testo integrale con note e blbiografia

1. – Affrontare la dottrina sulla subordinazione nel pieno senso dell’espressione vorrebbe dire avventurarsi in un territorio senza confini. Ho, quindi, puntato a individuare le problematiche che volta a volta hanno fatto concentrare l’attenzione degli studiosi, sì da poter distinguere alcune grandi stagioni, attivate da cambi di legislazione e/o di sistema, per poi concentrarmi sulle recenti in-novazioni legislative tali da influenzarne la stessa nozione.
Mi si permetta di ripartire dall’art. 2094 Cod. Civ., non solo perché costituisce il referente d’obbligo, ma perché, come si vedrà, la sua impostazione di fondo è rimasta sostanzialmente immodifi-cata almeno fino a ieri, sì da dare il senso di una continuità di in-tenti base del legislatore, pur col variare delle condizioni storiche e delle leggi.
Costruita a misura dell’impresa fordista, la nozione di subordi-nazione appare relativamente rigida. Ma il codificatore, da un lato, la attenua facendovi ricadere tutto il personale occupato nell’impresa, a’ sensi del successivo art. 2095 Cod. Civ., che allora distingueva le tre categorie di dirigenti, impiegati, operai; dall’altro, la considera universale, come risulta dall’art. 2239 Cod. Civ., per cui ai rapporti di lavoro non inerenti all’esercizio di una impresa si applica la stessa disciplina, se pur solo “in quanto compatibile con la specialità del rapporto”.
A sua volta, con uno stacco significativo, è sotto il successivo tit. III, capo I, che è regolato il lavoro autonomo, certo con una indubbia forzata dissonanza con l’art. 2094 Cod. Civ., nel definire non il contratto, ma il rapporto, peraltro facendolo in modo tauto-logico e residuale: tautologico, perché a’ sensi dell’art. 2222 Cod. Civ., “una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e sen-za vincolo di subordinazione...”, sicché un lavoro è autonomo quando non è subordinato; residuale, perché l’articolo prosegue prescrivendo che “si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV”, dove so-no tipizzati e ampiamente disciplinati i più importanti esempi di lavoro autonomo, quali l’agenzia, il mandato, il trasporto, sicché il rinvio a tali norme riesce piuttosto marginale.

2. – Negli anni, intanto, la dote legislativa della subordinazione si era andata arricchendo fino a culminare nei primi anni ‘70 con la l. n. 300 del 1970, nota come Statuto dei lavoratori; la l. n. 533 del 1973, sul processo del lavoro, dove fa capolino la “prestazione d’opera continuativa e coordinata”; la l. n. 877 del 1973, sul lavoro a domicilio dove appare una nozione di subordinazione in deroga a quella di cui all’art. 2094 Cod. Civ.
Qui la dottrina si impegnerà su un duplice fronte: il primo, da-to dalla valorizzazione di una disciplina incrementale, che specie con lo Statuto dei lavoratori si riflette in una restrizione sostanzia-le e procedurale dei tipici poteri datoriali, organizzativo, direttivo, disciplinare, con conseguente ricaduta sulla stessa nozione di su-bordinazione, ancor più spersonalizzata e funzionalizzata. Il se-condo fronte, poi, costituito dal contenimento della conseguente fioritura di un decentramento qualificato come “patologico”, fa-cendo all’uopo largo uso del divieto di intermediazione, interpreta-to in modo rigido, nonché ricorrendo al nuovo regolamento sul lavoro a domicilio, col sovrapporre la nozione di subordinazione ivi contenuta a quella di cui all’art. 2094 Cod. Civ., sì da renderla più a misura dell’intero ciclo produttivo, interno ed esterno.
Solo che la pur tendenza espansiva della disciplina lavoristica attuata dalla giurisprudenza attraverso una modulazione dei c.d. indici della subordinazione, con una qual sorta di commistione fra metodo sussuntivo e tipologico, da qualcuno battezzato come ti-pologico funzionale , non era più in grado di coprire la forte disu-guaglianza esistente già all’interno del lavoro subordinato; ma so-prattutto all’esterno rispetto ad un lavoro autonomo che si era an-dato moltiplicando sotto l’etichetta di collaborazioni coordinate e continuative, con la sola protezione dell’applicazione del processo del lavoro e dell’art. 2113 Cod. Civ.
Tanto più che in un decentramento destinato ad essere rivissu-to come fisiologico in ragione dello sviluppo tecnologico che face-va emergere nuovi collegamenti fra imprese e nuovi profili profes-sionali, il gap di trattamento fra lavoro subordinato e autonomo ri-sultava ancor più stridente, sì da sollecitare, da parte dello stesso legislatore, un cambio di marcia, che, anticipato nel decennio ‘80, troverà un primo sbocco sostanziale nel “pacchetto Treu” del 1997.
É in questa chiusura del secolo, che già preannuncia la pro-gressiva ritirata del diritto del lavoro “classico”, che la dottrina – dopo una serrata polemica sulla tenuta o meno della nozione dell’art. 2094 Cod. Civ., diversamente declinata alla luce del meto-do sussuntivo o tipologico – vive la sua stagione propositiva più bella, concentrantesi su una ridistribuzione delle tutele, con rinvio esplicito od implicito ad una rimodulazione delle fattispecie. Se pur c’è chi ritiene si possa ancora lavorare in via interpretativa sul-la nozione di subordinazione, aggiornandola debitamente con ri-corso al metodo tipologico, tiene banco la tesi a favore di una nuova legge, tanto che le proposte della dottrina trovano subito sponda in disegni di legge chiaramente debitori di quelle proposte.
Senza scendere qui ad una panoramica delle varie posizioni, proprio in quel decennio ‘90, che vedrà la Corte costituzionale, auspice il giudice Luigi Mengoni, leggere nella carta fondamentale una nozione di subordinazione come duplice alienità del processo e del prodotto ; proprio in quel decennio ‘90, una dottrina sfianca-ta e disillusa da quella che appariva ormai una vera e propria fatica di Sisifo, allarga l’orizzonte all’intero spettro del lavoro, quello sans phrase, che ricomprende e ricompone il lavoro secondo un conti-nuum subordinazione e autonomia. A dire il vero, questo passaggio sarà anticipato de iure condito da Marcello Pedrazzoli, con la sua let-tura in piena contro-tendenza dell’art. 2222 Cod. Civ., secondo la quale la definizione ivi contenuta del lavoro come “compimento di un’opera o di un servizio con lavoro prevalentemente proprio” co-stituirebbe già la categoria generale cui ricondurre il contratto d’opera, i vari contratti di lavoro autonomo di cui al libro IV, il contratto di lavoro subordinato . Ma ci sarà un prosieguo de iure condendo, con una varietà di proposte classificabili secondo due grandi categorie: quella diretta alla creazione del tertium genus, con qualche significativo ritaglio a scapito del lavoro subordinato e del lavoro autonomo ; quella, invece, finalizzata alla configurazione di una sequenza di fattispecie, caratterizzata da una progressione de-crescente in direzione di una nozione di subordinazione ristretta o crescente a partire da una nozione di subordinazione allargata , con una ridistribuzione diversamente graduata delle rispettive di-scipline.
Il legislatore, però, non si risolve a dar seguito al dibattito dot-trinale, ma con il pacchetto Treu del 1997, apre il discorso sulla flessibilità, fra l’altro introducendo quel lavoro interinale che rom-pe il dogma consacrato dalla l. 23 ottobre 1960, n. 1369 sulla uni-cità del datore di lavoro, titolare formale del rapporto in quanto fruitore effettivo del lavoro prestato.

3. – Il secolo d’oro del diritto del lavoro culmina simbolica-mente nella sua estensione al settore pubblico, se pur basata su una nozione di subordinazione priva della caratteristica dell’effettività, nonché dotata di una disciplina specialistica della dirigenza e della contrattazione; e lascia in eredità, in tema di di-stinzione fra subordinazione e autonomia, da un lato, la figura le-gislativa di lavoro autonomo di cui all’art. 409 Cod. Proc. Civ., tanto utilizzata quando sprovvista di protezione, e la fattispecie collettiva di lavoro subordinato a distanza quale costituita dal tele-lavoro; dall’altro lato, la distinzione fra titolare formale del rappor-to e fruitore effettivo del lavoro prestato.
È in corso un recupero valoriale della stessa figura del datore di lavoro, protagonista di un decentramento dovuto all’apertura del mercato e all’accelerazione del progresso tecnologico, cui oc-corre riconoscere l’utilizzo legittimo di un’ampia strumentazione negoziale nell’acquisizione della mano d’opera, così dando piena cittadinanza all’impresa-rete, non senza accompagnarla con for-mule di garanzia, quali la parità di trattamento e/o la solidarietà.
Di questo è pienamente consapevole il Libro Bianco che apre il primo decennio di questo secolo, con a co-autore quel Marco Bia-gi che non per nulla era già stato consulente di Tiziano Treu, al tempo autore del famoso pacchetto. Ne è figlio legittimo lo Statu-to dei lavori, incentrato sull’idea della distribuzione delle tutele lungo un continuum sviluppantesi con gradualità tra i due poli dell’autonomia e della subordinazione, con previsione di uno zoc-colo minimo di garanzie anche per il gradino iniziale del lavoro pa-ra-subordinato, nonché sulla moltiplicazione delle tipologie di ac-cesso.
Un programma destinato a trovare attuazione nel d.lgs. 10 set-tembre 2003, n. 276, ad eccezione della previsione di una sospen-sione temporanea e sperimentale dell’art. 18 dello Statuto, prevista nell’ottica della formula europea del tutto dominante della flexsecu-rity, dove la flessibilità in uscita avrebbe dovuto trovare compen-sazione nella sicurezza sul mercato, cui pure veniva dedicata note-vole attenzione. Formula, questa della flexsecurity derivata dall’esperienza di paesi quali l’Olanda e la Danimarca, peraltro troppo piccoli e troppo omogenei per risultare significativi per il nostro, grande ed estremamente eterogeneo. Sicché, a prescindere delle difficoltà insorte perfino là, qui da noi è risultato più facile introdurre per legge la flessibilità funzionale e in uscita che realiz-zare la strumentazione via via più raffinata a garanzia della sicu-rezza nel mercato.

4. – Non mi è possibile anche solo riassumere la dottrina che ha seguito passo a passo la ricca ed articolata legislazione del tem-po trascorso dall’inizio del secolo, se pur limitandomi alle due sole tappe fondamentali costituite dalla riforma Fornero e dal Jobs Act. Ma devo ricordare come tale legislazione abbia trovato in parte della dottrina – specie a seguito dell’accelerazione prodotta dal Jobs Act in materia di flessibilità funzionale (con la dilazione dello jus variandi) e di flessibilità in uscita (con la completa eliminazione pro futuro dell’art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300) – una conferma dell’analisi condotta alla luce della Law and Economics, cioè di una abdicazione del diritto del lavoro a favore della economia, tale da mutarne il paradigma o la struttura genetica .
Ora la soluzione di continuità è innegabile, a prescindere dalla alternanza della maggioranza parlamentare, quindi estremamente significativa, caratterizzata com’è stata ed è dal passaggio dal pia-no micro del singolo rapporto al piano macro del livello occupa-zionale, con una recuperata attenzione alla flessibilità richiesta dal mondo delle imprese.
Si deve alla giurisprudenza la sostanziale bocciatura del lavoro a progetto, nonché la lettura restrittiva del novellato art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300, interpretando il fatto contestato di cui al comma 4 come giuridico, cioè inadempimento non irrilevante; e si deve ad una prima contrattazione sperimentale l’ibernazione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, peraltro già penalizzato dal fallimento del suo obbiettivo primario di rendere effettivamente comune il ricorso al tempo indeterminato.
Ma soprattutto occorre attendere la stessa Corte costituziona-le, già chiamata in causa dal Trib. di Roma con riguardo al con-tratto a tutele crescenti, se pur in maniera non del tutto congrua; ma comunque il nuovo regime rimane ad alto rischio di incostitu-zionalità, tenuto presente, fra l’altro, l’evidente irrazionalità di mantenere implicitamente fermo il criterio di proporzionalità per le sanzioni conservative e di escluderlo esplicitamente per quelle espulsive.

5. – Peraltro a me interessa recuperare a posteriori quella pro-blematica sulla subordinazione rimasta in eredità dal vecchio seco-lo, cominciando a sottolineare la permanenza formale della distin-zione fra subordinazione e autonomia quale deducibile dagli artt. 2094 Cod. Civ. e 2222 Cod. Civ. Questo fino a ieri, ma oggi?
Si tratta del vuoto normativo lasciato dalle collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 409 Cod. Proc. Civ., che la riforma Biagi credette di coprire con il lavoro a progetto, riveduto e corretto dalla riforma Fornero, ma eliminato e sostituito dal Jobs Act. Sostituito in che modo? Come noto, l’art. 52, del d.lgs. n. 81 del 2015, al primo comma stabilisce l’abrogazione degli artt. 61-69 del d.lgs. n. 276 del 2003, cioè il regime del neo-introdotto lavoro a progetto; mentre al secondo fa salvo l’art. 409, n. 3 Cod. proc. Civ., che nell’elencare le controversie assoggettate al nuovo rito del lavoro contemplava al suo n. 3 i “rapporti di agenzia, di rap-presentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”, dando così vita alla figura dottrinale di para-subordinazione, am-bigua stazione ultima dell’area del lavoro autonomo, prima di en-trare in quella del lavoro subordinato.
Ora il legislatore del Jobs Act interviene con due norme, in de-bita ma tutt’altro che sistematica sequenza: l’art. 2, d.lgs. n. 81 del 2015, con a referente implicito l’art. 409, n. 3 Cod. Proc. Civ.; e l’art. 15, l. n. 81 del 2017, che, invece, modifica lo stesso art. 409, n. 3 Cod. Proc. Civ., con una puntuale integrazione.
L’art. 2, d.lgs. n. 81 del 2015, ha come referente implicito l’art. 409, n. 3 Cod. Proc. Civ., vecchio testo, perché intenderebbe scorporarvi una parte, considerata più esposta alla simulazione, la-sciandola autonoma, ma senza qualificarla esplicitamente, e ricol-legarvi ex lege la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Co-munque, solo una parte, perché altrimenti non si capirebbe la rivi-talizzazione dell’art. 409, n. 3 Cod. Proc. Civ., effettuata dal citato art. 52 comma 2, dello stesso d.lgs. n. 81 del 2015.
Recita, infatti, tale articolo, al suo comma 1: “A far data dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subor-dinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente, an-che con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”; articolo che ha dato luogo ad una vivace querelle sulla coincidenza o viceversa sulla distinzione fra etero-direzione ed etero-organizzazione: nella prima si tratterebbe di lavoro subordinato; nella seconda di lavoro auto-nomo.
Ho detto che per quanto l’intenzione del legislatore possa an-che essere stata nel senso di stralciare una parte dell’art. 409 n. 3 Cod. Proc. Civ., lasciandola autonoma, non la qualifica esplicita-mente, ma poi la individua e regola in termini tali da alimentare una querelle dottrinale sulla sua vera natura. La partita si è giocata sulla portata del termine “organizzazione”, se si potesse o meno parlare di una distinzione fra organizzazione di cui all’art. 2 citato e direzione di cui all’art. 2094 Cod. Civ., cioè, per usare le espres-sioni correnti, di una distinzione fra etero-organizzazione ed etero-direzione: se sì, se erano distinguibili, si sarebbe data una fattispe-cie di lavoro autonomo ; se no, se non erano distinguibili, si sa-rebbe determinata una fattispecie di lavoro subordinato .
Nessuna delle due posizioni è risultata esente da critiche, do-vendo la prima, sulla distinzione fra etero-direzione ed etero-organizzazione – in quanto figura di lavoro autonomo – dar conto della necessaria parzialità dell’estensione della disciplina, cioè tale da escludere tutta quella relativa all’esercizio dei poteri direttivo e disciplinare; e dovendo la seconda, sulla coincidenza fra etero-direzione ed etero-organizzazione scontare – in quanto figura di lavoro subordinato – la gamma di eccezioni alla regola previste dallo stesso art. 2, che metterebbero in questione la indisponibilità del tipo..
Quindi la risposta è restata problematica, ma dovendo operare una scelta, sembra più convincente la tesi relativa alla coincidenza fra etero-organizzazione ed etero-direzione; dato che le due espressioni, organizzazione e direzione, appaiono o fungibili o ap-paiate nella vulgata giuridica, per non parlare della già citata tesi del Persiani, per cui il contratto di lavoro subordinato sarebbe un contratto di organizzazione .
Certo nella definizione dell’art. 2, comma 1 del decreto legisla-tivo appare la parola “committente” ma essa è bilanciata dalla espressione “di prestazioni di lavoro”; mentre la frase “le cui mo-dalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” suona addirittura più ri-stretta di quella dell’art. 2094 Cod. Civ. Qui la c.d. etero-organizzazione riguarda sic et simpliciter le modalità esecutive, intese come tutte, con in più quella estensione esplicita, operata attraver-so l’avverbio “anche” “ai tempi e al luogo di lavoro”. Sì da risulta-re meno e non più comprensiva rispetto alla c.d. etero-direzione di cui all’art. 2094 Cod.Civ., dato che questa non deve riguardare, in generale, tutte le modalità esecutive e, in particolare, non sempre e comunque tempi e luogo di lavoro, i quali non ne costituiscono requisiti, ma indici più o meno rilevanti.
Se ne trova conferma nella definizione del lavoro agile ex art. 18, comma 1, l. n. 81 del 2017, per cui è promosso “il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo fra le parti anche con forme di organiz-zazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro”.
A propendere per la tesi della coincidenza fra etero-direzione ed etero-organizzazione, depone, oltre al testo della definizione dell’art. 2, del decreto legislativo, anche e soprattutto la “applica-zione della disciplina del lavoro subordinato”; di tutta la disciplina, senza eccezione di sorta. Il che reagisce sulla stessa definizione, confermandone la referenza alla nozione dell’art. 2094 Cod. Civ., se pur integrata con la necessaria estensione ai tempi e al luogo di lavoro; poiché, altrimenti, si dovrebbe filtrare arbitrariamente quella disciplina, con l’escluderne proprio il suo nocciolo duro, re-lativo al regolamento del potere datoriale a cominciare proprio dallo ius variandi, non per niente ampliato notevolmente dallo stes-so Jobs Act. Qui si scontra la tesi pur brillantemente avanzata di una scissione fra fattispecie e disciplina, sì da fare della regola di cui all’art. 2, comma 1, una norma non di fattispecie, ma unica-mente di disciplina .
Se così è, non c’è che prendere atto che l’eventuale intenzione del legislatore di scorporare dalla parasubordinazione di cui all’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ., vecchio testo, una fattispecie di lavoro autonomo, da assoggettare alla disciplina del lavoro subordinato, è stata tradita dalla lettera, sì da tradursi non solo in una nozione di subordinazione, ma in una più ristretta e puntuale di quella di cui all’art. 2094 Cod. Civ.
Una volta ricondotta la fattispecie di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015 alla sua effettiva portata, ne risulta assai pro-blematica la rilevanza, si da apparire, come pur si è sostenuto , una norma fittizia, perché una volta verificata la sua presenza nella singola fattispecie concreta, ne segue l’applicazione della disciplina lavoristica già in forza dell’art. 2094 Cod. Civ., di cui finisce per rappresentare la variante più essenziale, con una estensione dell’etero-direzione/etero-organizzazione a tutto campo. Il che rappresenta una conclusione indigesta per un’interprete “condan-nato” a trovare un senso a qualsiasi norma licenziata dal legislato-re, ma non sempre è possibile sanare la sua incoerenza. D’altronde non è irrilevante che pure sul fronte del nuovo governo sia emerso l’intento di liberarsi di questo articolo, come risulta dalla bozza elaborata dal Ministero del lavoro in tema di “Norme in materia di lavoro subordinato anche tramite piattaforme digitali “che ne pre-vede l’abrogazione, perché tale da rivelarsi di “chiusura” e non di “apertura”, rispetto ai nuovi rapporti di lavoro della gig economy.
Ve n’è un risvolto nel settore del pubblico impiego privatizzato dove il nostro art. 2, comma 4, d.lgs. n. 81 del 2015, prevedeva che “fino al completo riordino della disciplina dell’utilizzo dei con-tratti di lavoro flessibile da parte delle pubbliche amministrazioni, la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione nei con-fronti delle medesime. Dal 1° gennaio 2017 è comunque fatto di-vieto alle pubbliche amministrazioni di stipulare i contratti di col-laborazione di cui al comma 1”. Il successivo art. 5, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 75 del 2017 interviene a modificare l’art. 7, d.lgs. n. 165 del 2001, inserendo un comma 5-bis che, prima, vieta “alle amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente persona-li, continuative e le cui modalità siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, prevedendo la sanzione della nullità, della responsabilità erariale nonché della responsabilità dirigenziale: poi, sancisce la non applicabilità alle stesse amministrazioni pubbliche dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015, ribadendolo nel comma 4 dello stesso art. 2, come modi-ficato dall’art. 22, comma 9, d.lgs. 75 del 2017.
Sembra esserci una qual sorta di ridondanza normativa nel prevedere che quei contratti non si possono fare a pena di nullità e nell’escludere contestualmente addirittura in due disposizioni di-stinte l’applicabilità dell’art. 2, comma 1 d.lgs. n. 81 del 2015. Ma il punto è un altro, quale costituito dalla riproduzione letterale della formula di quell’art. 2, comma 1, per individuare i contratti di col-laborazione vietati, che non potendo essere interpretata diversa-mente da come detto sopra, si rivela anche qui tale da riferirsi ad una nozione di subordinazione ancor più ristretta di quella di cui all’art. 2094 Cod. Civ., sì da finire per escludere, rendendole legit-time, tutte le collaborazioni continuative e coordinate, pur se ini-donee ad integrare quelle previste dall’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ., nuovo testo, che resterebbero comunque fuori.
La conferma di una certa confusione lessicale da parte del Le-gislatore è costituita dall’attuale art. 7, comma 6 del d.lgs. n. 165 del 2001, laddove si prevede un’ipotesi di ricorso a contratti di la-voro autonomo così definiti in sostituzione al precedente testo che parlava di “contratti di lavoro autonomo di natura occasionale o coordinata e continuativa”, ma poi alla lett. c) si fa riferimento a “il progetto” e al secondo periodo si parla di “contratti di collabo-razione” sic et simpliciter.

6. – Resta la critica costituita dalla previsione esplicita di ecce-zioni alla nozione di cui allo stesso art. 2, comma 2 perché ad in-tenderla come di subordinazione, qualunque sia la sua relazione con quella di cui all’art. 2094 Cod. Civ., contrasterebbe con la di-sponibilità del tipo. Anche se, a prescindere dalla rilevanza in ge-nerale del principio della indisponibilità del tipo, riconfermato di recente da Corte cost. n. 76 del 2015 , questo, peraltro, conserva senso se esteso ad una disciplina debitamente costituzionalizzata. Il che, però, non pare affatto trovare conferma nell’art. 8 della l. n. 148 del 2011, che senza ritoccare la nozione di subordinazione di cui all’art. 2094 Cod. Civ, permette una deroga a tutto campo del-la relativa disciplina legale e contrattuale affidata alla c.d. contrat-tazione collettiva di prossimità, con una qual certa implicita tolle-ranza da parte della stessa Corte Costituzionale.
Comunque, ritornando al punto, una conferma che il legislato-re avesse come referente implicito l’art. 409, comma 3, Cod. Proc. Civ. è proprio data dall’essere le eccezioni riferite quasi tutte a “collaborazioni”, cioè quelle sub a), b), d) e d-bis), con l’unica rife-rita ad “attività” riportata sub c) . Ma è interessante notare come le eccezioni sub b), c) e d) fossero sostanzialmente le stesse che l’art. 61, comma 3, d.lgs. n. 276 del 2003 escludeva dal campo di applicazione del lavoro a progetto di cui al comma 1, a’ sensi del quale “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa pre-valentemente personale e senza vincolo di subordinazione di cui all’art. 409, n. 3, del codice di procedura civile devono essere ri-conducibili ad uno o più progetti specifici determinati dal commit-tente e gestiti autonomamente dal collaboratore” . Mentre l’eccezione sub a), ora divenuta più rilevante, non era prevista, per-ché la questione calda costituita dagli operatori telefonici dei call center outbound, era già stata sistemata dalla contrattazione collettiva col qualificarli quali lavoratori a progetto: e l’eccezione introdotta ex sub d-bis) viene a costituire una semplice aggiunta in linea con la precedente sub d).
Ora il trasloco delle eccezioni sub b), c), d) dal campo di appli-cazione del lavoro a progetto a quello della nozione di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015, riesce discutibile. Là, a fronte dello svuotamento dell’art. 409, n. 3 Cod. Proc. Civ., vecchio te-sto, erano le sole destinate a sopravvivere come collaborazioni coordinate e continuative alla conversione forzata in lavori a pro-getto. Mentre qui, a fronte del recupero dello stesso art. 409, n. 3 Cod. Proc. Civ, potevano benissimo continuare ad essere conside-rate come tali, senza alcun bisogno di essere esplicitamente esclu-se dall’ambito di operatività dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015; escluse da tale ambito sulla premessa, tradita nella sua tra-duzione pratica che questo comma disegnasse una nozione di su-bordinazione allargata, tale da ridimensionare la portata dell’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ., vecchio testo, nonché da spingersi oltre, a coprire la stessa area già sottoposta all’abrogato contratto a pro-getto.
Se così è, non c’è alcuna ragione di credere che possano consi-derarsi esenti dalla eventuale ricaduta sotto l’art. 2094 Cod. Civ., se e in quanto si rivelassero collaborazioni coordinate e continua-tive non genuine; mentre altrimenti, come tali, ieri, sarebbero re-state provviste della tutela minima assicurate dallo stesso art. 409, Cod. Proc. Civ., n. 3, vecchio testo, e dall’art. 2103 Cod. Civ., a meno di una presenza della contrattazione collettiva di cui all’art. 2, comma 2, lett. a) d.lgs. n. 81 del 2015; mentre, oggi devono te-ner conto della presenza dell’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ., nuovo testo e dell’introduzione di una disciplina ad hoc per il lavoro auto-nomo.
Già si è detto del perché di questa eccezione, nuova rispetto al-la elencazione dell’art. 61, comma 3, d.lgs. n. 276 del 2003, cioè di ovviare alla sparizione del lavoro a progetto su cui si era modellata la contrattazione collettiva relativa agli operatori telefonici dei call center outbound. Si vuole quindi dare una copertura legislativa al ve-nir meno del lavoro a progetto; ma lo si fa maldestramente, con-cedendo alla contrattazione collettiva nazionale di – quindi anche di una sola – associazioni sindacali comparativamente più rappre-sentative sul piano nazionale di escludere l’applicabilità della fatti-specie di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015... a collabo-razioni riconducibili all’art. 409, n. 3 Cod. Proc. Civ., che, in forza della ricostruzione letterale qui condivisa di detto art. 2, comma 1, potevano considerarsi di per sé escluse.
D’altronde assai generica suona la giustificazione richiesta, cioè la previsione di “discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze pro-duttive ed organizzative del relativo settore”, così rimessa esplici-tamente alla piena discrezionalità giudiziaria.
Resta, comunque, l’impressione di una qual sorta di evoluzione legislativa, per cui ad essere rinviata alla disponibilità delle parti non è più solo la dote legata alla subordinazione, ma la stessa no-zione di subordinazione: qui, almeno nell’intenzione, alle parti col-lettive, ma nel caso del lavoro agile alla stessa negoziazione indivi-duale.

7. – Dunque, a conclusione dell’argomentazione svolta, non si potrebbe parlare di una subordinazione “allargata”, perché a conti fatti, la linea di confine fra subordinazione e parasubordinazione non muterebbe, se pur contro l’intenzione del legislatore, tradita dal come le ha dato traduzione normativa. A questo punto, però, si deve tener presente che l’art. 2, d.lgs. n. 81 del 2015 è stato re-datto in vigenza del vecchio testo dell’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ.
E qui interviene la seconda norma innovativa, che ha non solo come referente, ma come oggetto l’art. 409, n. 3 Cod. Proc. Civ. L’art. 15, lett. a) l. n. 81 del 2017, lo integra con la seguente ag-giunta: “la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispet-to delle modalità di coordinamento, stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività la-vorativa”. Sì che il salvataggio dell’art. 409, n. 3, operato dall’art. 52, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2015, in quanto riferito al vecchio te-sto, cambia di significato e di rilievo.
Come detto il vecchio testo rimane, ma viene integrato, sì che ancora oggi contempla “altri rapporti di collaborazione che si con-cretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, pre-valentemente personale, anche se non a carattere subordinato”. Ora, c’è da chiedersi, quale sia il parametro per cui escludere il ca-rattere subordinato: l’art. 2094 Cod. Civ. o l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015? In base alla lettura qui condivisa di questo art. 2, comma 1, la risposta non può che essere univoca, cioè l’art. 2094 Cod. Civ., con ciò allineandosi alla interpretazione corrente del “senza vincolo di subordinazione” di cui all’art. 2222 Cod. Civ.
Solo che poi entra in gioco l’aliquid novi aggiunto all’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ., che formula una definizione della coordinazio-ne totalmente autonoma, tale da lasciar fuori non solo tutta l’area delle vecchie collaborazioni continuative e coordinate battezzate in dottrina come parasubordinate, ma anche quella una volta coperta dal contratto a progetto, dato che questo doveva pur sempre esse-re predisposto unilateralmente dal committente.
Non è che si possa dilatare la fattispecie di cui all’art. 2094 Cod. Civ. fino a farle ricomprendere sub specie di una subordina-zione ipertrofica le aree rimaste escluse dall’art. 409, n. 3 Cod. Proc. Civ., nuovo testo. Né questo cambierebbe se per ipotesi si facesse propria la tesi di riferirsi all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015, letto e interpretato nel senso qui non condiviso, di una subordinazione allargata rispetto a quella dell’art. 2094 Cod. Civ., perché, per quanto dilatata, non potrebbe certo arrivare a lambire la linea di confine segnata dall’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ. nuo-vo testo.
Se lo facesse, così arrivando a lambire quella linea, con una sorta di alternativa esaustiva fra l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015 e l’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ. nuovo testo, se ne dovrebbe dedurre logicamente una duplice conseguenza perlomeno discuti-le. Anzitutto la norma fondante il diritto del lavoro subordinato non sarebbe più l’art. 2094 Cod. Civ., ma l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015, con una sostituzione del primo da parte del secon-do. Poi, risulterebbe possibile partire, per delimitare la subordina-zione, non da una nozione inclusiva data dall’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015; ma da una nozione esclusiva costituita dall’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ., nuovo testo, per cui sarebbe subordinazione quel che non vi rientra. Strada, dopo tutto più fa-cile, sì da poter tentare la stessa giurisprudenza.
Dunque, rimane un vuoto fra dove giunge l’art. 2094 Cod. Civ. e dove parte l’art. 409, n. 3 Cod. Proc. Civ., nuovo testo. Vuoto, questo, che sembrerebbe essere coperto, dal punto di vista so-stanziale, dal nuovo regime del lavoro autonomo; ma non più, dal punto di vista processuale, dal rito del lavoro, per cui paradossal-mente tale rito, previsto per la parasubordinazione ex art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ., vecchio testo, risulterebbe applicabile solo alla prestazione del tutto autonoma di cui all’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ., nuovo testo.
Il che ovviamente può dar luogo, come già avvenuto in dottri-na, a interpretazioni creatrici, che amplino la portata dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015 e riducano quella dell’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ., nuovo testo; o che, comunque, considerino appli-cabile il rito del lavoro anche alle vecchie collaborazioni coordina-te e continuative, deducendolo da una qual sorta di omogeneità ri-spetto al gruppo di rapporti ivi previsto. Certo è che qui sarebbe non solo opportuno, ma anche necessario un intervento raziona-lizzatore del legislatore; sarebbe, perché il clima presente pare tutt’altro che di buon auspicio.
Comunque la fattispecie contemplata dall’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ., così come novellato, ha a chiarimento del suo essere non subordinata, ma solo coordinata, due caratteristiche: a) la de-terminazione delle modalità di coordinamento... di comune accor-do; b) nel rispetto di tali modalità, l’organizzazione autonoma da parte del collaboratore dell’attività lavorativa.
Al riguardo mi basta sottolineare come sia meno significativa la prima caratteristica, perché potrebbe risultare sufficiente l’inserzione oggettiva dell’attività nell’organizzazione dell’azienda, data per presupposta tacitamente dalle parti; e più significativa la seconda caratteristica, perché sarebbe necessaria una effettiva au-tonomia nell’esecuzione della prestazione. Solo che, poi, l’individuazione di tale effettiva autonomia è cosa tutt’altro che fa-cile, perché finisce per richiamare la stessa distinzione fra auto-nomia e subordinazione, sì da poter dar vita ad una specie di in-terpretazione circolare, facendo ritornare utile la chiamata in causa dell’art. 2094 Cod. Civ.

8. – Se si deve individuare la fattispecie dove pare rimessa in discussione la nozione di subordinazione di cui all’art. 2094 Cod. Civ. questa è rinvenibile nella l. n. 81 del 2017, che, dopo aver de-dicato il capo I alla tutela del lavoro autonomo, introduce al capo II il lavoro agile; con una contiguità di per sé rivelatrice di una qual sorta di parentela fra lavoro agile e lavoro autonomo.
È previsto un rapporto di lavoro subordinato, quindi come tale qualificato a’ sensi dell’art. 2094 Cod. Civ., cui, però può accedere un patto che ne modifica le modalità di esecuzione, che a sensi dell’art. 18, comma 1 del decreto legislativo possono contemplare “anche forme di organizzazione per fasi, cicli e obbiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utiliz-zo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavora-tiva” con l’ulteriore precisazione che “la prestazione di lavoro vie-ne eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Fin qui niente di che, quanto previsto nel patto circa le modali-tà di esecuzione avrebbe potuto essere individuato come oggetto dello stesso contratto di lavoro subordinato, se pure l’aver previ-sto un patto ad hoc rende il rapporto più stabile: il patto può essere a tempo determinato o indeterminato, in tal caso risolubile con un preavviso di trenta giorni, ma se pur scaduto o risolto per giustifi-cato motivo, non comporta di per sé la cessazione del sottostante rapporto subordinato che tornerebbe al suo regime normale.
Come oggetto del contratto, senza necessità di un apposito patto, avrebbe potuto essere introdotto quanto previsto dall’art. 19, comma 1, secondo capoverso, per cui “l’accordo individuale individua altresì i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative per assicurare la disconnessione del lavo-ratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”.
L’aliquid novi è contenuto nell’art. 19, comma 1, primo capover-so e 21. A’ sensi dell’art. 19, comma 1, il patto, stipulato per iscrit-to ai fini della regolarità amministrativa e della prova, deve disci-plinare “l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro”, nonché “agli strumenti uti-lizzati dal lavoratore”, ma per questi ultimi vale quanto già detto sopra. A sua volta, l’art. 21, recita al primo comma “L’accordo re-lativo alla modalità di lavoro agile disciplina l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavora-tore all’esterno dei locali aziendali...”; e al secondo “L’accordo di cui al comma 1 individua le condotte, connesse all’esecuzione del-la prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari”.
Ora tenuto conto che a’ sensi dell’art. 18, comma primo, se-condo capoverso “la prestazione viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali, in parte all’esterno senza una posta-zione fissa”, si capisce perché l’accordo riguardi solo la prestazio-ne eseguita all’esterno, con riguardo sia alle “modalità di esecu-zione”, comprese “le forme di esercizio del potere direttivo del da-tore di lavoro” sia “l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore”, compresa l’individuazione “delle condotte... che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari”.
Il che, dopotutto, appare ragionevole, tenuto conto che la pre-stazione svolta all’esterno non avviene su una postazione fissa, sì da dover rinviare ad una predeterminazione, solo che questa non è unilaterale come ci sarebbe potuto aspettare secondo l’impostazione consolidata in tema di etero-direzione, ma concor-data. Anche se poi l’esercizio effettivo del potere direttivo, di con-trollo e disciplinare è rimesso alla iniziativa del datore di lavoro, con l’ulteriore problema di come debba venir giudicato il mancato adeguamento da parte del lavoratore convinto che l’accordo sia stato violato.
Alla fine risulta che il lavoratore agile è sottoposto ad un du-plice regime, a seconda che la sua prestazione sia svolta fuori o dentro l’azienda, quello di lavoratore subordinato normale e quello di lavoratore agile, con un non facile coordinamento, che potreb-be, anzi a mio avviso dovrebbe essere definito nel patto.

9. – Il che riesce ancora più evidente, se si passa all’altro capi-tolo lasciato aperto dal secolo appena chiuso, cioè all’individuazione del datore di lavoro, così come effettuata da cer-ta dottrina in base alla più recente legislazione.
Per rendere breve un discorso lungo, la tesi variamente svilup-pata e argomentata è che il gruppo e/o la rete di imprese perse-guirebbero un interesse appunto di gruppo e/o di rete che pur nell’ambito di un decentramento fisiologico, cioè articolato su im-prese genuine, influenzerebbe le pur distinte organizzazioni, dando vita ad un’unica impresa integrata, da legittimare una contitolarità rispetto a tutti i rapporti di lavoro in essere .
Ora se è chiara la valenza di politica del diritto sottesa a tale tesi, cioè di inseguire il decentramento “fisiologico” così come a suo tempo il decentramento “patologico”, con un ovvio cambio di strumentazione: ieri, si trattava di ricondurre tutto ad una singola impresa, attraverso principalmente il divieto di intermediazione; oggi, si tratta, invece, di imputare a tutte le imprese di gruppo o di rete tutti i rapporti di lavoro, cioè farle, come si dice, contitolari. Se è chiara la valenza politica, non lo è altrettanto la fondatezza giuridica.
Si può prescindere dall’osservazione un po’ facile per cui l’art. 2094 Cod. Civ. non escluderebbe l’esistenza di più datori, come se tutto il relativo regime non fosse fondato sulla normale unicità del datore, tanto da renderne alquanto problematica la gestione plu-rima specie con riguardo all’esercizio del potere organizzativo, di-rettivo, disciplinare. Ma anche a prescinderne, resta che l’argomento di base è falsante, perché una volta che il decentra-mento sia “fisiologico”, l’interesse di gruppo o di rete è proprio che le singole imprese siano dotate non solo di autonomia giuridi-ca ma anche di quella gestionale; fatto, questo che non esclude l’esistenza di un coordinamento e di interrelazioni relativamente all’utilizzazione di alcuni impianti e di mano d’opera, ma certo non una interferenza nella conduzione del personale tale far presumere una contitolarità. D’altronde il supporto positivo per il gruppo di imprese sarebbe dato da una nozione unitaria del gruppo, quella riconducibile all’esistenza della capo-gruppo investita di una sorte di regia, più o meno invasiva a’ sensi dell’art. 2359 Cod. Civ., sulle società controllate e collegate.
Ma, almeno per ora, non è possibile attribuire a un gruppo “genuino” dal punto di vista del diritto del lavoro, più di quanto riconosciutegli dalla legge, cioè dall’art. 31, comma 1, d.lgs. 276 del 2003, circa l’assolvimento degli adempimenti amministrativi, nonché da certa giurisprudenza: quest’ultima date certe condizioni al limite dell’intermediazione vietata e prevalentemente al fine di un conteggio unitario di tutti i dipendenti, in vista dell’applicazione dell’art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300.

10. – In particolare, per il contratto di rete una contitolarità del rapporto non è certo deducibile né dalla sua definizione né dalla disciplina di cui all’art. 3 comma 4-ter e 4-quater del d.l. n. 5 del 2009, convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, comma 1, l. n. 33 del 2009. Vi è contemplato, da ultimo, nell’elenco degli scopi perseguibili anche la possibilità di “esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa”; e, comun-que, di prevedere l’istituzione di un fondo patrimoniale comune e la nomina di un organo comune incaricato di gestire, in nome e per conto dei partecipanti, l’esecuzione del contratto o di singole parti o fasi di esso, peraltro non dotato di soggettività giuridica, acquistabile solo a seguito della stesura del contratto nelle forme previste e successiva iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese.
D’altronde lo stesso art. 31, comma 3, d.lgs. 276 del 2003 (comma così modificato dall’art. 67-ter, comma 1, lett. b) d.l. n. 1 del 2012, convertito con modificazioni dalla l. n. 27 del 2012) esplicitamente prevede che “Le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 2-bis non rilevano ai fini della individuazione del soggetto titolare delle obbligazioni contrattuali e legislative in capo alle singole so-cietà datrici di lavoro”.
Certo ai commi seguenti, 3-bis, 3-ter, 3-quater, 3-quinquies (tutti aggiunti dall’art. 9, comma 11 del d.l. n. 76 del 2013, convertito con modificazioni dalla l. n. 99; e, l’ultimo comma modificato dall’art. 18, comma 1, l. n. 154 del 2016) si contempla e regola l’assunzione congiunta sia per le imprese di gruppo che per quelle legate da un contratto di rete, peraltro con una facilitazione rispet-to ad imprese agricole; e si rinvia ad un decreto ministeriale, cioè ora il d.m. 27 marzo 2014, che non risolve la questione della titola-rità, limitandosi a far carico delle incombenze relative alle varie comunicazioni richieste la capo-gruppo o l’impresa individuata dal contratto di rete. Peraltro è certo che il citato comma 3-quinquies non parla in casu di contitolarità, ma solo di solidarietà, tant’è che “I datori di lavoro rispondono in solido delle obbligazioni contrat-tuali, previdenziali che scaturiscono dal rapporto di lavoro instau-rato con le modalità disciplinate dai commi 3-bis e 3-ter”.
Rimane l’art. 30, comma 4-ter (aggiunto dall’art. 7, comma 2 del decreto legge citato), per cui “qualora il distacco di personale avvenga tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di impresa che abbia validità ai sensi del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni dalla l. 9 aprile, n. 33, l’interesse del-la parte distaccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete, fatte salve le norme dell’art. 2103 del codice civile. Inol-tre per le stesse imprese è ammessa la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete stes-so”.
Dando per scontata l’introduzione di un distacco legittimato dal mero operare della rete, tale da facilitare lo scambio di mano d’opera anche consistente fra le imprese in rete, resta la difficoltà di interpretare la parola “codatorialità”, se corrisponda o meno a contitolarità . Ma una cosa è certa, non deriva automaticamente dall’esistenza della rete, ma solo dall’esplicita previsione e regola-zione nel relativo contratto, cui sembrerebbe affidata comunque la scelta fra titolarità unica o condivisa, quest’ultima accompagnata inevitabilmente da una adeguata disciplina dell’esercizio dei poteri organizzativi, direttivi, disciplinari. Cosicché anche qui la collauda-ta nozione di subordinazione verrebbe rimessa alla volontà delle parti al contratto di rete, che la poterebbero ricondurre ad una o a più datori di lavoro; e se a più datori di lavoro solo ad una parte o a tutti.
Solo che questa appare una strada in salita tanto da risultare poco o niente praticata dai contratti di rete conclusi, tanto più che risulterebbe assai più semplice ottenere la soggettività giuridica a’ sensi dell’art. 3, comma 4-quater d.l. n. 5 del 2009, convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, comma 1, l. n. 33 del 2009, im-putando, ad essa la titolarità di alcuni o di tutti i rapporti di lavoro facenti capo alla rete di imprese.

11. – Vale la pena di chiudere con un accenno ad un tentativo di ricentralizzazione della nozione di subordinazione di cui all’art. 2094 Cod. Civ., rimasto peraltro affidato a quella bozza del Mini-stero del lavoro di cui s’è fatta parola in precedenza. Vale la pena di riportarne qui almeno il primo comma dell’art. 1, anche se esso riesca tutt’altro che esaustivo, dovendo essere letto col comma se-condo e terzo. Dice, dunque, questo primo comma “È considera-to prestatore di lavoro subordinato, chiunque si obblighi, median-te retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio la-voro intellettuale o manuale, alle dipendenze e secondo le diretti-ve, almeno di massima e anche se fornite a mezzo di applicazioni informatiche, dell’imprenditore, pure nei casi nei quali non vi sia la predeterminazione di un orario di lavoro e il prestatore sia libero di accettare la singola prestazione richiesta, se vi sia la destinazio-ne al datore di lavoro del risultato della prestazione e se l’organizzazione alla quale viene destinata la prestazione non sia la propria ma del datore di lavoro”.
È di tutta evidenza come il tentativo di innestare sul testo dell’art. 2094 Cod. Civ. una fattispecie specifica, si risolve in uno snaturamento della nozione, così come consolidatasi nella inter-pretazione dottrinale e giurisprudenziale, sia pure non senza signi-ficative oscillazioni. A prescindere, infatti, dell’inserzione non della possibile mancanza della predeterminazione dell’orario ma della esplicita facoltà di rifiutare la singola prestazione richiesta, resta l’aggiunta alla classica endiadi “alle dipendenze e sotto le diretti-ve” della generica espressione “almeno di massima”; ma, soprat-tutto, resta la formula finale di chiusura che riecheggia la teoria sostanzialista del tutto minoritaria di una subordinazione espressa nei termini di una duplice alienità, dal processo e dal risultato pro-duttivo.
Il fatto è che l’innesto, lungi dal costituire un coerente amplia-mento della nozione originaria di subordinazione ripresa alla lette-ra, integra gli estremi di una diversa nozione costruita a misura di una specifica fattispecie, come confermano i due commi seguenti al primo sopra riportato, ma anche se non soprattutto la necessità di adattare la disciplina generale del rapporto di lavoro subordina-to a misura di quella fattispecie. Questa strana combinazione a sommatoria deve aver giocato nell’accantonamento del progetto, peraltro fortemente avversato dalle aziende fornitrici di lavoro tramite applicazioni digitali, se pure in vista di un contratto collet-tivo in materia. E, a testimonianza del potenziale ingorgo norma-tivo, tale contratto dovrebbe essere fatto ricadere sotto il comma 2 lett. a) dell’art. 1 del d.lgs. n. 81 del 2015, senza, peraltro, costi-tuire affatto una eccezione alla nozione di cui al precedente com-ma 1, addirittura tale da escludere qualsiasi tipo di rapporto pro-prio della gig economy. Non solo, perché la prestazione lavorativa che ne costituirebbe oggetto, sarebbe ben più riconducibile alle collaborazioni coordinate e continuative ex vecchio testo dell’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ. piuttosto che al nuovo testo introdotto dall’art. 15, lett. a), l. n. 81 del 2017.
Rimane allora un dubbio, se, cioè, non sia meglio operare come si è fatto per il lavoro a domicilio, formulando una nozione di su-bordinazione in deroga a quella di cui all’art. 2094 Cod. Civ., tanto più se questa dovesse costituire la porta di ingresso ad una disci-plina almeno parzialmente differenziata, per essere coerente con la nozione di subordinazione costruita a misura della specifica fatti-specie, cioè qui del lavoro tramite piattaforme digitali. Alla prova dei fatti quella che verrà messa alla prova sarà la ricorrente illusio-ne di poter trasmigrare l’intera disciplina del lavoro subordinato, ad eccezioni di alcune norme specifiche, perché tale disciplina è stata costruita pezzo a pezzo a misura della nozione di subordina-zione contenuta nell’art. 2094 Cod. Civ., sicché l’opera di trasmi-grazione riesce estremamente difficile, a cominciare dalla ridefini-zione del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro.

12. – Sono perfettamente consapevole che le tesi qui esposte, come le altre fiorite in dottrina, restino discutibili, propedeutiche alla interpretazione giurisprudenziale, sempreché il panorama legi-slativo resti immodificato. Ma, non la si prenda come una scontata giustificazione, se l’interprete fa fatica a leggere, dipende in gran parte da un legislatore che non sa scrivere.

 

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