Testo integrale con note e bibliografia

1. Il libro di Gabriele Franza (Il valore del precedente e la tutela dell’affidamento nel diritto del lavoro, Torino, 2019) mi fu segnalato da Franco Carinci che mi suggerì di recensirlo per Argomenti di diritto del lavoro.

Recensione che è stata positiva e che, dopo aver riletto il libro per preparami ad oggi, confermo per almeno due ragioni.

2. La prima ragione è che Gabriele Franza ha affrontato un problema, al tempo stesso, suggestivo e di difficile soluzione.

Trattasi del problema posto dalla necessità di conciliare due esigenze contrastanti.

Quella di garantire la certezza del diritto (oltre al rispetto della legge anche quello dei precedenti giudiziari) anche al fine di tutelare l’affidamento dei cittadini.

Quella di consentire ai giudici la libertà di provvedere all’interpretazione evolutiva della legge per dare risposte continue ed adeguate alla costante evoluzione della realtà economica e sociale.

3. La seconda ragione è che il libro di Gabriele Franza non solo ha un’anima (cosa sempre più rara in tempo in cui i libri si fanno con il copia e incolla), ma si spinge anche su territori poco esplorati dai giuslavoristi: il diritto processuale e il diritto comparato.

Ed infatti, Gabriele Franza confronta l’ordinamento italiano con quello inglese ritenuto, giustamente interessante perché caratterizzato dalla regola dello stare decisis.

4. In questa sede, più che ripercorrere, magari criticamente, i passaggi argomentativi seguiti da Gabriele Franza (molti di voi già hanno letto ed apprezzato il libro e altri lo leggeranno) vorrei tentare in qualche modo rispondere agli stimoli che ci sono stati offerti.

5. Stimoli offerti da Gabriele Franza perchè ha saputo condurre un’analisi convincente percorrendo sentieri ardui e difficili.

Su questi sentieri, però, non mi arrischio di seguirlo perché non ne ho le forze.

Mi limiterò, quindi, a proporre due riflessioni che, a mio avviso, segnalano l’opportunità di una certa prudenza quando si parla dell’autorità dei precedenti confrontando il sistema giudiziario italiano e quello inglese.

6. La prima riflessione riguarda le differenze esistenti tra gli ordinamenti di civil law, come quello italiano, e gli ordinamenti di common law (in particolare di quello inglese al quale mi riferirò) nei quali si è affermata, e continua ad essere applicata, la regola dello stare decisis.

7. Esiste, infatti, una differenza funzionale: nei sistemi di common law la giurisprudenza può essere fonte di diritto e, quindi, il compito dei giudici è, per definizione, anche quello di creare il diritto.

Certo, i giudici inglesi non sono i soli a far diritto perché, da sempre e come avviene in tutti gli ordinamenti democratici, il legislatore, quando lo ritiene, è intervenuto, e interviene, per regolare specifiche materie che esigono una disciplina legislativa.

Per queste materie, anche i giudici inglesi sono soggetti alla legge.

8. C’è un esempio che aiuta a comprendere il modo in cui i giudici inglesi creano diritto.

Il diritto inglese, non essendo stato influenzato dalla codificazione napoleonica, non prevede la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta.

Tant’è che, con una sentenza ancora del 1863 (causa Taylor vs. Coldewell), in continuità (ecco l’autorità del precedente) con una sentenza del 1579 (Hydse vs. Dean of Winsdor), i giudici inglesi avevano considerato la morte del lavoratore come inadempimento dell’obbligo di lavorare per un determinato tempo e, quindi, avevano condannato i suoi eredi al risarcimento dei danni.

Orbene, alla mancata previsione della risoluzione per impossibilità sopravvenuta i giudici inglesi hanno supplito con una giurisprudenza in funzione legislativa.

Hanno, cioè, stabilito che si debba sempre presumere che ogni contratto contiene la clausola che un buon padre di famiglia avrebbe inserito se avesse previsto che si sarebbe potuto verificare una causa che avrebbe impedito l’esecuzione della prestazione.

9. Per contro, nei sistemi di civil law, i giudici, per definizione, non “fanno diritto” perchè sono soggetti alla legge (da noi il secondo comma dell’art. 101 Cost. dispone che sono soggetti soltanto alla legge, ma alla legge sono soggetti).

Certo, da tempo, siamo tutti convinti che non ha più senso l’idea che il giudice, come si diceva ai tempi della prima codificazione dell’800, è soltanto la bouche de la loi.

Ma bisogna intendersi in che senso.

Ed infatti, nel nostro sistema costituzionale, la sovranità (che comprende anche il potere di dettar legge) appartiene soltanto al popolo (art. 1 Cost.) che la esercita eleggendo, a suffragio universale, i membri del Parlamento al quale soltanto è affidata la funzione legislativa (art. 70 Cost.).

10. Al più, come si legge nella relazione letta dal Primo Presidente della Corte di cassazione quando ha inaugurato l’anno giudiziario del 2022, spetta ai giudici “l’individuazione del significato dell’enunciato (della legge) secondo le potenzialità di senso che vi sono incluse in coerenza con il sistema”.

Ciò, tuttavia, non significa affatto che i giudici “fanno diritto”.

Significa soltanto che interpretano la legge dando applicazione ai due canoni ermeneutici previsti dall’art. 12 disp. prel. Cod. Civ.:

a) l’“enunciato” è il “senso fatto palese dal significato proprio delle parole”

b) e la “coerenza con il sistema” è l’“’intenzione del legislatore”.

11. Connessa a quella funzionale v’è, poi, anche una differenza strutturale, ma che, a mio avviso, non è minore importanza.

Differenza determinata da ciò che:

a) nell’ordinamento inglese, dal 2005, i giudici della Corte Suprema (che governa i precedenti) sono soltanto 12 e sono scelti dall’ autorità governativa (che ne risponde politicamente) non solo tra chi è stato membro di una delle Alte Corti inglesi e scozzesi (che, più o meno sono 150), ma anche tra i barrister (avvocati) che si siano distinti per saggezza e prudenza;

b) organizzazione consentita da ciò che nell’ordinamento inglese la maggior parte del contenzioso è affidata agli Special Tribunal composti prevalentemente da laici, è diffuso il ricorso agli arbitrati mentre il contenzioso del lavoro (che affanna i nostri tribunali) è affidato alla giustizia sindacale (nei confronti della quale, come nei confronti degli arbitrati, il nostro legislatore è stato sempre diffidente);

c) per contro, i nostri consiglieri cassazione (ai quali compete di formulare i principi di diritto e, quindi, di creare i precedenti) sono circa 400 (che quando erano giovani si limitarono a vincere un concorso) e decidono ogni anno una media di 40.000 ricorsi (si noti che, per effetto del settimo comma dell’art 111 Cost. non è rispettata la regola dettata dalla saggezza degli antichi romani de minimis non curat praetor, onde i ricorsi possono avere ad oggetto anche soltanto multe di un centinaio di euro);

d) a fronte di questa situazione, gli avvocati inglesi abilitati a difendere avanti le Alte Corti (barrister) sono circa 6.500, mentre si può ritenere che dei circa 230.000 avvocati italiani almeno 40.000 sono, per anzianità, cassazionisti (con un po' di malizia ricordo che la media dei ricorsi per cassazione dichiarati interamente inammissibili è del 25%, mentre non si sa quanti singoli motivi di ricorso sono dichiarati inammissibili).

12. La seconda riflessione attiene ai limiti che, nel nostro sistema, impediscono che i precedenti giudiziari abbiano autorità.

Delle disposizioni del Codice di procedura civile che darebbero rilevanza ai precedenti vi dirà, assai meglio di quanto potrei fare io, il prof. Domenico Borghesi.

Mi limiterò a fare alcuni cenni per ricordare quella che, credo, sia l’esperienza di tutti.

13. Anzitutto, è netta l’impressione che, in realtà, il rispetto del precedente è previsto anche nel nostro ordinamento che, come prevede l’art. 65 del r.d. n. 12 del 1941, garantisce “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”.

Funzione attribuita soltanto alla Corte di cassazione che la esercita con i limiti dei quali, ancora una volta, molto meglio di me vi dirà il prof. Domenico Borghesi.

Tuttavia, l’unico precedente veramente vincolante è quello della sentenza della Corte di cassazione che enuncia il “principio di diritto” che non può essere disatteso dal giudice del rinvio.

Ciò anche perché, in tutti gli altri casi, manca una sanzione processuale invalidante la decisione che si discosta dal precedente (manca anche una sanzione indiretta come era una volta).

14. E’ netta anche l’impressione che la ratio che anima molte delle disposizioni del Codice di procedura civile che assegnano rilevanza al precedente è soprattutto quella di tentare di smaltire l’oramai insopportabile arretrato del contenzioso giudiziario.

Ciò è dimostrato da ciò che la maggior parte di quelle disposizioni sono state introdotte, più o meno, negli ultimi dieci anni e, cioè, quando l’esigenza di snellire il contenzioso è divenuta più urgente.

Peraltro, a mio avviso, quelle disposizioni prevedono rimedi che non sempre sono razionali, ma sono rimedi automatici che, solo per questo, sono incivili.

Si pensi ai procedimenti camerali della Corte di cassazione nei quali è impedito agli avvocati delle parti di discutere oralmente.

15. Ma v’è di più. Da noi, i precedenti non garantiscono nemmeno un minimo di certezza del diritto per le ragioni che seguono.

16. In primo luogo, per l’enorme numero delle sentenze della Suprema Corte (ben oltre 40.000 l’anno tra le quali molte, se non gran parte, in materia di lavoro) per cui, come si diceva per la Rai, in quelle sentenze “si trova di tutto e di più”.

L’esperienza insegna, infatti, che basta cercare, oramai su internet, e, prima o poi, si trova il precedente che può essere utile.

A ciò si aggiunga che, stando al censimento del Ministero della giustizia del 2014, le sentenze delle Corti di Appello sono state 164.000, quelle dei Tribunali 2.847.000.

Un diluvio, quindi, di sentenze molte delle quali non potrebbero, comunque, costituire precedente perché non sono conosciute se non quando sono pubblicate sui siti internet o nelle riviste (e se si tratta siti o di riviste orientate, sono spesso pubblicate soltanto quelle che fanno comodo).

17. In secondo luogo, sempre stando alla relazione del Primo Presidente per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022, la durata media dei giudizi per cassazione (e cioè dei giudizi nei quali si consolidano i precedenti) nel 2021 è stata nel 17% dei casi di 3 - 4 anni (ed è la durata più breve); nel 19 % dei casi di 5-6 anni; nel 14 % dei casi di più di sei anni.

In questa situazione, è difficile anche soltanto pensare ad un’influenza reale dei precedenti.

Ed infatti, i giudici del merito, non solo non sono tenuti a rispettare i precedenti, ma, quando decidono, nemmeno conoscono quale sarà il precedente che condizionerà l’accoglimento, o il rigetto, del ricorso per cassazione proposto nei confronti delle loro sentenze.

Ed infatti, l’orientamento della Corte di cassazione del quale il giudice del merito ha tenuto conto ben potrebbe essere modificato nel corso dei sei anni successivi al momento in cui decidono.

18. In terzo luogo, come denuncia Gabriele Franza, nessuno ha definito il concetto di “giurisprudenza consolidata” nel senso che, così come avviene per il diritto vivente al quale tra poco farò cenno, nessuno ha detto a che condizioni e perché un orientamento giurisprudenziale possa dirsi “consolidato”.

Oltretutto, la saggezza vorrebbe che, come i voti, le sentenze si pesano e non si contano.

Una sentenza difforme rispetto all’orientamento già consolidato, può essere più convincente di questo e, quindi, avere maggiore autorità.

Sul punto, ricordo appena la prassi inglese delle dissentig opinions che è negata ai nostri giudici (anche costituzionali) e che ha influito sull’evoluzione della giurisprudenza successiva.

19. In quarto luogo, la circolazione dei precedenti è, quasi sempre, affidata alle massime, ufficiali o, peggio, redazionali.

Prassi questa oramai tanto diffusa che, assai spesso, nella motivazione delle sentenze, il riferimento non è fatto agli argomenti contenuti nei precedenti citati, ma soltanto al numero e alla data delle sentenze che li contengono.

Prassi che era stata contestata, ma inutilmente, da un’autorevole dottrina (Redenti, Andreoli, Betti) perché le massime finiscono per avere, inammissibilmente, la struttura logica di una disposizione della legge.

Ed infatti, le massime nulla dicono delle caratteristiche della fattispecie concreta sebbene questa molto spesso influenza inevitabilmente la decisione.

20. Avviene, così, che la prassi di ragionare per massime impedisce di controllare l’affidabilità, e la pertinenza, del precedente invocato.

Il precedente, come risulta dalla massima, avendo poca, o nessuna, persuasività, finisce per essere applicato, si potrebbe dire, soltanto per pigrizia.

21. Un esempio consente di apprezzare la gravità degli effetti che possono derivare dalla prassi delle massime.

Sia la sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018 che alcune sentenze di merito (vedi Tribunale di Bergamo nel caso Raynair) hanno ritenuto che, nel nostro ordinamento, sarebbe consentito, se non richiesto, il risarcimento del “danno punitivo”.

Danno punitivo che è previsto dagli ordinamenti anglosassoni e che ha una funzione sostanzialmente diversa da quella, esclusivamente restitutoria, prevista dall’art. 1223 Cod. Civ. (danno emergente e lucro cessante).

Ed infatti, ha una funzione dissuasiva dell’inadempimento.

Orbene, il concetto di “danno positivo” è stato utilizzato nel presupposto che sarebbe stato introdotto nel nostro sistema giuridico per effetto della sentenza della Cass. Sez. Un. n. 16601 del 2017.

22. Senonchè, se i giudici avessero letto l’intera motivazione di quella sentenza (e non soltanto la massima), si sarebbero accorti che le Sezioni Unite:

a) non avevano affatto affermato che, l’art. 1223 Cod. Civ. può essere interpretato come se prevedesse un “danno punitivo”;

b) e, quindi, non avevano dato luogo ad un orientamento giurisprudenziale del tipo di quello che, coordinando l’art. 1223 con l’art. 2059 Cod. Civ., aveva ammesso la risarcibilità dei danni morali.

Ed infatti, nel 2017, le Sezioni Unite erano state chiamate a deliberare una sentenza di un giudice nordamericano che aveva previsto un risarcimento dissuasivo di oltre un milione e mezzo di dollari.

Pertanto, al limitato effetto di consentire l’applicazione in Italia di una sentenza straniera, le Sezioni Unite accertarono soltanto che (come richiede l’art. 64 della legge n. 218 del 1995), la previsione di un “danno punitivo” contenuta nella sentenza nordamericana non produceva “effetti contrari all’ordine pubblico” italiano.

Anzi proprio perché il “danno punitivo” non è previsto dalla legge italiana, le Sezioni Unite avvertirono che la previsione di “danni punitivi” è di esclusiva competenza del legislatore dovendosi evitare “un incontrollato soggettivismo giudiziario” e, cioè, quello che Gabriele Franza definisce “diritto liquido”.

23. In quinto ed ultimo luogo, oltre alle incertezze sulle quali ho tentato di richiamare la vostra attenzione, v’è l’utilizzazione del concetto di “diritto vivente” che sarebbe quello creato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione quando si ritiene che sia consolidata.

Certo, l’influenza che, in un modo o in altro, hanno orientamenti della giurisprudenza di legittimità (sempre che si sappia quando, e finchè, sono consolidati) descrive un fenomeno storico che non può essere contestato.

Ciò non consente, però, di porre il “diritto vivente” sul piano della legge.

24. Come insegnava, il mio Maestro, dal punto di vista teorico, il “diritto vivente” non è “diritto”, ma è soltanto prassi applicativa del diritto che, come tale, non ha, né può avere, autorità di legge (ricordiamo sempre il secondo comma dell’art. 101 Cost.).

Da un punto di vista pratico, da un lato, la Corte di cassazione, che sarebbe la fonte del “diritto vivente”, può mutare la sua giurisprudenza per cui si avrebbe un diritto, per definizione, incerto e provvisorio.

D’altro lato, i giudici del merito hanno la libertà di dottare scelte interpretative diverse da quelle preferite dai giudici di legittimità per cui si avrebbe un diritto, per così dire, facoltativo la cui applicazione è soltanto eventuale.

25. La situazione, a mio avviso, peggiora quando si considera la giurisprudenza del lavoro.

E’ noto che la giurisprudenza del lavoro ha avuto una funzione determinante quando, nell’immediato dopoguerra, pose le basi, in supplenza all’inerzia del legislatore, del diritto del lavoro repubblicano.

Ciò è stato possibile perché quella giurisprudenza è stata compatta in quanto costantemente ispirata a valori che, nello spirito del rinnovamento costituzionale, erano condivisi da tutti.

Così è accaduto: per l’affermazione di un diritto di sciopero prima ancora dell’entrata in vigore della Costituzione (unica eccezione una sentenza del Tribunale di Cremona del 1947); per la creazione, in attesa dell’attuazione dell’ art. 39 Cost., del concetto di contratto collettivo di diritto comune; per l’attuazione della garanzia della retribuzione sufficiente prevista dall’art. 36 Cost.).

26. Più recentemente la giurisprudenza del lavoro è stata determinante anche quando ha tentato di mettere ordine al caos normativo creato:

a) dalla presenza di più livelli di normative che si intersecano (quella eurocomunitaria, quella costituzionale, quella della legge ordinaria e, per il diritto del lavoro - che è un diritto meticcio - quella della contrattazione collettiva);

b) ma anche da un legislatore ambiguo, frettoloso e, a volte, contraddittorio;

c) dalla necessità, infine, di dare soluzione e problemi nuovi per i quali non esiste, o non esisteva, una disciplina legislativa: si pensi ai problemi posti dall’incessante evoluzione tecnologica e dai nuovi modelli di produzione nonchè ai riders e al problema posto dall’influenza che le leggi del 2012 e del 2015 hanno sulla prescrizione dei crediti di lavoro.

27. Fatto è, però, che, in questa situazione, molti giudici hanno ritenuto di poter affermare che la giurisdizione avrebbe un carattere indefettibilmente politico.

Basti ricordate che, anche nel campo di Magistratura Indipendente (che è la componente considerata “moderata” dalla magistratura), si afferma che:

a) i giudici non solo, come è naturale che sia, concorrono “alla formazione del sistema giuridico”;

b) ma vi concorrono con “apporto largamente discrezionale e creativo, combinando i dati normativi con valori provenienti dalla realtà sociale (e ancora una volta questa è naturale) non possono che essere definiti politici diversi, ma pericolosamente affini, a quelli dei partiti politici” (M. CICALA, in Diritto vivente 2022).

28. Viene, così, affermato, sia pure con gradazioni diverse, il carattere politico della giurisdizione che autorizzerebbe i giudici a decidere sulla base delle loro propensioni politiche non solo quando la legge tace, ma anche sostituendosi al legislatore tutte le volte che non ne condividono le valutazioni.

Anzi, il valore politico della giurisdizione consentirebbe anche l’interpretazione costituzionalmente orientata che permette ai giudici di sostituirsi alla Corte costituzionale.

29. Ed è questa un’altra ragione per cui, come avverte Gabriele Franza, spesso i contrasti di giurisprudenza sono troppo marcatamente patologici.

Ed infatti, (soprattutto in materia di lavoro in cui si tratta di dettar regola all’ineliminabile conflitto industriale) i contrasti sono determinati dall’influenza esercitata dalle convinzioni ideologiche o dalle propensioni individuali che, come ho accennato, sono considerati dagli stessi giudici, al più, “pericolosamente vicini” a quelle dei partiti politici (cfr. n. 28).

30. Le considerazioni fin qui svolte, impongono di condividere il pessimismo di Gabriele Franza quando, a conclusione della sua indagine, denuncia la tendenza di giudici” a farsi decisori politici al punto di trasformarsi in un < potere costituente permanente > ..peraltro dai mille volti”.

Tendenza dei giudici che finisce per rendere il diritto un “diritto liquido” con conseguente “inarrestabile e sfrenata perdita di certezza giuridica”.

Conclusioni meste ed allarmanti che, se segnalano l’importanza del problema di contemperare la tutela dell’affidamento con la libertà dei giudici, segnalano anche, a mio avviso, l’impossibilità di una soluzione rassicurante di quel problema.

31. Né, a mio avviso, una soluzione rassicurante potrebbe essere quella della giurisprudenza “predittiva” della quale sempre più spesso si parla.

Giurisprudenza predittiva che essendo gestita da un algoritmo, non può che essere stentorea e, quindi, garantire soltanto una certezza artificiosa ed ingannevole.

Tanto varrebbe accettare il paradosso di Francesco Guicciardini quando diceva che “meglio è la giustizia dei turchi che estraggono a sorte”.

32. Se mai, è anche da dire che come avverte Enrico Gragnoli nella presentazione del libro, queste tendenze dei giudici sono state consentite, se non favorite in qualche modo, anche dal “ripiegamento della dottrina giuslavoristica su traiettorie periferiche”.

Ed infatti, da tempo, una notevole parte della dottrina giuslavorista ha rifiutato di eseguire il compito che era tradizionale della giurisprudenza teorica: interpretare la legge esistente per costruire quegli strumenti di decisione che sono i concetti giuridici.

Ha, invece, privilegiato, metodi che hanno ad oggetto le dimensioni sociali dei fenomeni e, quindi, la dottrina giuslavoristica si è limitata a proporre nuove soluzioni legislative.

33. E’ questa la ragione per cui la dottrina giuslavoristica, sempre più spesso, ha scelto come interlocutori i sindacalisti e i politici, onde si è attenuato, se non spento, il dialogo con i giudici.

E’ mancato, così, non solo il contributo che la dottrina di un tempo aveva dato ai giudici, ma è mancato soprattutto un controllo critico sulla giurisprudenza.

Giurisprudenza che è stata lasciata sola consentendo ai giudici non solo l’ineliminabile libertà di convincimento, ma anche la libertà di fare loro stessi diritto.

34. A voler dare un qualche conclusione a queste modeste considerazioni, direi che, non a caso, il filosofo, leggendo la gloriosa formula “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”, si pone il problema di sapere chi è, poi, che fa la legge.

Un parlamento democraticamente eletto o i giudici che, quando erano giovani, vinsero un concorso?

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.