Testo integrale con note e bibliografia

1. Perimetrare le categorie: un’esigenza di diritto positivo.
La spontanea autorganizzazione degli ambiti oggettivi di negoziazione è apparsa sufficiente, per un lungo periodo, a garantire uno svolgimento ordinato delle relazioni industriali, in presenza di un ordinamento intersindacale effettivo, governato da centrali sindacali in grado di coordinare l’attività delle associazioni federate e basato sul mutuo riconoscimento esclusivo di sindacati “paritari”, che cioè prescindano dalla verifica del rispettivo peso rappresentativo .
Nel perdurare di tali condizioni, gli eventuali conflitti “giurisdizionali” tra organizzazioni di un medesimo ordine possono appianarsi con strumenti endoassociativi; e l’eventuale collisione di contratti, dovuta in primis all’emersione di specifiche figure professionali sindacalmente autonome, potrebbe trovare soluzioni operanti ex post, con criteri eteronomi risolutivi di antinomie tra ambiti oggettivi, senza la necessaria articolazione preventiva delle categorie: è il caso degli ordinamenti tedesco e spagnolo . In essi, peraltro, la previsione di rigorosi filtri di accesso alla negoziazione collettiva, sulla base di indici quantitativi o qualitativi, riduce il novero dei sindacati trattanti e attenua così il rischio di una pluralizzazione incontrollata dei filoni di contrattazione.
L’unità o l’unitarietà sindacale, che ha caratterizzato un importante periodo storico delle relazioni industriali italiane, spiega dunque perché, dopo l’esperienza corporativa e la successiva costituzionalizzazione del possibile pluralismo sindacale e contrattuale, non si sia avvertita l’urgenza di affrontare il problema della categoria. Dà ragione, altresì, del perché nemmeno il dibattito costituente vi faccia praticamente cenno e il punto non sia discusso nei primi progetti di legge attuativi dell’art. 39, seconda parte, Cost.
La remota prospettiva di un’aporia tra categorie contrattuali ha così permesso che il legislatore del 1959 disponesse la recezione in decreto dei contratti senza dedicare una norma in proposito. Ma la questione non tardò a giungere all’esame della Corte costituzionale. Questa, se contingentemente si sbarazzò del problema rilevando un eccesso di delega negli atti di recepimento di contratti a settori sovrapposti, colse l’occasione per sancire come l’autonoma determinazione della categoria contrattuale ad opera dei soggetti collettivi stipulanti costituisca un corollario prossimo della libera organizzazione sindacale ex art. 39, c. 1, Cost.
L’unitarietà sindacale spiega pure perché sia stato possibile, dopo la caduta del regime corporativo, continuare ad applicare l’art. 2070 c.c. : lo sfondo è quello, oltre che di una contrattazione per prevalente ramo d’industria come già nel periodo corporativo, di un’articolazione di categorie contrattuali autonome e però anche ordinate. Non a caso, la crisi applicativa dell’art. 2070 c.c., a un certo punto, è la conseguenza della frantumazione di un ordinamento intersindacale che diviene policentrico e perciò, secondo alcuni, estinto od ormai ineffettivo .
Il pluralismo sindacale muta di qualità, dando luogo, non solo alla moltiplicazione dei contratti collettivi nazionali, ma anche a nuovi ordini di negoziazione tra loro in competizione . Il che, oltre a provocare pericoli di dumping sociale, pregiudica il sistema dei rinvii legali alla contrattazione collettiva. Il precetto eteronomo, infatti, rischia di non poter più essere integrato, se per il settore merceologico considerato concorrano più accordi collettivi.
Il problema è avvertito soprattutto quando si tratti di istituti di peculiare rilievo pubblicistico, o che involgano l’effettività di diritti fondamentali, per i quali il contratto di riferimento non può essere lasciato alla scelta discrezionale del privato. Occorre piuttosto un criterio selettivo oggettivo, idoneo a soddisfare un interesse generale, e come noto individuato dal legislatore, a partire dal 1995, nella maggiore rappresentatività comparativa delle coalizioni sindacali stipulanti contratti insistenti su di un medesimo settore. Così, ad es., per il trattamento economico del socio lavoratore di cooperativa, per la retribuzione imponibile ai fini previdenziali, per la stipulazione di contratti di appalto pubblici, per la fiscalizzazione degli oneri sociali, per la costituzione di fondi bilaterali di solidarietà, e altro ancora.
Ma la verifica del criterio, in assenza di indici precettivi di misurazione e, appunto, della perimetrazione dell’ambito in cui effettuare la comparazione, costringe pubbliche amministrazioni e giudici a fragili decisioni fondate vuoi, talora, sul fatto notorio , vuoi sui tradizionali criteri della maggiore rappresentatività tout court , vuoi su dati numerici non certificati .
Si rende così evidente come il problema dell’ambito oggettivo di applicazione, sicuramente ineludibile nella prospettiva di una legge sindacale, sia già de iure condito. E ci si può dunque interrogare su quali tecniche siano costituzionalmente compatibili e socialmente opportune.

2. Gli strumenti attualmente disponibili e la loro insufficienza.
Il recente contenzioso sulla disciplina collettiva applicabile ai rider è emblematico – ma non è il solo – dei problemi applicativi derivanti dalla coesistenza di contratti stipulati da sindacati in concorrenza e ad ambiti oggettivi non coincidenti .
La dottrina che si è interrogata, più in generale, sui criteri risolutivi delle aporie ha formulato diverse opzioni. Un orientamento storico ha sostenuto, de iure condendo, l’opportunità di risolvere i casi di antinomia conferendo prevalenza al contratto collettivo ad ambito oggettivo più ampio, almeno con riguardo alla parte normativa dei contratti .
Si tratta di una prospettiva di recente ripresa dalla prassi amministrativa, proprio con riguardo al contratto collettivo applicabile ai rider . Simile soluzione fa leva, in definitiva, sull’opportunità di aggregazione degli interessi collettivi, dato che l’opposto criterio finirebbe per favorire un’ulteriore frammentazione dell’attuale panorama negoziale, come noto pletorico. E’ un’ipotesi anche suggestiva, non priva di riferimenti nella giurisprudenza costituzionale ex artt. 19 e 28 st. lav., e non implausibile nonostante la parziale abrogazione referendaria del primo, con conseguente depotenziamento (ma ai soli fini della rappresentanza in azienda) del livello confederale.
Un altro orientamento ritiene invece che la comparazione possa avvenire solo per ambiti coincidenti, sicché la creazione di una categoria contrattuale ad hoc da parte di nuovi soggetti sindacali – in particolare, di una categoria dai contorni più ristretti – implicherebbe, per ciò solo, l’esistenza del contratto leader (sebbene ciò, evidentemente, produca la vanificazione del criterio selettivo legale), con sostanziale applicazione di un criterio di specialità .
Un’ulteriore tesi suggerisce che i contratti collettivi ad ambiti sovrapposti vadano comparati – pur con tutte le successive difficoltà di misurazione – nell’area di intersezione tra gli stessi .
La difficoltà empirica di comparare dati da ritagliare sugli specifici perimetri induce, poi, una parte della dottrina a sostenere l’opportunità che venga vagliata, più in generale, la rappresentatività di tutte le organizzazioni, o coalizioni sindacali, stipulanti i contratti collettivi richiamabili in forza della coerenza dell’ambito oggettivo con l’attività d’impresa. Così, ad es., per individuare il contratto leader di livello nazionale si dovrebbero considerare i dati sindacali rilevanti (numero di iscritti, voti ricevuti, ecc.) con riferimento all’intero territorio, anche prescindendo dalla rappresentatività nel singolo settore merceologico .
Seppure la soluzione non sia concettualmente soddisfacente, perché conferisce una patente di maggiore rappresentatività comparativa alle organizzazioni sindacali in quanto tali, anche qualora stipulino contratti per categorie in cui siano minoritarie, essa è probabilmente la sola praticabile a diritto vigente.
Sennonché, da un lato, resta il problema di misurare la rappresentatività in carenza di dati certificati, soprattutto con riguardo al numero di iscritti; dall’altro, si può dubitare se simile orientamento possa dirsi coerente con il quarto comma dell’art. 39 Cost., che correla la rappresentatività all’efficacia del contratto per la categoria cui questo si riferisce.
In mancanza di una anagrafe della rappresentatività dei sindacati, Cnel e Inps vanno alimentando e aggiornando una banca dati con l’esplicito fine di fornire a soggetti pubblici e privati elementi oggettivi, che fungano quantomeno da indici più solidi per la prassi . Tale sistema, come noto, si basa sull’attribuzione ai contratti collettivi e alle organizzazioni sindacali di codici alfanumerici, in coordinamento con quelli già adottati dall’Inps e con i codici Ateco . In particolare, i codici contrattuali sono inseriti dal datore di lavoro nella denuncia dei flussi contributivi, mediante i modelli Uniemens e per le comunicazioni obbligatorie, così consentendo la verifica almeno del dato di diffusione dei contratti collettivi, ovvero il numero di datori di lavoro che li applicano (con il correlativo numero di lavoratori interessati).
Questo congegno, che pure presenta contingentemente qualche utilità pratica, non è però adatto, al momento, a restituire il dato di rappresentatività delle associazioni sindacali, limitandosi a fotografare l’applicazione quantitativa dei contratti collettivi, al più con l’indicazione dei settori merceologici (soltanto) in astratto coperti dagli stessi. Nulla dice dell’affiliazione sindacale dei soggetti individuali, datori e lavoratori, vincolati ai singoli contratti, e dunque se questi siano realmente maggioritari quanto al consenso sindacale; né, al presente, del tasso di coerenza merceologica tra l’effettiva attività datoriale e gli stessi accordi. Difficilmente dunque esso può surrogare, in un’ottica anche solo di certezza, la perimetrazione delle categorie e la misurazione della rappresentatività. Il che implica ovviamente un intervento del legislatore.

3. Le tecniche normative possibili.
Scontato che il diritto comune dei contratti non soccorra – ché anzi è ad esso estraneo, a ben vedere, il tema dell’ambito oggettivo di applicazione, risolvendosi in quello dell’efficacia soggettiva – la prassi sindacale ha esplorato vari espedienti autonomi, come le clausole di parte obbligatoria prescrittive di divieti di esternalizzazione , o prevedenti i contratti collettivi applicabili in caso di outsourcing , nel tentativo di governare la complessificazione dei settori produttivi; l’impegno per la razionalizzazione del numero dei contratti nazionali, mediante accorpamenti per categorie affini ; la progettazione di fusioni associative o la costituzione di organismi di coordinamento tra sindacati , sia al predetto fine di ridurre le categorie contrattuali, sia per depotenziare la concorrenza di nuovi soggetti sindacali.
Da ultimo, gli accordi interconfederali in tema di rappresentanza per macro-settori, ad adesione aperta, ambiscono a misurare, per ciascuna categoria contrattuale, la rappresentatività di ogni soggetto sindacale, sia per il godimento dei diritti sindacali, sia agli effetti della contrattazione collettiva . Con il duplice obiettivo finale di gestire il dissenso (evitando nuovi accordi separati) e di fondare un più solido sistema negoziale – basato sui principi democratico, proporzionale e maggioritario, ex art. 39 Cost. – ipoteticamente autosufficiente o, se del caso, con un modello idoneo a un recepimento legislativo.
Dottrina , giurisprudenza , prassi amministrativa e sindacale hanno però messo in luce il limite essenziale di simili approcci: la natura autonoma e la mancanza di efficacia erga omnes di tale regolazione, inadatta a coinvolgere sindacati che si pongano in esplicita alternativa alle confederazioni stipulanti gli accordi.
Le discipline pattizie danno per scontata l’identità della categoria, che coincide con quella già posta dai singoli contratti collettivi prodotti dai sindacati “confederali” , quando proprio il pluralismo degli ambiti oggettivi, non sempre coincidenti e talora sovrapposti, rappresenta il nodo da sciogliere.
Sotto altro versante, il panorama comparato offre soluzioni tecniche diversificate, come quelle degli ordinamenti spagnolo e tedesco, che lasciano libero corso alla perimetrazione autonoma delle categorie, salve, come detto, la selezione soggettiva all’ingresso del sistema negoziale e la previsione di criteri risolutivi delle antinomie tra ambiti oggettivi. O come quella dell’ordinamento francese , quale soluzione eteronoma “spuria”: essa conferisce in ultima istanza al ministro del lavoro il potere di valutare se il panorama delle categorie poste in autonomia dalle parti sia, secondo predeterminati criteri legali, sufficientemente ordinato e funzionale, anche in ragione dell’interesse generale a un efficiente svolgimento delle relazioni industriali, considerati i rilevanti compiti che la legge assegna agli accordi di branche. O, al contrario, se si renda necessario, in singoli casi, una determinazione autoritativa di “ristrutturazione”.
L’esperienza normativa conosce poi tecniche di determinazione “amministrata” della categoria, con l’intervento di un terzo pubblico o indipendente: così nell’ambito dello sciopero dei servizi pubblici essenziali, con il ruolo di vigilanza e regolativo della Commissione di garanzia, al fine di identificare gli idonei perimetri delle discipline di settore ; così anche per la definizione dei comitati di dialogo settoriale, nel confronto tra Commissione e parti sociali al livello dell’Unione europea ; così, ancora, per il sistema britannico, con il ruolo esercitato dal Central Arbitration Committee in vista della enucleazione della bargaining unit .

4. Soluzioni coerenti con i principi costituzionali e la prassi sindacale.
Non tutte le soluzioni sono compatibili, però, con l’art. 39 Cost. Il primo comma garantisce sia il profilo statico dell’autonomia statutaria, dunque la libera posizione della categoria sindacale; sia quello dinamico dell’autonomia negoziale, da cui scaturisce consensualmente la categoria contrattuale. L’insegnamento della Corte costituzionale, sul punto, appare poi coerente con l’ispirazione delle norme sovranazionali sulla libertà sindacale .
Tuttavia, quest’ultima non configura un diritto assoluto, esente da possibili bilanciamenti con altri beni di pari rango giuridico. E qui i termini essenziali del bilanciamento sono già contenuti nell’art. 39 Cost., la cui seconda parte consente un intervento regolativo legale finalizzato all’estensione erga omnes dei contratti collettivi (senza perciò solo pregiudicare la possibilità di una negoziazione extra ordinem), per conseguire obiettivi, di interesse generale, di tutela dei lavoratori e per la disciplina della concorrenza tra le imprese.
Non è perciò condivisibile la lettura che contrappone il primo comma ai seguenti , come se tra essi vi fosse una frattura insanabile e la protezione del primo esigesse l’inattuazione dei cc. 2-4. Certo, la verifica della rappresentanza proporzionale dei sindacati e l’individuazione dell’ambito soggettivo di efficacia dei contratti collettivi implicano, necessariamente, la posizione di un sistema di prefigurazione dei perimetri. Ma ciò non si pone in inevitabile conflitto con la libera organizzazione sindacale.
In primo luogo, così ragionando, si finirebbe per dover concludere come simile libertà, costituzionalmente riconosciuta, sia pregiudicata negli ordinamenti che disciplinano l’ambito oggettivo di efficacia o pongono criteri eteronomi di risoluzione dei conflitti tra categorie. Ma i tribunali costituzionali, degli ordinamenti retro richiamati, hanno escluso la contraddizione, in ragione di esigenze vuoi di certezza del diritto, vuoi della promozione di relazioni industriali equilibrate, vuoi dell’efficienza della contrattazione collettiva, anche in ragione delle funzioni legali assegnatele .
In secondo luogo, la stessa esperienza comparata, come quella interna del pubblico impiego , mostra la possibilità di articolare le categorie con modalità non autoritarie, ma rimesse all’autonomia collettiva, perciò rispettose dell’art. 39, c. 1, Cost. Questa soluzione appare suggerita dalla stessa disposizione costituzionale, in cui la seconda parte, certo non in contraddizione con il primo comma, deve comunque leggersi alla luce di questo.
Si possono così condividere ipotesi regolative, come quelle proposte da una parte del mondo sindacale o della dottrina che affidano l’individuazione delle categorie al livello più generale della rappresentanza sindacale, quello confederale . Certo, la soluzione, ragionevole sulla carta, potrebbe imbattersi in difficoltà pratiche o regolative: a parte il problema di stabilire i criteri di rappresentatività delle organizzazioni datoriali , simile congegno implicherebbe un investimento di fiducia nella capacità delle associazioni di secondo livello di coordinare efficacemente l’attività negoziale di categoria e di garantire la coesione dell’insieme. Un compito tutt’altro che semplice per l’attuale frammentazione sindacale e degli interessi collettivi .
Ma all’impossibilità di un’autocomposizione dei conflitti di categorie, allo stato, non può che ovviarsi, probabilmente, con l’introduzione di una cornice legale in cui, in concorso con la disciplina negoziale, il dissenso possa essere misurato e regolato per non pregiudicare la funzionalità dell’intero sistema.

 

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