18, comma 4, L. n. 300/1970) e applicare la tutela reale. In caso di riscontro negativo, dovrà accertare se il fatto non integra una giusta causa di licenziamento, in base ad un giudizio di proporzionalità, qualora la condotta del lavoratore non sia tale da giustificare la misura disciplinare adottata. Tali accertamenti, e in particolare la valutazione di proporzionalità della sanzione inflitta, implicando la considerazione di ogni aspetto concreto della vicenda, spettano al giudice di merito, con giudizio che, qualora sia sorretto da una motivazione adeguata e logica, sarebbe incensurabile in sede di legittimità (cfr. Cass., Sez. lavoro, 4 marzo 2022, n. 7268). Rilevante, sotto altro profilo, è il capo della motivazione che, facendo riferimento al principio di immutabilità della contestazione, non consente al datore di lavoro di sottoporre alla valutazione del giudice una condotta diversa (nel caso in esame il datore aveva contestato al lavoratore di essersi recato a caccia il primo giorno di permesso, mentre in corso di causa era stata accertata la diversa condotta consistita nell’aver portato il cane dal veterinario).

3. Conclusioni.

La pronuncia della Cassazione offre lo spunto per alcune riflessioni sulle problematiche del ricorso per cassazione al cospetto di accertamenti su circostanze di fatto. L’esercizio del potere disciplinare del datore, difatti, è in primo luogo vincolato dalla contestazione mossa nei confronti del lavoratore. La Corte di Cassazione ha messo a fuoco i criteri in base ai quali si deve valutare se si sia integrato un vero e proprio abuso, o comunque un uso improprio, del diritto al congedo ex L. n. 104/1992, o, viceversa, un uso che, pur non pienamente aderente alle finalità dell’istituto, non comprometta pienamente la realizzazione della finalità assistenziale che ne costituisce la funzione. In tale seconda ipotesi permane la rilevanza disciplinare del comportamento del lavoratore, ma viene sensibilmente diminuita la gravità della condotta. Nel caso in esame la Corte ha ritenuto immune da vizi la tesi del giudice di secondo grado, che aveva ritenuto sussistere l’abuso pur in presenza di un tempo marginale delle ore complessive di permesso dedicato allo svolgimento di attività non inerenti all’assistenza del familiare. Perciò, anche nel caso di abusi “lievi” andrebbe esclusa l’illegittimità del licenziamento nella declinazione prevista dall’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970 - per “insussistenza del fatto contestato” - e, di conseguenza, la tutela reale, salvo che la condotta ricada in una delle ipotesi per la quale sarebbe stata applicabile una sanzione conservativa. Sotto quest’ultimo profilo la Corte di Cassazione, in un caso recente, ha ritenuto che la condotta del lavoratore fosse punibile con una sanzione conservativa e, quindi, insussistente la giusta causa di licenziamento, con applicazione della tutela ex art. 18, comma 4, L. n. 300/1970 (nella fattispecie il giudice di merito aveva ritenuto che l’abuso del permesso ex L. n. 104/1992 fosse sussumibile nella condotta di assenza arbitraria per un giorno lavorativo, punita dal contratto collettivo applicabile con una sanzione conservativa), chiarendo che “al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 commi 4 e 5, come novellata dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove sia espressa attraverso clausole generali o elastiche” (Cass., Sez. lavoro, 26 aprile 2022, n. 13065). Nella pronuncia in commento la Cassazione non sembra avere dato seguito all’orientamento secondo il quale la condotta del lavoratore integrerebbe un’ipotesi di abuso del diritto, tale da rendere legittimo il licenziamento, solo nel caso in cui il dipendente renda funzionali i giorni di permesso ad esigenze differenti dall’assistenza in modo esclusivo e predeterminato (cfr. Cass., Sez. lavoro, 22 ottobre 2019, n. 26956). Ciò si realizzerebbe, infatti, solo quando risulti del tutto mancante il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, anche con riguardo alle attività funzionalmente collegate al perseguimento degli interessi e dell’utilità dell’assistito.

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