Testo integrale con note e bibliografia

1. Una chiamata alle armi per la dottrina giuslavoristica.

Il volume Dieci tesi sul diritto del lavoro di Adalberto Perulli e Valerio Speziale, Il Mulino, Bologna, 2022, suona fin dalla sua Premessa (L’evoluzione del diritto del lavoro tra razionalità economica e riconoscimento) come una chiamata alle armi, nella quale sono ben individuati il nemico – il neoliberismo, ovvero la tirannia dell’unico valore economico-capitalistico – e i terreni di battaglia in cui combattere, individuati nei dieci capitoli che seguono.
Altrettanto chiaro è il destinatario di questa chiamata: la dottrina giuslavoristica. A questa gli autori rivolgono un rimprovero severo e in parte eccessivo . Negli ultimi anni i giuristi del lavoro non avrebbero saputo «esprimere una reale capacità teorica di produrre discorsi sul diritto del lavoro e sulle prassi trasformatrici», essendosi limitati all’«interpretazione del diritto nella sua continua evoluzione» e focalizzati sulle «esigenze contingenti» (p. 7). Il libro mira a superare «questa postura riduttiva del ruolo del giuslavorista», ovvero di mero esegeta (p. 8), e a contribuire «ad un risveglio critico della razionalità sociale nel discorso giuridico» (p. 20). Poiché «una coltre di nebbia ha avvolto il pensiero critico» (p. 12), il volume intende rilanciare «l’autorità del diritto del lavoro dal punto di vista assiologico», sia nella sua dimensione sistematica e sia «quale progetto normativo rivolto all’idea di giustizia sociale» (p. 13), capace di reagire al «mutamento di paradigma guidato dalla logica del valore economico» (p. 12). I giuslavoristi sono dunque «chiamati ad uscire dalle secche di un pensiero debole che ha caratterizzato la riflessione dottrinale lungo la transizione post-fordista, per rispondere all’aspettativa ancora incompiuta della modernità: realizzare la giustizia sociale e garantire a tutti i lavoratori, siano essi subordinati o autonomi, così come a tutti coloro che il lavoro lo hanno perduto o lo stanno cercando, una nuova cittadinanza sociale» (p. 16).
Fin qui la pars destruens.
Si tratta dunque di un libro di politica del diritto, alla quale gli autori hanno cercato di fornire un fondamento teorico. In particolare, nel rileggere alcuni snodi fondamentali della materia, hanno valorizzato la teoria del riconoscimento, nell’accezione normativa neo-hegeliana di Axel Honneth. L’obiettivo è stato quello di «definire un programma teorico e pratico di possibile sviluppo della materia»; per raggiungerlo lo sforzo è stato «anche quello della ricerca di una filosofia politica, che si interroga sulle condizioni necessarie per delineare i tratti e i contenuti di un nuovo diritto del lavoro» (p. 20). Come viene più volte affermato, è «necessaria un’opera di rivisitazione, se non di vera e propria ri-costruzione neomoderna dei fondamenti metagiuridici e specificamente etico-filosofici del diritto del lavoro» (p. 50, ma già p. 37).
Nell sua pars construens il volume affronta alcune questioni fondamentali del diritto del lavoro. Esso è tanto ricco di contenuti – un concentrato di sapere filosofico, economico e sociologico, oltre che giuridico – e di proposte, quanto compatto (150 pagine con a seguire la bibliografia) e di agevole lettura.
La prima tesi (Per una nuova “giustificazione” del diritto del lavoro) racchiude il leitmotiv dell’intera opera. Per esprimere la propria razionalità regolativa, il diritto del lavoro ha bisogno anzitutto di ri-focalizzare la propria ragion d’essere, partendo dall’idea di “giustificazione”, generalmente utilizzato dalla filosofia morale e dalla sociologia (p. 21). Le “grandezze” e le relative esigenze di giustificazione sono tre: civica (il lavoro come espressione della persona umana), mercantile (il lavoro come bene che si acquista ad un determinato prezzo) e industriale (il lavoro come fattore della produzione) (p. 22). La finalità del diritto del lavoro consiste «nel rendere possibile la coesistenza tra i valori del mondo civico e le diverse funzioni di utilità del mondo mercantile e di quello industriale: in ciò esercitando una funzione essenziale di civilizzazione degli altri due mondi” (p. 25). La giustificazione del diritto del lavoro è riconducibile alla continua mediazione tra queste tre “grandezze” (p. 29).
Nell’attuale «momento storico di smarrimento ideologico, in cui la sfera regolativa è stata ridotta a mera struttura servente della razionalità strumentale e calcolante dell’Economico», il diritto del lavoro «deve riaffermare la propria dimensione valoriale come struttura assiologica oggettiva» (p. 47). E’ quanto gli autori sostengono nella seconda tesi (Diritto del lavoro e valori). A loro giudizio, «il diritto del lavoro può contrastare questo scetticismo in quanto saldamente radicato nella Costituzione» (p. 47 s.). La grande sfida filosofico-politica che il diritto del lavoro ha oggi di fronte è «promuovere e sostenere l’idea di un diritto del lavoro capace di produrre libertas e non necessitas, capacitas e non dominium, riconoscimento soggettivo e non subordinazione» (p. 49).
Il contenuto più rilevante della terza tesi (Il campo di applicazione de diritto del lavoro: tra universalismo e selettività) è l’esortazione, rivolta alla dottrina, a superare la dicotomia tra autonomia e subordinazione e a ridisegnare il perimetro applicativo del diritto del lavoro «in una logica di universalismo selettivo delle tutele» (p. 57).
Le tecniche di controllo e di limitazione dei poteri dell’imprenditore sono l’oggetto della quarta tesi (Libertà dal dominio. L’impresa e il controllo dei poteri del datore di lavoro). Per rilanciare la funzione del diritto del lavoro in questo ambito, è «necessario attribuire alla libertà e ai valori personalistici il giusto rilievo nel confronto con le prerogative dell’impresa, le quali debbono essere valutate in ragione di esigenze razionali di natura produttiva e organizzativa, e quindi attraverso un controllo di proporzionalità e di razionalità dei poteri datoriali» (p. 74).
Nella quinta tesi (La dimensione della libertà nel rapporto individuale) gli autori ritengono che la norma inderogabile «dovrebbe costruire percorsi di soggettivazione regolativa funzionali all’acquisizione di libertà sociale e di capabilities individuali della persona» (p. 82). La soggettivazione regolativa è «una tecnica giuridica che si aggiunge, senza sostituirle, alle norme inderogabili di legge e di contratto collettivo, e ai rapporti di integrazione e deroga tra loro esistenti”, garantendo una maggior autodeterminazione dei soggetti (p. 84). In questa prospettiva «la volontà del lavoratore trova possibilità di espressione all’interno di un quadro legale che orienti in senso finalistico l’autonomia privata delle parti» (p. 83).
Il diritto sindacale è il tema della sesta tesi (La dimensione collettiva e la partecipazione istituzionale dei lavoratori alla gestione dell’impresa). Esso «necessita di una profonda riforma all’insegna di una maggiore istituzionalizzazione delle regole di funzionamento del sistema di relazioni industriali» (p. 92). Per consentire al sistema una reale capacità di governo di dinamiche sempre più complesse, «è ineludibile una riforma dell’art. 39 Cost., cui far seguire una legge sulla rappresentatività sindacale e sull’attribuzione di efficacia erga omnes al contratto collettivo sottoscritto da soggetti la cui rappresentatività è misurabile in base a criteri oggettivi» (p. 92 e s.). Quanto alla partecipazione istituzionale dei lavoratori alla gestione dell’impresa, l’art. 46 Cost. «esprime un potente principio normativo, che deve essere ripreso e finalmente tradotto in una legge sulla codeterminazione» (p. 99).
Nella settima tesi (Il mercato del lavoro. Dalla flexicurity all’occupazione stabile e di qualità) gli autori sostengono che la flexicurity, come modello di riferimento per il corretto funzionamento del mercato del lavoro, dev’essere «profondamente riconsiderata in una logica di riduzione della flessibilità esterna e aumento della sicurezza/stabilità dell’occupazione». Per perseguire l’obiettivo della sicurezza e della continuità dell’impiego, è «necessario spostare l’asse direzionale della flessibilità: da esterna, verso il mercato, a interna, nell’ambito di un rapporto di lavoro che continua nel tempo grazie ad adattamenti funzionali e all’acquisizione soggettiva di nuove competenze per anticipare i bisogni del mercato del lavoro aziendale» (p. 108).
Le ultime tre tesi si occupano delle sfide più impegnative del nostro tempo. Nell’ottava (Diritto del lavoro sostenibile o diritto del lavoro della sostenibilità?) si afferma che «il diritto del lavoro partecipa naturaliter al paradigma del diritto sostenibile: è (e deve essere) un diritto “della sostenibilità” (piuttosto che un diritto “sostenibile”)» (p. 114). Nella nona (Diritto del lavoro e globalizzazione) si sostiene che «il diritto del lavoro deve necessariamente espandere la propria “grandezza”, gettando le basi per un nuovo diritto del lavoro extra-territoriale e transnazionale capace di ridurre i governance gap della globalizzazione» (p. 121). Nella decima e ultima tesi (Il diritto del lavoro di fronte alle sfide epocali: Covid-19, innovazione tecnologica, cambiamento climatico) la digitalizzazione viene considerata «un vettore di trasformazione – non necessariamente in senso negativo – del lavoro» (p. 142). Essa implica anzitutto «una profonda riconsiderazione del lavoro, della sua organizzazione, del suo senso sociale e della sua regolazione giuridica»; al riguardo la valutazione del giurista dev’essere quindi «più problematica e articolata» (p. 143). In relazione al cambiamento climatico si evoca la “capacità istituzionale” del diritto del lavoro «di riprogettare le proprie azioni normative sotto molteplici profili, tutti convergenti con l’obiettivo di rendere il lavoro umano davvero compatibile con le istanze sovrane della Terra» (p. 147).
In conclusione, la chiamata alle armi della dottrina giuslavoristica è stata effettuata. Si apre ora la fase dell’arruolamento.

 

2. Considerazioni sul lavoro autonomo.

Non è ovviamente possibile in questa sede dare ulteriormente conto della ricchezza dei rivoli in cui si articolano l’analisi, la critica e la progettazione degli autori. Ci si limiterà quindi a riprendere la riflessione da loro condotta sul lavoro indipendente, rispetto al quale risuona l’eco del saggio di Sergio Bologna Dieci tesi per la definizione di uno statuto del lavoro autonomo . Tra i meriti di questo volume vi è quello di aver posto al centro della riflessione l’orizzonte costituzionale dei valori fondamentali della persona e di essersi così inevitabilmente occupato in più occasioni anche del lavoratore indipendente.
Lo si è fatto: per rilevare, nei cambiamenti della struttura del mercato del lavoro, il progressivo sradicamento del lavoro autonomo dal proprio paradigma tradizionale, basato sul concetto di “opera”, per diventare un prodotto destinato al mercato anziché all’impiego personale del committente (pag. 11 e s.); per sottolineare l’importanza anche per i lavoratori autonomi del tema della sicurezza in «un mercato del lavoro flessibile e frammentato, che produce un’occupazione instabile e precaria» (pag. 101 e s.); per ricordare l’ingiusta penalizzazione della contrattazione collettiva dei lavoratori autonomi derivante del diritto europeo della concorrenza (p. 124), peraltro in fase di superamento (p. 65) ; per ribadire la necessità della generalizzazione degli istituti di protezione sociale, che continua a vedere l’irragionevole esclusione dalle tutele di ampie fasce del lavoro indipendente (p. 134 e s.).
Il tema del lavoro autonomo è richiamato soprattutto nella terza tesi, relativa al campo di applicazione del diritto del lavoro (tra universalismo e selettività). Ritorna anche qui la critica all’angusta prospettiva del lavoro subordinato, che ha determinato l’irrazionale esclusione dalle tutele per i lavoratori autonomi (la sineddoche giuslavoristica denunciata dal prof. Marcello Pedrazzoli : p. 56), e la necessità, superando la “grande dicotomia” tra subordinazione e autonomia, di svolgere «l’opera di ridisegno del perimetro applicativo del diritto del lavoro, in una logica di universalismo selettivo delle tutele» (p. 57).
Al riguardo gli autori affermano che «deve essere ripensata, e forse del tutto superata, anche la distinzione giuridica tra subordinazione e autonomia» (p. 58). Essi osservano che «anche i dati normativi (l’art. 2 del d. lgs. n. 81/2015, la legge n. 81/2017 sulle tutele del lavoro autonomo, la legge n. 128/2019 sulle tutele dei riders autonomi) dimostrano che ormai la “grande dicotomia” tra lavoro subordinato e lavoro autonomo sia molto più relativa rispetto alla classica narrazione del diritto del lavoro come sistema di tutele riservate al solo lavoro reso “alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore” (art. 2094 c.c.)» (p. 61 e s.). Su questo proposito è lecito manifestare qualche perplessità.
La condivisibile necessità di rimodulare le tutele tra i due settori del lavoro non richiede il superamento della loro distinzione giuridica; anzi, implica il suo mantenimento. Del resto, i recenti interventi legislativi che vengono richiamati non permettono di vedere il già (tendenziale) avvenuto superamento di tale dicotomia, ma testimoniano semmai la sua sopravvivenza. Le collaborazioni organizzate dal committente sono attratte nel campo di applicazione della «disciplina del rapporto di lavoro subordinato» (art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015). Facendo salva questa previsione, la l. n. 128/2019 ha introdotto livelli minimi di tutela per riders “autonomi” (art. 47-bis e ss. d. lgs. n. 81/2015). La l. n. 81/2017 delimita fin dal titolo il suo ambito di applicazione al «lavoro autonomo non imprenditoriale», ovvero «ai rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro quinto del codice civile, ivi inclusi i rapporti di lavoro autonomo che hanno una disciplina particolare ai sensi dell’articolo 2222 del codice civile» (art. 1, comma 1), salva l’esclusione degli «imprenditori, ivi compresi i piccoli imprenditori di cui all’articolo 2083 del codice civile» (art. 1, comma 2). Anche l’art. 409, n. 3, c.p.c., all’indomani dell’integrazione introdotta dall’art. 15, comma 1, lettera a), della l. n. 81/2017, è ancorato ancora più di prima al lavoro autonomo: il prestatore d’opera, «nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti”, «organizza autonomamente l’attività lavorativa».
Quella tra lavoro autonomo e lavoro subordinato «è» – e continua dunque ad essere – «la grande, la più importante distinzione che si fa in materia di contratto di lavoro. Questa distinzione ci è venuta dal diritto romano» . Essa «è in rerum natura e concettualmente radicale: non può essere messa tra parentesi nemmeno per un tratto iniziale della riflessione sul “diritto del lavoro che cambia” (nel senso di mutarsi in ‘diritto dei lavori’, subordinati o no, al servizio di imprese)» .

 

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