Testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa
In un momento di grande difficoltà economica in cui versano tutti i professionisti, una delle categorie più duramente colpite dalla crisi pandemica, riacquista certamente dignità e attualità il tema dell’equo compenso, anche al fine di verificare lo stato dell’arte, e cioè se sia stata data concretezza ad un principio già sancito dall'articolo 2233 del codice civile, secondo il quale «la misura del compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione».
L’art. 2233 c.c. pone una garanzia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso, attribuendo rilevanza in primo luogo alla convenzione che sia intervenuta fra le parti e poi, solo in mancanza di quest'ultima, e in ordine successivo, alle tariffe e agli usi e, infine, alla determinazione del giudice, mentre non operano i criteri di cui all'art. 36 Cost., comma 1, applicabili solo ai rapporti di lavoro subordinato . La violazione dei precetti normativi che impongono l'inderogabilità dei minimi tariffari non importa, secondo l’orientamento finora formatosi, la nullità, ex art. 1418 c.c., comma 1, del patto in deroga, in quanto trattasi di precetti non riferibili ad un interesse generale, cioè dell'intera collettività, ma solo ad un interesse della categoria professionale , pertanto il professionista di fatto è impotente nel far valere l'inadeguatezza del compenso in presenza di un accordo che lo determini in misura irrisoria, neanche sotto il profilo dell'articolo 36 Cost.
Può ritenersi dato acquisito che in numerose convenzioni i committenti, godendo di una posizione «forte» dal punto di vista contrattuale, impongono compensi irrisori e del tutto sproporzionati rispetto all'opera prestata o al servizio reso, unitamente ad altre clausole più che vessatorie in cui si impongono al professionista lavoratore autonomo immotivate rinunce o inammissibili sacrifici.
La legge professionale forense è intervenuta per prima per arginare un siffatto “fenomeno”, introducendo l’istituto dell’equo compenso, intendendosi con tale (ampia) accezione la corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, nonché conforme ai compensi previsti per i liberi professionisti e, in particolare per gli avvocati, dal decreto del Ministro della giustizia emanato ai sensi dell’art. 13, comma 6, L. n. 247/2012 .
Il merito della norma sull’equo compenso è certamente quello di sollecitare l’attenzione su due temi fondamentali, quali la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, sia esso autonomo, dipendente o professionale, garantita dall’art. 35 Cost. nonché il diritto anche per il lavoratore autonomo ad un compenso garantito e dignitoso, il più possibile proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato.
2. Il quadro normativo di riferimento.
L'art. 13 della l. 31 dicembre 2012, n. 247, <<Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense>>, al co. 3, enuncia la regola generale che la pattuizione del compenso spettante al professionista è libera e, al comma 6, l'eccezione per cui al contratto tra cliente e professionista si applicano i parametri indicati nel d.m. n. 55/2014, modificato dal d.m. n. 37/18, su proposta del CNF, ove il compenso non sia stato determinato in forma scritta o in maniera consensuale. Tuttavia, assai frequenti sono quelle situazioni in cui il legale si trova in una posizione di debolezza contrattuale rispetto al cliente in posizione dominante. Proprio al fine di tutelare la debolezza contrattuale del professionista, è stata introdotta la disciplina sull’equo compenso.
L'articolo 19-quaterdecies, co. 1, del d.l. 16 ottobre 2017, n. 148, conv. in l. 4 dicembre 2017, n. 172, ha infatti aggiunto nella legge 31 dicembre 2012, n. 247, l'articolo 13-bis, rubricato <<Equo compenso e clausole vessatorie>>, modificato dall'articolo 1, comma 487, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205.
Nella prima parte (commi 1, 2 e 3) la norma prevede che ove i rapporti professionali di assistenza, rappresentanza e difesa in giudizio siano regolati da convenzioni unilateralmente predisposte, da presumersi tali fino a prova contraria, da parte di imprese bancarie e assicurative o da imprese di grandi dimensioni, non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, come definite nella raccomandazione 2003/361 CE della Commissione Europea , il compenso degli avvocati iscritti all'albo professionale deve essere equo, ovvero <<proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell'articolo 13, comma 6>>.
Nella seconda parte (commi da 4 a 10), la disposizione statuisce che è vessatoria la clausola convenzionale che contiene la pattuizione di un compenso non equo, ovvero di un compenso che comporta << un significativo squilibrio contrattuale a carico dell'avvocato>>; che il professionista può agire in giudizio per la declaratoria della nullità di tale clausola vessatoria; che il giudice, coerentemente a quanto previsto dall'articolo 13, comma 6, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi, <<determina il compenso dell'avvocato tenendo conto dei parametri>> ministeriali.
L’articolo 19-quaterdecies cit., inoltre, ha espressamente esteso la disciplina dell’equo compenso, con il limite della compatibilità, ai professionisti di cui all’art. 1 della l. 22 maggio 2017, n. 81, anche iscritti ad Ordini e Collegi (comma 2) e, al co. 3, dispone che <<La pubblica amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell'equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto>>, quindi a partire dal 7 dicembre 2017, con espresso divieto che, dall’attuazione delle disposizioni di cui si è detto, derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (co. 4).
Così sintetizzato il dato normativo, ci si è chiesti anche in esito al dibattito giurisprudenziale che ne è scaturito quali debbano essere considerati i requisiti immanenti ed inderogabili di un compenso equo e quale l’intima ratio della relativa disciplina, che possa consentirne la convivenza con le regole, più liberiste, del mercato concorrenziale, imposte dalla Comunità europea, recepite in Italia con il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge 4 agosto 2006, n. 248 (cd. Decreto Bersani).
Quest’ultimo, infatti, aveva abolito le tariffe minime dei compensi professionali, e privilegiato l’“accordo tra le parti”, al fine di soddisfare l’esigenza di liberalizzare il mercato, anche con riguardo alle professioni del sistema ordinistico, e di assicurare che negli ordinamenti degli Stati UE, non sopravvivessero misure recanti restrizioni e distorsioni della concorrenza nel mercato interno, espressamente vietate dall’articolo 101 del TFUE , con grande soddisfazione dei cd. <<contraenti forti>> (banche, assicurazioni, imprese di grandi dimensioni).
La legislazione successiva aveva istituzionalizzato la pattuizione per iscritto del mandato professionale e confermato l’abrogazione di tutte le tariffe previste per le professioni regolamentate (D.L. 24.01.2012, n. 1, c.d. Decreto Monti conv. in Legge n. 27/12), fino ad arrivare all’introduzione dell’obbligo del preventivo indipendentemente dalla richiesta del cliente (Legge 4.08.2017 n. 124).
Nel tentativo di superare l’incertezza venutasi a creare nella determinazione degli onorari professionali , è stato introdotto il menzionato art. 13-bis con la disciplina sull’equo compenso per le prestazioni degli avvocati, poi esteso (con la legge n. 172/2017, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge n. 148/2017) a tutti i professionisti, lavoratori autonomi e a quelli iscritti ad ordini e collegi.
E’ stato acutamente ricordato , che l’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, nell’adunanza del 22 novembre 2017, in una puntuale segnalazione rivolta ai presidenti di Camera, Senato e del Consiglio dei Ministri aveva espresso parere contrario al varo di tale norma perché mascherava la reintroduzione di fatto dei minimi tariffari ed impediva ai professionisti “di utilizzare il più importante strumento concorrenziale, ossia il prezzo della prestazione”.
Replica indiretta è provenuta dalla Suprema Corte che con la sentenza 17.4.2020, n. 7904, ha precisato che l’ambito di applicazione dell’articolo 13-bis è senz’altro “ristretto”. La Corte, sul punto, evidenzia che non possa essere sanzionata con la nullità una convenzione che veda il professionista accettare un compenso pure inferiore ai valori minimi dei parametri di cui al d.m. n. 55/2014 e ss.m., salvo che esso, unitamente alla convenzione, sia stato unilateralmente imposto dal cliente cosiddetto “forte”.
3. Equo compenso e P.A. – i limiti alla sua applicazione
Ancora più ristretto è l’ambito di applicazione dell’equo compenso alle Pubbliche Amministrazioni, cui è stato esteso quale corollario dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia dell'azione amministrativa, ma rimanendo pur sempre eccezione al principio pro-concorrenziale della libera pattuizione del compenso spettante al professionista .
Si è ritenuto che, nel contemperamento tra principi di ragionevolezza e proporzionalità ed esigenze di riequilibrio finanziario, la determinazione del compenso “equo” non trovi applicazione ove la clausola contrattuale relativa al compenso per la prestazione professionale sia oggetto di trattativa tra le parti o, nelle fattispecie di formazione della volontà dell'amministrazione secondo i principi dell'evidenza pubblica, ove l'amministrazione non imponga al professionista il compenso per la prestazione dei servizi legali da affidare .
Nella fattispecie decisa dal Tar Lombardia, un Comune lombardo aveva chiesto ai professionisti concorrenti di formulare un'offerta economica per una prestazione professionale, per cui essi erano stati posti nella condizione di calcolare liberamente, secondo le dettagliate informazioni fornite dall'Amministrazione, la convenienza economica del compenso in relazione all'entità della prestazione professionale richiesta, senza subire condizionamenti, limitazioni o imposizioni da parte del cliente. Il Comune procedeva con il conferimento dell’incarico al professionista che aveva presentato il preventivo “più basso”, sicché il terzo classificato chiedeva l’annullamento della delibera della giunta con cui era stato conferito il mandato al legale vincitore e, in via subordinata, l’annullamento della procedura comparativa, avendo i primi due classificati presentato un’offerta di onorario addirittura inferiori ai parametri minimi.
Il G.A., valutata preliminarmente la conformità alla fonte regolamentare per il parametro minimo dello scaglione delle cause di valore indeterminabile del compenso professionale proposto dall'avvocato aggiudicatario dell’incarico, rigettava il ricorso ritenendo, innanzitutto, che il pregnante dovere di diligenza richiesto dall'articolo 1176, comma 2, c.c. nell'espletamento dell'incarico professionale, che grava sull'avvocato munito di mandato difensivo a prescindere dall'entità del compenso e persino in caso di incarico gratuito, elimina in radice i dubbi che la qualità della prestazione professionale possa essere condizionata dall'entità del compenso offerto, a differenza che per l'affidamento dei servizi legali continuativi e complessi, nei quali è richiesta una specifica organizzazione e l'assunzione del rischio economico dell'esecuzione da parte del professionista.
In secondo luogo, nel solco della giurisprudenza che ha addirittura affermato la compatibilità con la disciplina dell'equo compenso persino delle procedure di affidamento di incarichi professionali gratuiti , ricordava il principio di matrice sovranazionale , secondo cui imporre alle pubbliche amministrazioni l'applicazione di parametri minimi rigidi e inderogabili, anche in assenza della predisposizione unilaterale dei compensi e di un significativo squilibrio contrattuale a carico del professionista, comporterebbe un'irragionevole compressione della discrezionalità delle stesse nell'affidamento dei servizi legali, in assenza delle condizioni di non discriminazione, di necessità e di proporzionalità che giustificano l'introduzione di requisiti restrittivi della libera concorrenza.
Il G.A. ha quindi precisato che la violazione del principio dell'equo compenso da parte delle pubbliche amministrazioni opera nelle fattispecie in cui le stesse abbiano fissato nella lex specialis un compenso in misura fissa per la prestazione di servizi legali, quali, ad esempio, un compenso pari a zero per le cause di valore inferiore ad una determinata soglia o un compenso forfettario annuo non proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro prestato , ma non trova un’estensione indiscriminata, in quanto la disciplina dell'equo compenso è rivolta a tutelare la posizione del professionista debole e non l'indipendenza, la dignità e il decoro della categoria professionale, la quale si realizza attraverso il rispetto dei precetti contenuti nel codice deontologico, che impongono al professionista di non offrire la propria prestazione in cambio di compensi lesivi della dignità e del decoro professionale, nel rispetto dei principi della corretta e leale concorrenza (art. 9, comma 1, del Codice deontologico forense) e dei doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi e le Istituzioni forensi (art. 19 del codice deontologico forense).
Tanto a maggior ragione se nel caso di specie era stato già il singolo professionista ad individuare un compenso soglia, che quindi dal suo punto di vista non potesse considerarsi antieconomico e comunque lesivo del decoro della professione.
Il potere dispositivo del professionista che impone una interpretazione restrittiva della disciplina dell’equo compenso applicato agli incarichi conferiti dalla P.A., viene valorizzato altresì da una pronuncia del Tar Lazio (n. 11411/2019), parzialmente confermata dal Supremo Collegio amministrativo con la recentissima sentenza n. 7442/202, pubblicata il 9 novembre 2021, ove si è sostanzialmente affermato che se è stato stabilito un compenso in denaro, esso non può che essere equo, ma se non è stato previsto alcun compenso non si applica la norma che ne garantisce l’equità.
Con tale pronuncia il G.A., sia di primo sia di secondo grado, ha pertanto dichiarato legittimo l'avviso pubblico del MEF nel quale si chiedeva la manifestazione di interesse per incarichi professionali di consulenza a titolo gratuito .
Nello specifico, il Consiglio di Stato pur partendo dal presupposto condivisibile secondo cui il compenso deve essere equo e l’interesse privato non può essere sacrificato rispetto a quello pubblico e generale fino al punto di travalicare – nel bilanciamento dei contrapposti interessi - l’equità della remunerazione, precisa tuttavia che la disposizione in commento non esclude il (e nemmeno implica la rinuncia al) potere di disposizione dell’interessato, che resta libero di rinunciare al compenso – qualunque esso sia, anche indipendentemente dalla equità dello stesso – allo scopo di perseguire od ottenere vantaggi indiretti o addirittura senza vantaggio alcuno, nemmeno indiretto, come tipicamente accade nelle prestazioni liberali, non potendosi applicare tout court l’art. 36 Cost. Secondo il Collegio, la modifica da ultimo inserita nella legge professionale forense è sorretta da una ratio legis autonoma ed ha voluto rappresentare un equo, ragionevole e ‘giusto’ punto di equilibrio a tutela dei liberi professionisti, ed in particolare dei giovani che si affacciano nel mondo del lavoro, a seguito della abrogazione dei minimi tariffari e dell’apertura al libero mercato, anche nel quadro euro-unionale. In quest’ottica il sopra riportato comma 3 esprime l’attenzione del legislatore ordinario per le libere professioni quando l’attività è esercitata al di fuori dei rapporti di lavoro dipendente, che di per sé ricadono sotto la copertura costituzionale dell’art. 36 Cost., in relazione alla necessità della congruità del compenso, ma ciò sull’evidente presupposto che un compenso vi sia. Quindi la disciplina sull’equo compenso ha ridotto quello scarto negativo tra il settore delle libere professioni ed il rapporto di lavoro dipendente, ma questo non significa che si debba recepire pedissequamente la formula dell’art. 36 Cost., forgiata sul rapporto di lavoro subordinato.
L’unico limite, questo sì inderogabile secondo il Supremo Collegio Amministrativo, è il rispetto dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della funzione amministrativa.
Si è infatti ivi affermato che se è vero che nel quadro costituzionale ed eurounitario la prestazione lavorativa a titolo gratuito è lecita e possibile, in quanto il vantaggio per chi la presta non è necessariamente e direttamente di natura economica, ma può tradursi anche in un vantaggio indiretto (arricchimento curriculare, fama, prestigio, pubblicità), nella predisposizione del bando la P.A. non può non incentrare la sua concreta azione sui cardini della prevedibilità, certezza, adeguatezza, conoscibilità, oggettività ed imparzialità dei criteri di formazione dell’elenco al quale attingere e di affidamento degli incarichi.
In definitiva, secondo il Supremo Consesso amministrativo, poco importa se il professionista non beneficerà di alcun compenso per l’opera prestata, essendo consapevole, già al momento della presentazione della propria candidatura, che l’eventuale aggiudicazione dell’incarico gli comporterà solo un po' di fama; l’importante è che l’Amministrazione abbia chiaramente predeterminato e specificato i criteri per il conferimento dell’incarico e quindi previamente indicato il numero di incarichi da conferire, puntualmente definito l’oggetto della consulenza o dell’affare; previsto una procedura selettiva per il conferimento dell’incarico anche con formazione di una graduatoria.
Una posizione difficile da condividere per un professionista che ha diritto di essere ricompensato in denaro per l’impegno profuso con particolare diligenza e professionalità (valori che non sempre la P.A. potrebbe vedersi garantiti in caso di incarichi gratuiti), ma che almeno rappresenta una soluzione di continuità con l’orientamento giurisprudenziale che finora si è barcamenato tra incertezze applicative e petizioni di principio, arrivando ad affermare che la determinazione del compenso dei professionisti non vada fatta né seguendo i precetti dell’art. 36 Cost. né in base ai “parametri”, ma seguendo canoni di maggiore flessibilità, che tengano conto tanto di esigenze di contenimento della spesa pubblica, quanto della natura e delle attività richieste, in concreto, al professionista, secondo quindi una valutazione da effettuarsi caso per caso.
Ma cosa si intende per canoni di flessibilità?
Un tentativo di risposta giunge da una pronuncia del Tar Lazio, sede di Roma, resa in una fattispecie avente ad oggetto l’impugnativa di un avviso pubblico bandito dall’INPS per l'acquisizione della disponibilità di 77 avvocati per svolgere incarichi di domiciliazione o sostituzione in udienza presso gli uffici giudiziari del circondario del Tribunale di Roma, in cui erano indicati i compensi previsti (250 euro per le domiciliazioni, 80 euro per le sostituzioni), nonché i requisiti per superare la selezione (voto di laurea, voti conseguiti in particolari materie e anzianità di iscrizione all’ordine sino a un massimo di cinque anni). Secondo i ricorrenti (Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma e AIGA) i compensi, indicati nell’avviso, contrastavano con la disciplina dell’equo compenso, essendo disallineati rispetto ai parametri assicurati dal d.m. 55/2014 e pertanto andava applicata la disciplina dell’equo compenso nei confronti dei c.d. clienti forti.
Il Giudice amministrativo ha escluso una siffatta estensione, facendo una serie di considerazioni preliminari: in primis in tema di compensi in favore degli avvocati, la regola è data dalla libera pattuizione mentre l'eccezione (in caso di mancato accordo tra le parti) dal rispetto dei minimi tariffari di cui all'apposito decreto ministeriale con la precisazione che la "libera pattuizione" viene sufficientemente garantita, nel caso di specie, dalla libera volontà dei professionisti di stipulare o meno, all’esito della selezione, le singole convenzioni, con la stessa amministrazione, sulla base degli importi già individuati nell'avviso.
In secondo luogo, all’esclusione della disciplina dell’equo compenso prevista nei confronti dei c.d. clienti forti , milita un’interpretazione letterale dell’art. 13- bis, comma 2, secondo cui il riferimento alle tariffe di cui al d.m. 55 del 2014 trova unicamente applicazione unicamente a taluni soggetti imprenditoriali (es. imprese assicurative e bancarie) che notoriamente godono di una certa forza contrattuale, non anche alle pubbliche amministrazioni che non vengono espressamente menzionate dalla norma.
Da tanto consegue, secondo il Tar Lazio, che per la pubblica amministrazione trova sì applicazione il concetto di "equo compenso", ma non entro i rigidi e ristretti parametri di cui al d.m. 55 del 2014. Il concetto di "equo compenso", per quanto riguarda la PA, deve dunque ancorarsi a parametri di maggiore flessibilità legati da un lato, ad esigenze di contenimento della spesa pubblica; dall'altro lato, alla natura ed alla complessità delle attività defensionali da svolgere in concreto.
Quanto al primo aspetto il riferimento è alla consueta clausola di invarianza finanziaria di cui al comma 4 dell'art. 19-quaterdecies cit., secondo cui l’equo compenso può applicarsi alle PP.AA. purchè dall’attuazione delle disposizioni non derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Non va infatti trascurato che l’azione amministrativa debba sempre conformarsi ad altri principi di rilievo costituzionale, ovverosia a quelli di buon andamento ed imparzialità (art. 97 della Costituzione) della pubblica amministrazione, di cui costituiscono corollario i principi di economicità, efficacia ed efficienza (art. 1, l. n. 241/1990). Del resto il comma 3 richiama il principio dell'equo compenso e non (come per i rapporti interprivati) le disposizioni sull'equo compenso di cui all'art. 13 bis L. n. 247/2012.
Tale impostazione (e dunque il ricorso al principio dell’equo compenso e non alle disposizioni sull’equo compenso) risponde meglio alle primarie esigenze (anzi principi) della pubblica amministrazione che, proprio in quanto strumentali alla soddisfazione di un interesse pubblico, spesso si contrappongono a quelle imprenditoriali.
Quanto al secondo profilo, ovverosia la valutazione della congruità ed equità del compenso in relazione alla tipologia di attività prestata, il Collegio ha evidenziato che le attività che debbono svolgere i singoli avvocati sono di mera domiciliazione o di sostituzione del dominus che resta pur sempre l'Avvocatura INPS e sono caratterizzate da ampia ripetitività e costante serialità, per cui il compenso previsto si dimostra sufficientemente coerente anche con i principi di cui all'art. 36 Cost., ove ritenuto applicabile.
Dunque i parametri di cui al DM n. 55/2014 (ma anche quelli contenuti nei dd.mm. che disciplinano i compensi delle professioni diverse da quella forense) non trovano pedissequa applicazione per i compensi dovuti dalle pubbliche amministrazioni.
4. Prospettive di riforma
Gli approdi giurisprudenziali innanzi riportati, in alcuni casi per niente condivisibili (si pensi a quelli che considerano legittimi i bandi della p.a. che prevedono incarichi gratuiti o quelli che prevedono un compenso inferiore ai parametri o alle tariffe di riferimento) hanno evidenziato sinora un’applicazione abbastanza flessibile dell’equo compenso da parte della P.A. che tuttavia è chiamata a fare i conti con le recenti iniziative di riforma della disciplina.
Proprio sulla scia dei recenti casi dei bandi MEF e INPS e delle pronunce del G.A., l’intento della iniziativa di Riforma (al momento in cui si scrive approvata solo alla Camera) è quello di realizzare il necessario riequilibrio nei rapporti tra operatori economici, impedendo situazioni che in certi casi si possono definire, senza mezzi termini, di prevaricazione e di abuso della posizione dominante da parte del committente o cliente verso il professionista, ma , più di tutto, rendere operativo anche per i professionisti il principio costituzionale ex art. 36 Cost. secondo cui senza un'equa e giusta retribuzione non c'è dignità per chi lavora.
In estrema sintesi nell’economia della presente riflessione, la proposta di legge AC. 3179, attualmente in esame al Senato (DDL 2419), intervenendo sull’equo compenso delle prestazioni professionali:
-definisce come equo il compenso che rispetta specifici parametri ministeriali e interviene sull'ambito applicativo della disciplina vigente, ampliandolo sia per quanto riguarda i professionisti interessati, tra i quali sono inclusi gli esercenti professioni non ordinistiche, sia per quanto riguarda la committenza, che viene estesa anche a tutte le imprese che impiegano più di 50 dipendenti o fatturano più di 10 milioni di euro (artt. 1 e 2) ed alle pubbliche amministrazioni nonché società a partecipazione pubblica;
-disciplina la nullità delle clausole che prevedono un compenso per il professionista inferiore ai parametri, in quanto presuntivamente non proporzionate all’opera prestata, nonché di ulteriori specifiche clausole indicative di uno squilibrio nei rapporti tra professionista e impresa , rimettendo al giudice il compito di rideterminare il compenso iniquo (art. 3) ed eventualmente di condannare l'impresa al pagamento di un indennizzo in favore del professionista (art. 4).
-prevede che gli ordini e i collegi professionali debbano adottare disposizioni deontologiche volte a sanzionare il professionista che violi le disposizioni sull'equo compenso (art. 5);
-istituisce, presso il Ministero della giustizia, l'Osservatorio nazionale sull'equo compenso (art. 10).
Un fitto articolato di norme (specie se si considera la rarefatta disciplina introdotta dall’19-quaterdecies) che, tuttavia, non può ignorare il monito eurocomunitario del test di proporzionalità sulla concorrenza e tutela del mercato che hanno portato all’abolizione delle tariffe professionali non conformi a detti principi.
E’ pertanto evidente che l’annunciata legge recante le nuove disposizioni in materia di equo compenso delle prestazioni professionali, tesa da un lato a valorizzare la libertà e l’indipendenza del professionista, dall’altro ad evitare il proliferare di situazioni di abuso di diritto, dovrà necessariamente confrontarsi con questi principi di matrice comunitaria, al fine di evitare di far rientrare nel nostro ordinamento, proprio attraverso il principio dell’equo compenso, un rigido sistema tariffario già aspramente criticato ed anzi inibito dalla CE, ma al tempo dovrà affrontare la difficile sfida di un’equilibrata relazione economica e normativa fra professionista e cliente forte o P.A.
Quindi, quest’ultima, sarà chiamata non più ad applicare il mero principio dell’equo compenso, ma a dare forma e contenuto alle disposizioni che (e se) la Riforma adotterà per garantire concretamente al professionista un corrispettivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato.

 

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