testo integrale con note e bibliografia

1. La qualificazione e i poteri del datore di lavoro.
Imperniati sul contratto e inseriti nel rapporto, i poteri del datore di lavoro traggono causa dal negozio e il loro esercizio deve essere conforme agli obblighi generali derivanti dal complessivo contesto, che li fonda e ne giustifica la previsione. La loro attuazione deve essere ispirata a buona fede, come qualunque altra componente del rapporto, poiché il dovere di correttezza concerne l’intera esecuzione. La realizzazione del potere deve avere luogo nel pieno rispetto degli interessi tutelati e propri della controparte, in una relazione continuativa nella quale ciascun atto è espressione di una collaborazione più articolata. Poiché i poteri vi si inseriscono e sono disegnati dal contratto, che ne provoca il sorgere, la loro esplicazione deve essere coerente con tale dimensione.
Per ciascun potere, sono diverse l’intensità e la conformazione del sindacato giudiziale, ma per tutti si pone un problema di lealtà; ciò deriva dal senso stesso della continuità della convivenza, che fa sorgere obblighi reciproci . Almeno, al titolare si deve chiedere di ragionare in buona fede, e ciò non significa che il giudice si possa o debba sempre sostituire per domandarsi che cosa avrebbe fatto se fosse stato l’imprenditore. In una prospettiva più limitata, il potere deve essere sentito e valutato come espressione della collaborazione e delle regole che questa proietta . Infatti, la predeterminazione dei poteri è l’essenza della subordinazione.
Non a caso, come si osserva, “elemento essenziale e determinante del lavoro subordinato, e discretivo rispetto a quello autonomo, è il vincolo della subordinazione, come soggezione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare e che si estrinseca nell'emanazione di ordini specifici e in una assidua vigilanza. Gli altri caratteri dell'attività, come la continuità, la rispondenza a fini propri dell'impresa, le modalità di erogazione della retribuzione, l'assenza di rischio e l'osservanza di un orario non assumono rilievo determinante, poiché, entro certi limiti, sono compatibili sia con il rapporto subordinato, sia con quelli autonomi” . L’analisi è tanto diffusa, quanto convincente, va al cuore dell’art. 2094 cod. civ. e mette in luce il proprio della subordinazione, intesa come espressione dell’autorità, la quale si rinnova e, nei limiti del rispetto delle norme inderogabili di tutela del prestatore di opere, ne adatta il fare al progetto aziendale e lo riporta nel suo modificarsi progressivo alla realizzazione dell’interesse dell’impresa.
Vista come autorità, la subordinazione è esercizio dei poteri e attribuzione di uno spazio di iniziativa di tanto maggiore importanza, in quanto si estende nel tempo e permette l’adeguarsi della collaborazione alle evenienze sopravvenute. Se la subordinazione stessa è l’esistenza dei poteri, la ricerca funzionale all’interpretazione deve guardare a questo elemento, di inevitabile radicamento nei comportamenti attuativi, perché si determini la volontà effettiva. Se mai, affiora la difficoltà della prova, per la struttura degli istituti processuali, ai quali riesce male il consentire la dimostrazione di fatti da cogliere in un lungo lasso di tempo e frammentati in molteplici eventi, da coordinare l’uno con l’altro e da vedere in una logica complessiva, a fronte di infiniti episodi, indicativi dell’autorità del datore di lavoro nel suo comporsi.
La ripartizione dell’onere della prova trova il suo fondamento nell’art. 2697 cod. civ., che distribuisce le conseguenze della mancata dimostrazione dei fatti rilevanti , enunciando “un criterio di rinvio, in quanto solo facendo riferimento alla norma sostanziale applicabile al caso è possibile stabilire davvero «chi doveva provare che cosa»” . L’art. 2697 cod. civ. è ritenuto una “norma in bianco” e impone di considerare ciascuna fattispecie, poiché sono le disposizioni “sostanziali di volta in volta applicabili al caso concreto a stabilire quali fatti rappresentano il fondamento del diritto che viene invocato, e da quali fatti può derivare l’inefficacia, la modificazione o l’estinzione di questo diritto” .
In connessione con l’art. 2094 cod. civ., l’art. 2697 cod. civ. addossa a chi ne alleghi il sussistere l’onere di dimostrare la subordinazione. Se l’art. 2697 cod. civ. deve trovare realizzazione , solo l’esame della fattispecie e della tutela invocata può consentire di cogliere quale sia il riparto dell’onere , tema da affrontare anche con “valutazioni processuali, derivanti dal modo in cui la contrapposizione dialettica delle parti nella dinamica del giudizio si riverbera (...) sulle possibilità strumentali di tutela” . La difficoltà di dimostrare l’esercizio dei poteri dipende in primo luogo dalla frammentazione degli eventi indicativi, poiché né il potere, né il suo esplicarsi sono fatti in sé, e tali sono gli accadimenti dai quali si possa risalire al programma negoziale e, pertanto, ai comportamenti successivi alla stipulazione, decisivi ai fini dell’interpretazione.
Le migliaia di controversie sull’applicazione dell’art. 2094 cod. civ. non sono combattute tanto con riguardo alla sua ricostruzione, poiché è convincente cogliere la centralità dei poteri nella causa del contratto. Prevale l’inevitabile difficoltà di dimostrare i fatti significativi per la corretta ricostruzione del negozio e, quindi, per l’attuazione dell’art. 1362 cod. civ.. Del resto, se nel loro comporsi diacronico, i poteri rimandano all’autorità, non può essere semplice provare una simile relazione intersoggettiva, destinata a sfrangiarsi in collaborazioni composite e diverse di giorno in giorno, con corrispondenti problemi di allegazione delle circostanze rilevanti e di loro dimostrazione.

2. La recente valorizzazione normativa dei cosiddetti indici di subordinazione.
Nonostante la distinzione fra interpretazione e qualificazione, la prima ha luogo nella consapevolezza degli elementi distintivi del modello dell’art. 2094 cod. civ. e, per un verso, l’ermeneutica presuppone la ricerca di condotte significative dell’esercizio dei poteri e, per altro verso, l’analisi delle risultanze istruttorie è comunque condizionata dalla riflessione sull’art. 2094 cod. civ.. Si ricercano fatti importanti rispetto al suo paradigma, sia che, in prima battuta, ci si interroghi su circostanze tali da fare risaltare in via diretta l’esercizio del potere, sia che il ragionamento si estenda in un secondo momento ad altri profili. Del resto, la rilevanza dei cosiddetti indici trova riscontro nella distinzione fra fatti costitutivi e secondari, non a caso richiamata a maggiore ragione nei sistemi processuali caratterizzati dal principio di necessaria, immediata contestazione .
Nonostante gli indici non coincidano con i fatti secondari, poiché tale ultima categoria è più estesa, è inevitabile il riferimento a circostanze collaterali rispetto a quelle in sé espressione dell’esercizio dei poteri, proprio perché i limiti della prova portano a verificare in senso più estensivo la collaborazione, affinché una illustrazione compiuta dei profili organizzativi possa aiutare nella valutazione conclusiva. Se l’autorità definisce la relazione subordinata e di per sé non è un fatto, è quanto mai complesso allegare e dimostrare elementi sufficienti a ricavare la predeterminazione contrattuale dell’autorità stessa, ed è commendevole la tendenza ad avere una immagine allargata del modo nel quale sia reso il fare. Ciò influisce sulla qualificazione e non riporta, neppure in via mediata, al metodo tipologico, poiché il ragionamento deve mantenere caratteri sussuntivi. Se mai, l’interpretazione presuppone una lettura completa, con la considerazione di un ampio materiale probatorio.
Si può condividere la tesi per cui “la qualificazione, operata dalle parti, non assume rilievo dirimente in presenza di elementi (quali la previsione di un compenso fisso e di un orario stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, nonché il collegamento tecnico tra la prestazione e le esigenze aziendali), rivelatori della natura subordinata” . Infatti, è significativa “la verifica dei cosiddetti ‘indici’, tra cui, in primo luogo, l'assenza di rischio, la continuità della prestazione, l'osservanza di un orario, la localizzazione, nonché la cadenza e la misura fissa della retribuzione” , ed è “subordinato il rapporto contrassegnato da indici univoci, quali l'alienazione del lavoratore dagli strumenti, allorché siano procurati e messi a disposizione dall'impresa, il pieno inserimento nell'attività e nell'organizzazione, l'assenza di rischio, la remunerazione fissa, l'obbligo di presenza in servizio” . Sarebbe errato cogliere l’importanza degli indici o come una dispersione del valore dei poteri, o come l’accettazione di elementi estrinseci, anche perché il problema si sposta sul terreno istruttorio.
Per chi è da sempre portato a pensare che il nostro ordinamento conosca solo la differenza fra la subordinazione e i contratti autonomi, senza alcuna categoria intermedia, tanto meno sulla base dell’art. 409, n. 3, cod. proc. civ., né sulla scorta di pochi frammenti prescrittivi di ordine per lo più previdenziale o fiscale, l’art. 2, comma primo, del decreto legislativo n. 81 del 2005 può essere letto nella medesima prospettiva , senza che all’art. 2094 cod. civ. si aggiunga una altra fattispecie. Tale ricostruzione può non essere in sintonia con il testo, poiché potrebbe fare intendere che l’art. 2, comma primo, non voglia offrire un contributo alla ricostruzione dell’art. 2094 cod. civ., ma l’ostacolo non sembra insormontabile; è sempre sconsigliabile un eccessivo ossequio alla lettera della legge .
L’art. 2, comma primo, si limita a contribuire, in modo creativo, all’attuazione dell’art. 2094 cod. civ., e non si aggiunge alla subordinazione la categoria dell’eterorganizzazione , ma si danno indicazioni imperative su una delle possibili applicazioni dell’art. 2094 cod. civ.. Rimane la tradizionale ed esclusiva contrapposizione fra il contratto tipico di lavoro subordinato e i vari negozi, del pari nominati, riconducibili all’autonomia . Nella qualificazione dei rapporti inerenti a una “collaborazione” personale, al fine di stabilire se sia subordinata, per l’art. 2, primo comma, si deve considerare l’imposizione a opera del committente delle “modalità di esecuzione”. L’art. 2, comma primo, invita a dare spazio a un elemento meritevole già in passato di apposito esame, ma indicato ora come prioritario. Qualora le “modalità di esecuzione” siano “organizzate dal committente”, il negozio è subordinato, in contrasto con la sua stessa lettera, se fa propendere per una opposta soluzione o se non si identifica l’esercizio dei poteri.

3. L’inesistenza di due fattispecie di subordinazione.
L’organizzazione delle modalità di esecuzione della collaborazione non coincide con la subordinazione in senso proprio, ma non identifica neppure un ulteriore negozio, aggiuntivo a quello dell’art. 2094 cod. civ. e contrapposto agli accordi autonomi. Se mai, si discute di una forma di rilevazione della subordinazione e, cioè, si mettono in luce suoi elementi identificativi, considerati in via imperativa sufficienti ai fini della qualificazione. L’organizzazione altrui dei modi di esecuzione della prestazione basta per il riconoscimento della subordinazione, anche in carenza della prova dell’esercizio dei poteri, con il conseguente, possibile concentrarsi dell’analisi su profili di più agevole dimostrazione processuale. E’ sufficiente provare che l’attività sia espletata in un contesto programmato dal committente, sebbene manchi la certezza della sottoposizione all’esercizio dei poteri.
Dimostrato che il rapporto si sia svolto come vuole il committente, la qualificazione si conclude, perché così impone l’art. 2, comma primo, senza che ci si debba interrogare sull’effettiva direzione . Organizzazione non significa mero coordinamento, ma, fermo il superamento del lavoro a progetto e rispetto all’esegesi tradizionale dell’art. 2094 cod. civ., in particolare a quella anteriore al 2003, molti rapporti escono dall’autonomia ; è più semplice dare la prova voluta dall’art. 2, comma primo, in quanto attiene a semplici fatti, di percezione e di illustrazione diretta. Con ogni probabilità, se vi è una organizzazione a opera del committente delle modalità di esecuzione e queste hanno luogo in azienda e con i ritmi della sua attività complessiva, sono esercitati anche i poteri dell’art. 2094 cod. civ.. Riconosciute queste forme di organizzazione, la qualificazione si può dire conclusa, sebbene non vi sia una presunzione .
Con una ulteriore modificazione della disciplina, volta a contenere la stipulazione di discutibili contratti autonomi , il legislatore ha introdotto una disposizione di difficile esegesi e, non a caso, al centro di un vivace dibattito , in specie per la contestuale soppressione del lavoro a progetto . Si può convenire sulla necessità di introdurre qualche sostegno alla possibilità della subordinazione di essere rilevata in un processo, tanto che per uno studioso forse vicino al legislatore storico “l’estensione della disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni etero – organizzate è (…) la risposta del legislatore italiano del 2015 al problema della debolezza contrattuale dei collaboratori dell’impresa privi di una reale autonomia”, così che sarebbe stata “archiviata (…) l’idea di creare un tertium genus di lavoratori economicamente dipendenti, a metà strada tra il lavoro subordinato e quello autonomo” .
Se è abile la difesa della strategia regolativa, sono chiari gli obbiettivi dell’art. 2 del decreto n. 81 del 2015, ma infuria la discussione sul modo nel quale siano stati perseguiti, poiché ci si chiede se sia stata trasformata la subordinazione o se questa abbia subìto solo una diversa inclinazione, come è da ritenere preferibile. L’ampliarsi dell’oggetto dello statuto protettivo del lavoro subordinato non ha avuto luogo né con la creazione di una ulteriore categoria, la cosiddetta eterorganizzazione, né con la modificazione dell’art. 2094 cod. civ.. Al contrario, con l’obbligata considerazione degli indici , senza una ulteriore forma di classificazione dei contratti , nella perdurante contrapposizione fra subordinazione e autonomia , l’art. 2 del decreto n. 81 del 2015 riequilibra taluni profili dell’interpretazione e della qualificazione.
L’idea qui sostenuta presuppone il superamento di indicazioni testuali distoniche, tali da fare pensare che un negozio sia attratto nella subordinazione in ordine alla sola produzione dei suoi effetti . A prescindere dal fatto che, pure basata sulla disposizione, questa lettura attribuirebbe all’art. 2 del decreto n. 81 del 2015 intenti irragionevoli, per tale pretesa duplicazione della fattispecie, nonostante gli uguali effetti, si dovrebbe ravvisare una “trasmigrazione di una certa fattispecie nell’area di regolazione propria di una fattispecie rispetto a essa tradizionalmente contrapposta” , a dire il vero senza una convincente spiegazione sistematica. Né persuade l’idea dell’allargamento dell’area della subordinazione , non solo perché il citato art. 2 non identifica un ulteriore modello sovrapposto a quello dell’art. 2094 cod. civ., ma soprattutto in quanto tale risultato non potrebbe essere raggiunto in virtù del rinvio all’organizzazione, in mancanza di un nuovo tipo .
Se mai, se l’art. 2 del decreto n. 81 del 2015 non introduce alcuna presunzione , si richiama un percorso di interpretazione e di qualificazione “non più rimesso al prudente apprezzamento del giudice ma imposto senza possibilità di scelta qualora sussistano tutti i requisiti della nuova disposizione” , tanto che si è parlato di una “norma apparente” e si è riportata la cosiddetta eterorganizzazione a un modo di essere della subordinazione . Si realizza una “facilitazione probatoria e argomentativa a favore di chi agisce per vedere riconosciuta la subordinazione” , sebbene “solo la coesistenza di tutti i requisiti che caratterizzano le collaborazioni organizzate descritte nel decreto legislativo n. 81 consenta una netta distinzione dalle collaborazioni coordinate di cui all’art. 409, n. 3, cod. proc. civ.. Pertanto, si potrà riservare la tutela piena (…) del lavoro subordinato solo alle collaborazioni che siano continuative (…), personali e le cui modalità di esecuzione della prestazione siano totalmente organizzate unilateralmente dal committente” .


4. L’applicazione dell’art. 2 del decreto legislativo n. 81 del 2015.
Se il dibattito è intenso sul significato dell’art. 2 del decreto n. 81 del 2015, è appena cominciata la discussione sulle sue modalità applicative , se si eccettuano anticipazioni significative , appunto volte a chiarire quali potrebbero essere le ricadute. In primo luogo, nonostante la sua lettera, l’art. 2 dovrebbe assumere una portata generale e influenzare la qualificazione al di là degli estesi confini delle collaborazioni dell’art. 409, n. 3, cod. proc. civ., alle quali, pure, la norma è indirizzata in via immediata. Nonostante l’art. 2, primo comma, abbia un taglio restrittivo per il riferimento alle prestazioni “personali”, il rinvio agli indici assume un valore più articolato , in particolare qualora si ravvisi nella nozione dell’art. 2, primo comma, solo un modo di essere della subordinazione. Proprio per la sua inevitabile natura unitaria, l’invito del legislatore a considerare una sua manifestazione fenomenica o, meglio, un percorso di sua rilevazione ai fini giudiziali non può essere ristretto a una parte delle fattispecie, poiché si cadrebbe in contraddizione.
La presenza di collaboratori o di apporti ulteriori non esclude il rilievo dell’elemento organizzativo, soprattutto se si considera come l’art. 409, n. 3, cod. proc. civ. richieda la prevalenza del fattore personale. Non a caso, se si eccettua l’ipotesi di una struttura produttiva significativa (e, in tali eventualità, non dovrebbe essere ravvisabile la subordinazione), la personalità è invocata perché si escluda l’operare dell’art. 409, n. 3, cod. proc. civ. nel caso di una società, poiché “la controversia sulla risoluzione di un contratto di agenzia con una società esula dalla competenza per materia del giudice del lavoro” . Qualunque collaboratore dispone di un apparato e l’apprezzamento sulla personalità stessa è per sua natura quantitativo e presuppone una comparazione fra l’apporto individuale e gli altri fattori, in ogni caso indispensabili . Se si accetta l’idea per cui l’art. 2, primo comma, ha un oggetto generale, non è di eccessiva importanza il riferimento alla personalità. Persino nel caso di strutture societarie, non può sfuggire la rilevanza del completo inserimento in un modello organizzativo altrui, nonostante la difficoltà della dimostrazione dell’esercizio dei poteri, poiché l’art. 2, primo comma, richiama l’attenzione sul modo nel quale il collaboratore disponga della sua stessa vita, dal punto di vista logistico. Il richiamo alle “modalità di esecuzione” riguarda gli atti preparatori all’adempimento.
Qualunque collaborazione presuppone un interesse del committente e il punto non deve essere sopravvalutato, salvo giungere a una sorta di inevitabile riconoscimento della subordinazione. Se mai, si deve dare risalto a come il lavoratore governi la sua collocazione e al modo nel quale si prepari a dare il suo contributo, con la ricognizione delle modalità empiriche del suo agire . L’inserimento in uno spazio nella disponibilità del committente e la sua possibilità di stabilire quando debba avere luogo il fare sono elementi estrinseci, perché non coincidono con la dimostrazione dell’esercizio dei poteri , ma non irrilevanti, in quanto facilitano il compito processuale .
Per altro verso, per evitare le conseguenze dell’art. 2, primo comma, e affinché possano impedire la qualificazione come subordinati, i rapporti di pretesa natura autonoma devono essere eseguiti senza il manifestarsi di questi indici, e non sempre si è messa in luce tale componente positiva della disposizione, destinata a incidere in profondità sulle scelte collettive. Non è impossibile attuare i poteri dell’art. 2094 cod. civ. in spazi e in momenti compatibili con l’art. 2, comma primo, ma, se si passa dalla semplice lettura testuale a una più compiuta valutazione delle sue implicazioni propositive, lo stesso art. 2, primo comma, pone un divieto su alcune modalità di esecuzione della prestazione per contratti che aspirino a essere reputati autonomi. Se l’art. 2 sarà rispettato, dovrebbero essere rare e disagevoli le condotte che, dietro l’apparenza opposta, garantiscano l’esercizio dei poteri del datore di lavoro.
Questo è il profilo più interessante dell’art. 2, primo comma, cioè il suo esigere una modificazione delle prassi, con risultati in potenza più lineari di quelli derivati dal modello formale dell’art. 61 del decreto legislativo n. 276 del 2003 . Nel suo proibire al committente di tenere nel suo perimetro aziendale il lavoratore, l’art. 2, primo comma, restringe quella convivenza di solito tale da preludere all’esplicarsi del potere direttivo. Questo si potrebbe svolgere a distanza, soprattutto con le moderne forme di comunicazione, ma il caso è più raro. Per l’operare dell’art. 2, primo comma, occorre un condizionamento, purché il vincolo non sia occasionale o parziale, ma costante, con una ingerenza piena.

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