Testo integrale con note e bibliografia
1. Superare conservando: una prospettiva neocostituzionale senza nostalgia.
Il volume dal titolo Dieci tesi sul diritto del lavoro, di Adalberto Perulli e Valerio Speziale, rappresenta un interessante tentativo di discutere, e far discutere, del più novecentesco dei diritti, proiettandolo, però, oltre il Novecento.
Edito da Il Mulino, senza note e con una ricca bibliografia opportunamente collocata in coda, il libro è destinato, primariamente, a giuristi e giuslavoristi, ma pare altrettanto chiaramente pensato per coinvolgere nella riflessione un pubblico più vasto, purché interessato al futuro del lavoro nella società contemporanea e ai destini di coloro che sono – e continueranno ad essere – costretti a lavorare per vivere, indipendentemente dalla schema contrattuale tramite il quale saranno occupati nella produzione e nello scambio di beni e servizi.
Le dieci tesi – osservano gli stessi autori al termine di una Premessa significativamente aperta da un richiamo all’undicesima tesi su Feuerbach di Marx (p. 7) – intendono «contribuire ad un risveglio critico della razionalità sociale nel discorso giuridico», in cui l’approccio formalistico alle norme «lascia il passo ad un pensiero trasformatore che guarda al sistema normativo come ad una sfera rinnovata quanto ad autorità e autonomia assiologica» (p. 20).
Non per caso, è sovraesposto, sin dalle prime battute, il saldo ancoraggio della visione del lavoro proposta dagli Autori ai valori costituzionali di libertà, dignità, eguaglianza e solidarietà (p. 7) cui si accompagna, però, sempre, una spiccata attitudine dei due giuslavoristi a frequentare il futuro, e una conseguente idea della regolazione giuslavoristica del tutto scevra da nostalgie per il “glorioso passato”, nella comune consapevolezza che, sa da un lato, nulla sarà più come prima, dall’altro anche il trentennio 1945-1975 , ossia gli anni dell’industrialismo e del «lungo momento socialdemocratico» , che videro il diritto del lavoro guadagnare la propria compiuta maturità, rappresentò un’età-non-proprio-dell’oro, secondo la formula impiegata da un acuto osservatore d’oltreoceano .
Trasversale all’intero volume, nella sua pars destruens, si presenta la critica, severa, radicale e generale, alla lunga stagione neoliberista, specie con riguardo all’approccio che quella stagione ha riservato al lavoro e alla sua regolazione: nel testo viene sottoposto a critica non soltanto il primato della sfera economica sulla dimensione giuridica, ma pure tutti i corollari che ne sono, nel corso del tempo, scaturiti. Finiscono così nel mirino degli Autori, una dopo l’altra, sia le teorie neoclassiche sul funzionamento spontaneo del mercato sia le teorie dell’occupazione e della disoccupazione fondate sulle presunte rigidità del mercato del lavoro (p. 34), tanto la teoria dei vasi comunicanti, animata dalla nota contrapposizione tra insider e outsider (p. 10) quanto le più recenti teorie sulla prevedibilità del diritto (p. 33) che, nella declinazione assunta in Italia, nella stagione compresa tra il “Collegato lavoro” del 2010 e il Jobs Act del 2015, hanno determinato una drastica compressione del controllo giudiziale sulle scelte economico-organizzative dell’impresa (p. 70), sul fronte della flessibilità in entrata e sul versante del diritto dei licenziamenti (c.d. flessibilità in uscita).
Volendo invece ridurre al suo nocciolo duro la pars costruens del volume, ciò che accomuna più di ogni altro elemento le tesi proposte da Perulli e Speziale è l’idea di una rinnovata – e per certi versi inedita – centralità del binomio lavoro-libertà: la direzione di marcia che il diritto del lavoro dovrebbe imboccare, da qui in avanti, è proprio il rilancio del matrimonio tra lavoro e libertà, ostinatamente perseguito dai padri costituenti in un’epoca in cui la centralità del lavoro operaio nella grande fabbrica industriale di tipo fordista-taylorista, rendeva oggettivamente difficile superare il principio del capo, peraltro consacrato nel Codice civile del ’42 (artt. 2086, 2094, 2104 co. 2, c.c.). L’unione tra lavoro e libertà, annunciata dal costituzionalismo democratico della seconda metà del novecento e poi effettivamente celebrata, sul finire del trentennio d’oro del secolo breve, con leggi di attuazione costituzionale come lo Statuto dei lavoratori italiano del 1970, portava con sé un vizio originario: essa non poteva che pagare un tributo salato sull’altare della centralità politica, sociale e anche giuridica del lavoro subordinato ed eterodiretto che pure aveva lottato per conquistarle, sicché, ciò che il movimento operario poteva concretamente sperare di ottenere era, da un lato, sul fronte salariale, un innalzamento del prezzo del lavoro; dall’altro, sul fronte dell’organizzazione di fabbrica, l’introduzione di limiti ai poteri unilaterali del datore di lavoro funzionali a renderne l’esercizio non arbitrario bensì obbediente ai canoni della razionalità produttiva, oltre che rispettoso dei beni fondamentali della persona (dignità, libertà, riservatezza, professionalità).
Per aggiornare e rilanciare questa prospettiva neocostituzionale, invocando l’urgenza di un cambio di rotta rispetto al «relativismo assiologico» (p. 44) che ha caratterizzato le traiettorie dell’ultimo trentennio, Perulli e Speziale puntellano e arricchiscono l’impianto neo-repubblicano del proprio discorso con la teoria del riconoscimento di Alex Honnett : «promuovere e sostenere l’idea di un diritto del lavoro capace di produrre libertas e non necessitas, capacitas e non dominium, riconoscimento intersoggettivo e non subordinazione, è la grande sfida filosofico-politica che il diritto del lavoro ha oggi di fronte» .
2. Cinque tesi sulla democratizzazione dei rapporti di lavoro.
Se le prime due tesi, unitamente alla Premessa (L’evoluzione del diritto del lavoro tra razionalità economica e riconoscimento, pp. 7-20) servono a giustificare l’urgenza di un nuovo “compromesso civico” invocato dagli Autori (p. 39 s.), le 5 tesi che seguono (dalla III alla VII) rappresentano più puntuali declinazioni della direzione da imprimere al cambiamento, spaziando, per così dire, dalle fattispecie agli effetti, dalla dimensione individuale alla sfera collettiva, dalla protezione nel rapporto di lavoro alla protezione nel mercato.
Più in dettaglio, la tesi III, orientata a ridefinire Il campo d’applicazione del diritto del lavoro assume a pieno la prospettiva di un diritto del lavoro capace di guardare “oltre la subordinazione” – già lungamente indagata soprattutto da Perulli, da ultimo in un volume pubblicato per Giappichelli nel 2021 – inducendo a «considerare un nuovo modo d’intendere la funzione della materia, riarticolandone i presupposti e le finalità» (p. 61), pena una crisi epistemica tale da metterne radicalmente in discussione la stessa legittimazione scientifica (p. 57). Gli Autori non si limitano, tuttavia, a rammentare che, se si vuole davvero salvare il diritto del lavoro, è necessario modificarne il raggio d’azione, ma si spingono oltre: l’aspetto da sottolineare – ad opinione di chi scrive – riguarda una precisa scelta prospettica compiuta da Perulli e Speziale alla cui stregua i medesimi, certo favorevoli ad allargare l’area del lavoro protetto, non rivendicano affatto un’estensione della fattispecie tradizionale di riferimento (invocando una sorta di pan-subordinazione), col preciso scopo di lasciarsi alle spalle «il paradosso di un diritto che per tutelare le persone le assoggetta, per emanciparle limita la loro libertà, per riequilibrare posizioni giuridiche soggettive consacra e perpetua quel rapporto di potere asimmetrico tra le parti che, in principio, si doveva riequilibrare» (p. 56). In linea con questo pensiero, si ritiene, dunque, più consono prospettare «robusti nuclei di tutele inderogabili, sia individuali sia collettive, nel rapporto come nel mercato, a beneficio di tutto il lavoro economicamente dipendente» (p. 64), senza trascurare l’esigenza di un’estensione selettiva di alcune protezioni nell’ambito più generale del lavoro indipendente (p. 65).
Tale riflessione, ritenuta coerente con l’assetto normativo e assiologico della Costituzione del 1948 , oltre che in linea con alcune recenti indicazioni normative provenienti dal contesto nazionale e sovranazionale, si sposa con le due tesi successive, il cui baricentro è rappresentato dall’esigenze di perseguire un’effettiva liberazione nel lavoro: la tesi IV, rubricata Libertà dal dominio, è essenzialmente orientata a suggerire un ripensamento delle forme di controllo dei poteri datoriali nell’impresa, specialmente alla luce dei limiti alla libertà d’iniziativa economica (art. 41, co. 2), tanto da sollecitare alcune correzioni di rotta sia nel campo del diritto positivo – ad es. con riguardo al potere di controllo (70) e allo ius variandi (75) – sia nel campo del diritto vivente, con particolare riferimento al licenziamento per ragioni oggettive, ove si presenta legittimo valutare la consistenza e serietà della ragione economica e organizzativa posta a fondamento del recesso (p. 73 s.). Nella tesi V, più azzardata e meno tradizionale, gli autori approfondiscono «la dimensione della libertà nel rapporto individuale» (pp. 79-89), assumendo la prospettiva della soggettivazione regolativa (p. 83) intesa come sfera complementare – e mai alternativa – alla regolamentazione eteronoma tramite norme inderogabili di legge e di contratto collettivo, utile a superare o, per lo meno, attenuare la dimensione gerarchica dell’impresa (p. 88). Nella specie, anche a partire da modalità di svolgimento della prestazione di lavoro rese possibili dall’innovazione tecnologica (come ad esempio il lavoro agile, disciplinato dalla legge n. 81/2017), i due studiosi prospettano una «subordinazione negoziata» a livello individuale tramite accordo (p. 86-87), insistendo sulla necessità di cogliere nuove e inedite possibilità di valorizzare la libertà, dignità, professionalità e sicurezza di lavoratori e lavoratrici, combinandola con una migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, «una maggiore libertà dai vincoli spazio-temporali per prestazioni non più di mezzi ma di risultato» nonché un «diritto alla formazione» interno al profilo causale del contratto di lavoro (p. 87).
Se la quarta e quinta tesi hanno il proprio baricentro nella disciplina del rapporto individuale di lavoro, le tesi VI e VII privilegiano, rispettivamente, la dimensione collettiva e la disciplina del mercato del lavoro e della sicurezza sociale, laddove è indefettibile un ruolo dell’attore pubblico.
Più in dettaglio, nella tesi VI, significativamente intitolata La dimensione collettiva e la partecipazione istituzionale dei lavoratori alla gestione dell’impresa, gli autori assumono, in premessa, che il nostro diritto sindacale necessita di «una profonda riforma all’insegna di una maggiore istituzionalizzazione delle regole di funzionamento dei sistema» (p. 92), avendo non soltanto conservato ma addirittura «accentuato» i suoi storici problemi derivanti dalla perdurante condizione d’anomia. Anche in questo caso la postura prescelta si declina in una prospettiva di attuazione costituzionale, con la differenza che, nel caso dell’art. 39, II parte, Cost., viene presentata come «ineludibile» una riforma della norma, cui far seguire «una legge sulla rappresentatività sindacale e sull’attribuzione di efficacia erga omnes al contratto collettivo sottoscritto da soggetti la cui rappresentatività è misurabile in base a criteri oggettivi» (pp. 92-93); nel caso dell’art. 46 Cost., gli Autori leggono alla norma, così come pensata dai padri costituenti, «un potente principio normativo che deve essere ripreso e finalmente tradotto in una legge sulla codeterminazione» (p. 99).
Del resto, anche la democrazia industriale costituisce, per Perulli e Speziale, un prezioso terreno di convergenza tra la dottrina del riconoscimento e la prospettiva neorepubblicana, giacché «le forme di democrazia industriale e di governance dell’impresa che prevedono la codeterminazione su materie come gli investimenti produttivi, le localizzazioni e le strategie dell’impresa» si profilano come «esito naturale della teoria della teoria della libertà come non dominio applicata alla sfera dei rapporti [in questo caso collettivi n.d.r.] di lavoro» (p. 96).
L’elemento più interessante della tesi VII (Il Mercato del lavoro. Dalla flexicurity all’occupazione stabile e di qualità, pp. 101-109) è rappresentato dalla lucida insistenza sulla complementarietà tra tutele nel rapporto e tutele nel mercato del lavoro, tanto più preziosa per il fatto di seguire ad una stagione regolativa nella quale le due tecniche di tutela sono state inopinatamente contrapposte e profilate come alternative. In questa chiave, l’esigenza di una robusta protezione della stabilità del rapporto, coerente sia con l’idea del licenziamento come extrema ratio (109) sia con lo spostamento della flessibilità all’interno dell’impresa, nell’ambito di un rapporto durevole e bisognoso di adattamenti funzionali, in stretta correlazione con il contesto tecnologico (108), si concilia con generose misure di welfare, anche nella declinazione universalistica e incondizionata del reddito di cittadinanza: tale misura – impropriamente criticata sulla scorta di numerosi «falsi moralismi» – viene giustamente presentata come leva per l’emancipazione dal ricatto del bisogno e dunque, ancora una volta, nella consueta prospettiva neorepubblicana, come viatico per «la libertà della persona come non domino: non essere dominata dalla necessità di sacrificare la propria libertà pur di lavorare».
3. Il diritto del lavoro di fronte alle grandi sfide del nostro tempo.
Le ultime tre tesi del volume si misurano, molto opportunamente con le principali questioni del nostro tempo – sviluppo sostenibile, globalizzazione, Covid-19 e tecnologie digitali – segnalando innanzitutto l’urgenza di fronteggiare, con tempestività e determinazione, i cambiamenti climatici e contrastare gli effetti che ne sono scaturiti nell’Antropocene, atteso che «se il XX secolo è stato l’epoca della “questione sociale”, il XXI secolo è l’epoca della nuova questione “geo-eco-sociale”, sulla quale, tuttavia, è stato accumulato un ritardo culturale che riguarda anche il diritto del lavoro», indubbiamente «figlio dell’industrialismo e di una logica di crescita senza fine e senza contezza delle esternalità negative che lo sviluppo capitalistico determina» (p. 146).
Sotto questo profilo, l’VIII tesi (Diritto del lavoro sostenibile o Diritto del lavoro della sostenibilità?) solleva primariamente la grande questione della solidarietà inter e intra generazionale (provvista di base costituzionale nell’art. 2 e, oggi, espressamente richiamata negli artt. 9 e 41 Cost.) e, anche per questa via, colloca il diritto del lavoro al centro del paradigma dello sviluppo sostenibile, da «incorporare nel suo statuto scientifico» (p. 116), affrontando il tema dalla tutela dell’ambiente ove le generazioni presenti e quelle future sono – e saranno – chiamate a vivere e lavorare.
L’argomento, cui la dottrina giuslavoristica sta dedicando un’attenzione crescente , benché tardiva (salvo preziose quanto rare eccezioni) , viene affrontato mettendo in guardia il lettore dalla molte mistificazioni che lo circondano: la drammatica situazione in cui versa il pianeta, all’esito di uno sviluppo privo di ogni limite e irrispettoso dei pilastri sociale e ambientale su cui molto insistono le più recenti fonti di regolazione sovranazionali e nazionali, impone di «smascherare la falsa ideologia della sostenibilità» (p. 115) e obbliga, per contro, a imprimere svolte radicali nelle politiche industriali tanto in prospettiva macro, a livello di orientamento e regolamentazione degli attori pubblici, quanto in prospettiva micro, sul terreno della condotta dei singoli attori economici, reclamando una «impresa sostenibile» (p. 114). L’avvento di un Antropocene segnato dall’impatto devastante dell’attività produttiva sull’ecosistema, apre, insomma, una questione di «straordinaria rilevanza per il diritto del lavoro e riguarda la sua capacità istituzionale di riprogettare le proprie azioni normative sotto molteplici profili, tutti convergenti con l’obiettivo di rendere il lavoro umano davvero compatibile con le istanze sovrane della Terra» (p. 147).
Per vero, tutte le questioni epocali messe a fuoco nell’ultima tesi del libro, ivi comprese le molte contraddizioni aperte dal fenomeno migratorio, trovano radice – come gli stessi Autori giustamente osservano anche a proposito della pandemia da Covid-19 – nel processo di globalizzazione dell’economia, «questione chiave» cui la dottrina giuslavoristica ha dedicato studi approfonditi sia in tempi recenti sia in epoca più risalente . A partire da questi studi, nella tesi IX gli Autori prospettano una sorta di diritto globale del lavoro come unica strada effettivamente capace di arginare i fenomeni più morbosi del processo di globalizzazione, a partire dalla spirale di labilità innescata in tutti gli ordinamenti giuridici nazionali dal c.d. shopping normativo, rintracciandone i germi in quelle «forme di inter-normatività (clausole sociali, capitoli dei trattati commerciali dedicati a lavoro e sostenibilità, codici di condotta espressione di contrattazione collettiva trasnazionale ecc.) che possono rappresentare la base per sviluppare ulteriormente una governance globale dei mercati pienamente rispettosa dei diritti sociali fondamentali». Se questa lettura può suonare eccessivamente ottimistica, è senz’altro da segnalare la meritoria insistenza posta dagli Autori sul tema della «condizionalità sociale positiva», ossia sulla tecnica di regolazione promozionale tramite la quale grandi istituzioni sovranazionali quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e le Banche regionali di sviluppo avrebbero la possibilità di orientare le condotte dei beneficiari delle misure di sostegno, vincolandole ad assicurare il rispetto di determinati standard sociali.
4. In conclusione…
Nel complesso, il volume di Perulli e Speziale centra un obiettivo a un tempo umile e ambizioso: aprire un dibattito sul futuro del diritto del lavoro, e indirizzare quel dibattito.
Ragionando di tecnologie e remotizzazione del lavoro, di crisi della subordinazione e processi partecipativi, di rapporto e mercato del lavoro, di territorio e globalizzazione, la cifra del volume risiede nella scelta di constatare l’oggettiva ambivalenza di molti dei processi in corso, denunciarne la problematicità ma anche segnalare le opportunità che potrebbero schiudersi dinanzi a noi se il diritto, in particolare quello del lavoro, dismettesse l’atteggiamento rinunciatario cui è stato, troppo a lungo, condannato.
Il limite principale del volume risiede nella contraddizione, forse cercata ma a tratti stridente, tra la diagnosi particolarmente severa sui modelli di comportamento assunti dall’impresa nel capitalismo contemporaneo e la particolare fiducia che le si accorda, profilando la sua disponibilità a farsi responsabile sul piano sociale e ambientale, democratica, orizzontale, partecipativa. Ma è pur vero che gli Autori del libro sono abbastanza scaltri da non attendersi nulla senza leve normative idonee a suggerire, e talvolta obbligare, una strada segnata dalla cornice costituzionale nel cui alveo è ancora da iscrivere il diritto del lavoro presente e futuro.
Perulli e Speziale, insomma, vogliono davvero spingere il diritto del lavoro oltre il Novecento. Ma sono ben attenti a precisare, ogni volta che vi sia il rischio di un fraintendimento, che oltre non vuol dire altro.