testo integrale con note e bibliografia

1. La platea eterogena dei bassi salari
Quello del salario minimo legale è uno di quei temi che dovrebbe essere trattato con modalità interdisciplinare, in quanto ogni prospettiva settoriale si rileva insufficiente per individuare le soluzioni più efficaci a un problema reale. In particolare, non si può comprendere appieno l'evoluzione del diritto del lavoro a partire dagli anni Settanta, se non si osservano i tratti salienti dell'economia e dei suoi cicli. Basti considerare che, con l'avvento epocale della globalizzazione, si è assistito alla soccombenza dell'occidente al dumping sociale causato dai paesi da lui definiti inferni lavoristici e ambientali.
Indubbiamente in questo fenomeno va ricercata una delle concause del problema dei bassi salari netti in Italia e del lavoro povero, in quanto la competizione nell’economia globalizzata ha determinato una sorta di “importazione” di retribuzioni al ribasso in alcuni settori, anche per mezzo di una contrattazione collettiva definita “pirata”.
Questo dumping interno, tra l’altro, è presente anche in alcuni paesi dell'Unione Europea, proprio per mezzo del salario minimo legale, come, ad esempio, in Bulgaria, che è pari a euro 1,62 l’ora, o poco più in Lettonia, in Romania, in Ungheria, tutte con salari minimi inferiori a 500 euro al mese (dati Eurofound). In realtà pochissimi paesi hanno un salario minimo legale di 9 euro.
Se si considera che la diffusione tra i paesi dell'unione europea del salario minimo per legge è uno degli argomenti più utilizzati dai fautori di tale misura, si comprende bene come il dibattito che si è sviluppato in Italia su questo tema soffra di una buona dose di pressapochismo e di astrattezza, come spesso accade per le prese di posizione fortemente politicizzate. Il giurista deve allora farsi carico della “fatica del concetto” di hegeliana memoria, per svolgere la sua funzione di cercatore di ordine, sforzandosi di individuare e segnalare la ragnatela dell'ordine che soggiace, invisibile ma reale, al di sotto della incomposta rissa delle idee.
In queste situazioni è sempre buon metodo avere chiare le cause dei problemi che si vogliono risolvere mediante una riforma legislativa.
In relazione al tema in esame, in prima battuta è facile rispondere che, con l’introduzione per legge, di un salario minimo, fissato in nove euro lordi, come da ultimo nella proposta di legge unificata di (quasi) tutti i partiti di opposizione (A.C. n. 1275), si ritiene che al di sotto di tale soglia vi sia il fenomeno del working poor, e comunque non venga rispettato il principio costituzionale della retribuzione sufficiente in quanto, anche se di poco al di sotto di 9 euro, una tale misura del salario non sarebbe in grado di garantire al lavoratore o alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. Di qui l’obiettivo di innalzare la retribuzione per tutti indistintamente coloro che rientrano in tale platea.
Tuttavia, appunto analizzando le cause principali del fenomeno che si intende affrontare con tale tecnica, la situazione si complica in quanto non si tratta solo di contrastare i contratti c.d. “pirata”, ma anche di intervenire a sostegno dei sindacati maggiori in quei settori in cui essi non riescono ad ottenere, per i livelli più bassi di inquadramento, una retribuzione al di sopra di tale soglia, anche a causa dei ritardi dei rinnovi dei contratti, che incidono negativamente in modo particolare nei periodo di alta inflazione.
Infatti, i rapporti di lavoro con retribuzione inferiore ai 9 euro sono circa il 22 % del totale (2.840.893 lavoratori) e si concentrano tra gli apprendisti (59,5 %) e gli operai (26,2 %), nelle attività dei servizi di alloggio e ristorazione (27,1 %), del noleggio, nelle agenzie di viaggio, nei servizi di supporto alle imprese (34,3%), nelle attività artistiche di intrattenimento e di divertimento (29,2 %), nelle altre attività di servizi (61,6 %) ed in alcuni settori dell’agricoltura. I lavoratori che usufruirebbero di tale aumento si stima siano circa due milioni e mezzo, non è chiaro se apprendisti esclusi o no.
In questa platea sono compresi indubbiamente “anche”, ma non solo, i contratti collettivi c.d. “pirata”, sottoscritti dai soggetti dotati di scarsa o inesistente forza di rappresentatività, pur consentiti in base al principio di libertà sindacale ed in assenza dell’attuazione dell’art. 39 Cost.
Si tratta però di due problemi diversi tra loro, che spesso vengono accomunati nell’unica soluzione più comoda e più sbrigativa del salario minimo legale.

2. Il contrasto ai contratti collettivi pirata: la strada maestra dell’erga omnes costituzionale.
Per quanto riguarda i contratti collettivi stipulati da sindacati con scarsa o inesistente forza rappresentativa, è difficile dubitare che la soluzione del suddetto problema più coerente con il nostro ordinamento consista nella via maestra di dare finalmente attuazione all’art. 39 Cost., giacché, con l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, le clausole retributive al ribasso dei contratti “pirata” non potrebbero essere più applicati dal datore di lavoro, in quanto colpite da nullità per contrasto appunto con tali contratti dotati di forza di legge.
Sul punto, la relazione illustrativa al disegno di legge unitario delle opposizioni significativamente tace poiché la scelta è stata quella di preferire la strada della rigidità e uniformità della legge, che prevede un importo minimo che si impone anche ai contratti collettivi stipulati dalle maggiori organizzazioni sindacali, esautorandole così dalla funzione di stabilire la retribuzione sufficiente, lasciando loro solo la determinazione di quella proporzionale. Questa strada è forse più comoda ma presenta delle criticità ordinamentali essendo il salario minimo legale generalizzato una sorta di “corpo estraneo” al nostro sistema, sia dal punto di vista costituzionale, sia sotto il profilo delle relazioni industriali storicamente affermatesi in Italia.
Per la verità, i propugnatori del salario minimo legale tentano anche di non mortificare del tutto l’autonomia collettiva “seria”, ma anche qui imboccano una scorciatoia incostituzionale, nel momento in cui prevedono, all’art. 2, l’obbligatoria applicazione per tutti i datori di lavoro di una retribuzione “non inferiore a quella prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro in vigore per il settore in cui il datore di lavoro opera e svolge effettivamente la sua attività, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale”.
È evidente che questa soluzione si pone in netto contrasto con il dettato costituzionale che impedisce una legislazione generalizzata che recepisca le previsioni del contratto collettivo, così rendendolo genericamente vincolante. Il contrasto risiede nella sostituzione del sistema costituzionale di stipulazione di contratti con originaria efficacia generale -caratterizzato da agenti contrattuali in cui sono proporzionalmente rappresentati tutti i sindacati su base democratica-, con un sistema diverso, in cui il legislatore estende a tutti discipline collettive i cui soggetti non rispondono alle regole indicate.
Nella sostanza la vicenda ricorda quella della reiterazione della Legge Vigorelli, bocciata dalla Corte costituzionale (Corte cost. 19 dicembre 1962, n. 106), poiché il Governo di allora era stato delegato a emanare decreti “al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria”.
I proponenti del disegno di legge sul salario minimo, come si evince dalla relazione illustrativa, ritengono invece che tale problema, che ha condizionato tutta l’evoluzione del nostro sistema, sarebbe stato improvvisamente risolto dalla sentenza della Corte costituzionale 26 marzo 2015, n. 51. Questa pronuncia, come è noto, ha rigettato le censure di costituzionalità avanzate nei confronti della disposizione prevista specificamente per i soci lavoratori che prevede, in presenza di una pluralità di contratti collettivi nella medesima categoria, l’obbligo delle società cooperative di applicare “i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale di categoria”.
Tuttavia, appare eccessivo l’affidamento riposto dai promotori della proposta di legge su tale sentenza.
In primo luogo, la Consulta si è pronunciata su di una legge settoriale specifica che non estende a tappeto per tutti l’efficacia di qualsiasi contratto collettivo di diritto comune, a differenza della proposta di legge qui in esame. Pertanto, sotto tale aspetto, anche questa sentenza della Corte non si discosta dall’orientamento che ritiene ammissibili singoli interventi del legislatore per determinate materie anche quando il contenuto della legge riprenda quello dei contratti collettivi (Corte cost. 19 dicembre 1962, n. 106; Corte cost. 6 luglio 1968, n. 101; Corte cost. 7 febbraio 1985, n. 34).
Ma, soprattutto, sussiste più di qualche dubbio che quella sentenza possa costituire un precedente tale sul quale poggiare un passaggio storico consistente nel drastico e generalizzato mutamento degli orientamenti della giurisprudenza costituzionale consolidatasi in oltre mezzo secolo, giacché essa presenta più di un margine di ambiguità sul punto.
Invero, nella prima parte essa afferma correttamente che la norma esaminata non contrasta con l’art. 39, ribadendo l’ovvio principio secondo cui i contratti collettivi costituiscono solo un “parametro esterno di commisurazione” da parte del giudice. Ma poi, contraddicendo la suddetta esatta affermazione, la pronuncia prosegue che tale parametro “deve essere osservato”. Quindi l’erga omnes escluso nella prima parte della sentenza viene affermato nell’ultima parte della motivazione. Sicché la consulta qui sembra confondere il potere discrezionale del giudice fondato sull’equità (art. 2099 cod. civ.) con l’obbligo imposto dalla legge di assai dubbia costituzionalità.
La non decisività di tale pronuncia al fine di risolvere un problema storico del diritto del lavoro italiano, fa pensare che ai promotori dell’iniziativa legislativa importi ben poco che la norma in questione venga dichiarata incostituzionale, poiché la sua caducazione non farebbe venire meno quello che probabilmente è il vero loro unico obiettivo e cioè introdurre per legge il salario minimo.

3. L’impatto del salario minimo legale sui contratti collettivi stipulati dalle maggiori organizzazioni sindacali.
L’altra criticità che il salario minimo legale dovrebbe risolvere, riguarda, come si è visto, i rapporti di lavoro con retribuzione “under 9 euro” inquadrati negli ultimi livelli di alcuni contratti collettivi pur stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (ad esempio, nella categoria dei trasporti, attività professionali, agricoltura, salute, costruzioni, ristorazione), variando il loro numero a seconda di come si calcoli il “lordo” dei 9 euro, in quanto, meno elementi retributivi vengono in essi inclusi, più si alza la soglia della retribuzione netta e più si amplia il numero dei contratti collettivi i cui livelli salariali di inquadramento più bassi possono risultare inferiori ai suddetti nove euro di legge.
Questo aspetto solleva un problema molto delicato in quanto sostanzialmente mette “sotto accusa” proprio le maggiori organizzazioni sindacali che in alcune categorie non sarebbero riuscite a “strappare” alla controparte una retribuzione che, secondo le forze politiche che propugnano il salario minimo legale (alle quali si è sorprendentemente ora aggiunta anche la CGIL), non è da ritenere dignitoso, tanto da essere considerato salario “povero”.
Sicché, in caso di introduzione di una tale misura di salario minimo legale, anche le clausole dei suddetti contratti collettivi, che prevedono tali retribuzioni, verrebbero travolte dalla nullità ai sensi dell’art. 1419 cod. civ., con l’effetto di eliminare tutti gli ultimi (o più bassi) livelli di inquadramento per interi settori e categorie merceologiche.
Si assisterebbe così alla rottura del tradizionale self restraint dei giudici nei confronti dei risultati dell’autonomia collettiva “seria” in relazione alla misura dei valori salariali più bassi. Fino ad ora, come è noto, raramente si sono avute sentenze di legittimità in tal senso, tanto da far teorizzare una sorta di sistema erga omnes giurisprudenziale o di una insindacabilità delle specifiche valutazioni dell’autonomia collettiva, pur in assenza di una riserva normativa in tal senso, essendo appunto prevalsa l’idea che la retribuzione collettiva si presume comunque adeguata (per tutte, Cass. S.U. 29 gennaio 2001, n. 38). Viceversa, con il salario minimo legale, verrebbe messa in discussione proprio questa presunzione, e cioè la capacità di quei contratti collettivi che prevedono le retribuzioni inferiori ai nove euro, pur stipulati dalle maggiori organizzazioni sindacali, di assolvere a quella funzione di “sovranità salariale”, come si è visto da sempre assegnata loro dalla giurisprudenza.
Tutto ciò avrebbe anche l’effetto di determinare una sorta di delegittimazione, un vulnus di credibilità, dei maggiori sindacati e di fiducia dei lavoratori nei loro confronti. Qui, infatti, il “sostegno” della legge, che verrebbe in soccorso sul salario minimo, sarebbe di natura ben diversa da quella che venne attuato con lo Statuto dei lavoratori, trattandosi allora del riconoscimento di diritti strumentali ad una efficace azione del sindacato nei luoghi di lavoro, ma non dell’esautorazione dei risultati di tale attività, oltretutto a livello di categoria, dove il sindacato dovrebbe essere più forte. Peraltro, alla luce di queste considerazioni, non può non destare meraviglia il mutamento di posizione della CGIL, che, a partire dal suo recente congresso, si è schierata a favore dell’iniziativa legislativa delle opposizioni, ammettendo così la propria debolezza in quelle categorie.
Occorre altresì tener conto che questa esautorazione della contrattazione collettiva dalla funzione di determinare la retribuzione sufficiente, anche se inferiore ai nove euro all’ora, potrebbe collidere con l’orientamento della Consulta secondo cui l’immediata percettività della tutela costituzionale dell’autonomia collettiva impedisce al legislatore di cancellarne gli esiti o contraddire la libertà delle scelte sindacali (Corte cost., 24 giugno 2015, n. 178; Corte cost. 7 febbraio 1985, n. 34). Ė proprio questo invece l’effetto che si determinerebbe con il salario minimo legale, in quanto verrebbero falcidiati tutti i livelli di inquadramento più bassi che si trovano sottosoglia del salario minimo legale, pur, si ripete, previsti dai contratti collettivi non definibili certo come “pirata”.

4. Il problema dell’assenza di margine economico per i nove euro l’ora e le differenziazioni territoriali del costo della vita.
L’altro aspetto che merita attenta riflessione è di ordine economico, e si basa sull’ipotesi inversa della precedente; non si può infatti escludere che in alcuni di quei settori in cui vi è una retribuzione inferiore ai nove euro all’ora, pur prevista dai contratti collettivi “seri”, i sindacati maggiori abbiano invece svolto appieno il loro ruolo e siano riusciti ad ottenere il salario massimo possibile in quelle situazioni date e per quelle determinate qualifiche che vengono collocate al livello più basso della scala classificatoria. Sicché viene da chiedersi quale impatto possa avere su questa situazione l’introduzione rigida per legge di una misura di retribuzione superiore, uniforme per tutti, di salario minimo.
Non è un caso che nel disegno di legge in questione viene inserito, alla fine, un articolo in cui si prevedono “benefici” a favore dei datori di lavoro per l’adeguamento del trattamento economico minimo orario, da inserire con la legge di bilancio, cioè a carico della spesa pubblica. E così, “in cauda venenum”, emerge da tale proposta che l’adeguamento salariale risponde alla logica dei sussidi e va ad alterare quella che è la realtà di quel determinato mercato, potendo causare effetti distorsivi tipo il noto bonus edilizio del “110 per cento”.
Nelle suddette situazioni non si può neppure escludere che, in alcune aree geografiche dal basso costo della vita, le retribuzioni sottosoglia consentano ugualmente una vita libera e dignitosa al lavoratore ed alla sua famiglia. Questo aspetto è scivoloso, ma ciò non toglie che esso sia un dato di realtà, sicché la legge cancellerebbe del tutto la possibilità per le parti sociali di assegnargli rilevanza. Al riguardo, valga per tutti un esempio: il contratto collettivo provinciale di lavoro per gli operai agricoli e florovivaisti della provincia di Latina del 5 giugno 2021, sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil, Confagricoltura e Coldiretti (quindi sicuramente non un contratto “pirata”), prevede una retribuzione oraria per la qualifica di raccoglitore di funghi di € 7,35 lordi. In quella zona è molto probabile che un affitto costi la metà rispetto a Milano, e così via, fino all’inferiore costo del caffè al bar. Anche in giurisprudenza, in situazioni simili, è affiorata alle volte questa ragionevole differenziazione nei casi di non applicabilità diretta del contratto collettivo, allorquando i giudici hanno tenuto conto, nel determinare equitativamente la retribuzione sufficiente, di particolari situazioni ambientali relative al minor costo della vita. È noto che una simile differenziazione è sempre stata osteggiata dalle organizzazioni sindacali; ma, alla base di questa contrarietà, oltre al timore che essa incida negativamente sulla unitarietà del contratto collettivo nazionale, vi è anche un misto di preconcetti e opzioni ideologiche, quasi che un minor costo della vita in una determinata zona costituisca una sorta di fattore di discriminazione per i lavoratori che vi operano rispetto a zone più “ricche” ma più costose.
Alla luce delle suddette riflessioni, quella del salario minimo legale rischia di essere una scorciatoia semplicistica, anche se apparentemente appare una comoda soluzione. Ricorda, come tecnica di approccio a problemi complessi, la vicenda del reddito di cittadinanza.
Occorre dunque ribadire che nel nostro ordinamento esiste una “via italiana” al salario minimo adeguato maggiormente rispettosa della Costituzione, ed essa si ricava appunto dall’architettura costituzionale in base al combinato disposto dell’art. 39, commi 2, 3 e 4, e dell’art. 36 Cost. Tant’è vero che un emendamento a favore della legislazione sui minimi salariali venne respinto nel dibattito tra i costituenti, i quali, nel non stabilire una riserva di legge a favore dell’autonomia collettiva, non potevano certo prevedere che non venisse attuato uno dei due pilastri su cui si reggeva il sistema della determinazione della retribuzione, e cioè il procedimento di estensione erga omnes della contrattazione collettiva con la connessa misurazione della reale rappresentatività degli agenti sindacali, da cui è derivato un ordinamento sindacale di fatto profondamente diverso da quello sancito dalla Costituzione.
Gli effetti di una attuazione dell’art. 39, o di una eventuale e parziale sua modifica con legge costituzionale, consisterebbero, non solo nell’eliminazione del problema dei contratti pirata, come si è visto, ma anche nel rafforzamento della autorevolezza dei sindacati, i quali si porrebbero come agenti negoziali al tavolo delle trattative forti della loro rappresentanza effettiva e “certificata”.

5. La valorizzazione dell’efficacia erga omnes della contrattazione collettiva da parte della Direttiva dell’Unione Europea sui salari adeguati.
Anche la direttiva europea n. 2022/2041 del 19.10.2022, sui salari minimi adeguati nell’Unione europea, non sembra sponsorizzare la soluzione di legge, come invece alle volte si è erroneamente sostenuto. infatti, essa riconosce l’importante principio secondo cui la tutela garantita dal salario minimo può essere fornita anche mediante contratti collettivi, come si evince dall’art. 1, comma 2, della Direttiva, il quale afferma chiaramente che “la presente direttiva fa salva la scelta degli Stati membri di fissare salari minimi legali o promuovere l’accesso alla tutela garantita dal salario minimo fornita da contratti collettivi”. Il comma 4, precisa ulteriormente che nessuna disposizione della direttiva può essere interpretata in modo tale da imporre a qualsiasi Stato membro l’obbligo di introdurre un salario minimo legale, laddove la formazione dei salari sia garantita esclusivamente mediante contratti collettivi.
Anche secondo la Direttiva l’adeguatezza dei salari può, dunque, essere garantita anche dalla sola contrattazione collettiva, non occorrendo necessariamente l’introduzione di salari minimi stabiliti dalla legge. Anzi, dai “considerando” emerge che nel 2018, in nove Stati membri in cui vige il salario minimo legale, questo non costituiva un reddito sufficiente a raggiungere la soglia di rischio povertà; mentre gli Stati membri caratterizzati da una elevata copertura della contrattazione collettiva tendono ad avere una bassa percentuale di lavoratori a basso salario e salari minimi elevati.
Per questa ragione la Direttiva si muove anche su di una linea promozionale della contrattazione collettiva con efficacia generalizzata. Al riguardo, vi è una previsione che potrebbe rappresentare un impulso a realizzare finalmente la attuazione dell’art. 39 Cost giacché dispone che gli Stati membri che non hanno una contrattazione collettiva erga omnes definiscano “un piano di azione per promuoverla (4, comma 2).
La Direttiva si occupa di un altro aspetto critico della determinazione per legge dei salari, costituito dalle modalità dell’adeguamento nel tempo del salario minimo stabilito per legge, stabilendo e/o suggerendo meccanismi per l’aggiornamento, in quanto, nei paesi in cui esso ha avuto attuazione, ha evidenziato forti rigidità anche sotto questo profilo.
In Italia, la Proposta di legge dell’opposizione, all’art. 5, istituisce una Commissione, appunto “per l’adeguamento del valore soglia del trattamento minimo orario”, la quale, con cadenza annuale, “valuta e determina” l’aggiornamento, che poi viene recepito da un decreto ministeriale. Sono intuitivi i dubbi di legittimità e di opportunità che può sollevare la scelta di affidare ad una commissione la determinazione del salario minimo per i milioni di lavoratori subordinati italiani, a cominciare dalla eccessiva mortificazione dell’autonomia collettiva che ciò comporta, esautorata non dalla legge ma addirittura da un atto amministrativo, a nulla valendo che in quella commissione sono presenti anche le parti sociali, in quanto si tratta di una tecnica o di un modello completamente diverso da quello voluto dalla costituzione con l’art. 39. Inoltre, basti pensare a tutti i problemi che potrebbero sorgere in ordine alla impugnabilità di un tale decreto ministeriale, con la possibile conseguenza che il Tar Lazio potrebbe essere chiamato a decidere sulla legittimità della misura del salario minimo italiano. Tutto ciò fa capire come tale strumento si porti dietro le criticità e le rigidità legate al voler utilizzare la legge in una materia, almeno da noi, tipicamente e da sempre affidata alla autonomia collettiva.

6. Le altre misure efficaci per contrastare i bassi salari.
In conclusione, il problema dei bassi salari può trovare soluzioni prioritarie in provvedimenti di altro tipo.
Al riguardo si è condivisibilmente sottolineato che tale fenomeno, è strettamente correlato con due storiche criticità rappresentate dalla bassa produttività, da un lato, e dai bassi salari netti, dall’altro lato, in ragione dell’elevato cuneo fiscale.
In Italia la produttività è aumentata solo dello 0,33% in media l’anno, contro l’1% in Germania e lo 0,94% in Francia, Paesi spesso citati come esempi virtuosi dai fautori del salario minimo legale. Quello della bassa produttività è un problema ad eziologia multifattoriale che coinvolge aspetti strutturali, che vanno dal sistema della formazione, al mercato del lavoro, alla lentezza della giustizia civile, alle incertezze e rigidità che permeano la disciplina del rapporto di lavoro, alle carenze di investimenti soprattutto nelle nuove tecnologie, ad una politica industriale di incentivi, ecc.
Quanto alla riduzione del cuneo fiscale, si è ipotizzato, ad esempio, che una detassazione semplificata di tutte le indennità, con particolare riferimento a quelle comportanti un maggiore sacrificio da parte del lavoratore, come il lavoro notturno, festivo o prefestivo, nonché di tutti i premi, potrebbe incidere forse di più dei 9 euro lordi del salario minimo legale. Naturalmente si tratta di trovare le dovute coperture, e qui si entra nelle scelte politiche di dove indirizzare le scarse risorse disponibili.

7. Il neo-interventismo della giurisprudenza e la posizione del CNEL
Man mano che si è fatta strada la proposta di un salario minimo legale, la giurisprudenza ha progressivamente allentato il suo self restrain nei confronti della contrattazione collettiva in questa materia. Che ciò rappresenti solo una coincidenza o un rapporto causa-effetto non è dato sapere, ma si protende più per la seconda ipotesi, quantomeno a livello di precomprensione dell’interprete giudicante, anche se la giurisprudenza deve fare i conti con un suo orientamento più che quarantennale rispettoso delle determinazioni dell’autonomia collettiva.
Da questo punto di vista è emblematica la recente sentenza della Cassazione n.27711/2023 (relatore Riverso), poiché la sua motivazione si potrebbe definire del “ma anche”, continuamente oscillante tra queste due posizioni: da un lato, la tensione interventistica in questa materia; dall’altro lato gli orientamenti tradizionali tendenti ad affidare alla contrattazione collettiva tale compito anche in relazione al salario minimo. Per cui la sentenza da conto dell’orientamento che ritiene il contratto collettivo la “massima autorità salariale” e, se il giudice vuole discostarsene, “deve osservare la massima prudenza e adeguata motivazione giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese dall'assetto degli interessi concordati dalle parti sociali”.
Dall'altro lato, però, la pronuncia poi sfodera continue aperture all’ intervento del giudice, suggerendo anche un apparato di tecniche valutative, o criteri (tra i quali quelli previsti dalla direttiva), per arrivare a stabilire, lui, la retribuzione sufficiente. E così, si legge che il giudice di merito gode, ai sensi dell’art. 2099 cod. civ., di una “ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione, potendo discostarsi dai minimi retributivi della contrattazione collettiva potendosi servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli collettivi” (Al riguardo, per inciso, la memoria va alla norma che utilizzava l’analoga tecnica del rinvio all’equità integrativa del giudice, e cioè l'art. 18 comma 7, Stat. lav., laddove gli assegnava il potere di stabilire o no la reintegra, che il medesimo relatore della sentenza in Cassazione qui in esame, dott. Riverso, allora giudice del tribunale di Ravenna, rimise davanti alla Corte costituzionale, ritenendo che in quel caso la disposizione assegnasse un eccessivo potere discrezionale al giudice; questione poi accolta, come è noto, dalla Consulta, che cancellò la parla “può”, e che poi soppresse anche parola “manifesta”, a seguito di altra questione di incostituzionalità, sollevata sempre dal medesimo dottor Riverso e sempre nell’ambito del medesimo processo); oppure si afferma che “nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla costituzione” , e ciò anche nei casi in cui vi sia la determinazione per via legale del salario attraverso la contrattazione.
Questo atteggiamento, che ha fatto esultare i fautori del salario minimo legale, però potrebbe poi ritorcersi anche contro di loro perché, se il giudice in questa materia ritiene suo compito attuare direttamente l’art. 36 Cost., imponendo la sua personale valutazione in ordine alla misura della retribuzione, la stessa discrezionalità potrebbe utilizzarla poi nei confronti del salario minimo legale e quindi rimettere una eventuale norma in tal senso alla Corte Costituzionale, appunto per sospetta violazione del principio costituzionale della sufficienza. Tanto è vero che più di un accenno in tal senso vi è anche nella suddetta sentenza della Cassazione, laddove si sostiene che i criteri di sufficienza e proporzionalità sono gerarchicamente sovraordinati anche ad eventuali leggi in questo senso, per cui la determinazione per via legale del salario non sarebbe comunque mai sottratta al controllo da parte del giudice di merito sul rispetto di tali principi. Del resto, non vi è da meravigliarsi di questo neo interventismo giudiziale anche in materia di salario minimo; anzi destava stupore il contrario, considerato l’atteggiamento complessivo dell’azione giudiziaria di travalicare limiti di una forzata supplenza del legislatore inerte, o di far valere valutazione assiologiche tratte direttamente dalla costituzione in riferimento a discipline legislative ritenute non coerenti con i suddetti principi, come è avvenuto largamente in relazione alla riforma del sistema rimediale dei licenziamenti.
Sicché potrebbe verificarsi la situazione in cui sarebbe la Corte costituzionale a decidere circa la misura del salario minimo ove il giudice di merito non dovesse ritenere conforme all’art. 36 Cost. un determinato importo di retribuzione oraria fissata dalla legge. Si arriverebbe quindi al totale stravolgimento dell'architettura e dell'assetto costituzionale, a cui era sotteso il collegamento, invisibile ma reale, tra l’art. 39, commi 2, 3, 4 e l’art. 36, comma 1 Cost. Questa trama era proprio finalizzata a dare maggiore certezza nell’applicazione dell’art. 36, evitando che il giudice potesse invadere la sfera tutelata dall'art. 39 Cost. mediante il controllo sul livello retributivo fissato dai contratti colletti, laddove direttamente applicabili, purché effettivamente tali, cioè di “qualità”, e quindi effettivamente rappresentativi, come previsto dalla parte inattuata dell’art. 39, con esclusione dunque di quelli stipulati da sindacati scarsamente rappresentativi. Tutto ciò nella consapevolezza del costituente che l’autonomia collettiva fosse la fonte più accreditata per l’individuazione del variabile punto di equilibrio tra interessi contrapposti in ciascuna fase dello sviluppo economico. Sicché avrebbe poco senso, e fonte di inevitabile soggettivismo, una verifica giudiziale di conformità della retribuzione collettiva “di qualità” rispetto ai principi di sufficienza e proporzionalità che in essa si inverano. Ovviamente ove ci fossero situazioni in cui una pluralità di contratti collettivi insistono nella medesima categoria, diventerebbe inevitabile per il giudice effettuare una selezione, ma sempre nell’ambito e nel rispetto della determinazioni dell’autonomia collettiva, dovendo qui scegliere il giudice quella più idonea, che probabilmente consiste nel contratto collettivo stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi, così come previsto dal legislatore ai fini della retribuzione imponibile previdenziale.

Il recente documento del CNEL sul salario minimo sembra consapevole di questo rischio laddove raccomanda di congegnare gli interventi in materia in modo tale da evitare “la deriva giudiziale della retribuzione adeguata”, avendo percepito che “la stessa giurisprudenza si candida ora a fissare le tariffe minime adeguate”.
La Commissione del CNEL, infatti, per affrontare il problema del salario adeguato in Italia, opta per la condivisibile “via tradizionale” della contrattazione collettiva denominata opportunamente “di qualità” in quanto frutto dell’accordo tra agenti contrattuali significativamente rappresentativi, i quali si assumono gli onori ma anche gli oneri e le responsabilità di individuare il migliore punto di equilibrio della domanda e dell’offerta di lavoro in relazione alla determinazione della retribuzione.
Secondo il CNEL l’intervento legislativo dovrebbe essere limitato solo ad interventi ad hoc per particolari situazioni introducendo un’adeguata normativa di sostegno. Sempre l’intervento normativo dovrebbe dirigersi a stabilire per legge il principio per cui la retribuzione ex art. 36 è data non solo dal minimo tabellare ma dal trattamento economico complessivo spettante al lavoratore in applicazione dei contratti collettivi di maggiore diffusione, prevedendo espressamente che è rispettosa della norma costituzionale quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali più rappresentative, anche in riferimento alla retribuzione minima adeguata.
In questa condivisibile valorizzazione dell’autonomia collettiva anche attraverso la legge, resta però inespresso o nell’ombra il problema dell’attuazione dell’art. 39, con le conseguenti criticità in termini di costituzionalità di una suddetta normativa che non faccia i conti appunto con la ben nota sentenza della Corte costituzionale n. 106 del 1962, che la successiva sentenza della Consulta del 2015, non è in grado di superare, come si è visto.
Quanto all’emendamento dell’ultima ora presentato al CNEL, ma non accolto, secondo cui il salario minimo legale dovrebbe essere utilizzato “a favore dei lavoratori poco tutelati dal CCNL”, esso ripropone sempre il solito problema di fondo: chi sono “i lavoratori poco tutelati dal CCNL?”. Quelli a cui vengono applicati i contratti collettivi pirata? Ed allora la risposta giusta è quella di dare efficacia erga omnes ai contratti collettivi qualificati; oppure sono quelli a cui si applicano contratti collettivi qualificati ma che prevedono una retribuzione di poco inferiore ai 9 euro l’ora? In tal caso, il salario minimo legale andrebbe a mortificare e a sostituirsi agli sforzi di una rivendicazione sindacale rappresentativa, e quindi anche responsabile, che in quel determinato settore e per quelle specifiche qualifiche collocate al livello più basso della scala classificatoria, è riuscita a strappare la migliore retribuzione possibile in quel contesto. Infine, ci sono i casi estremi di contrattazione collettiva, pur qualificata, che prevedono retribuzioni di gran lunga inferiori ai 9 euro. Si tratta di un fenomeno ridotto, per risolvere il quale non si può emanare una normativa generalizzata valida per tutti, ma occorrono interventi specifici ad hoc.

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