TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Il dibattito che, a cavallo tra le due ultime legislature, si è sviluppato in merito

all’opportunità, all’utilità e ai contenuti di una legge che, in attuazione dell’art. 36 della Costituzione, fissi il minimo salariale per i lavoratori subordinati, ha suscitato una progettualità legislativa singolare nel suo dipanarsi, ma soprattutto emblematica di due diversi approcci metodologici al tema.

Mentre la pdl presentata dalle opposizioni quasi unanimi, pur contemplando il rinvio alla contrattazione collettiva “qualificata”, era incentrata sulla fissazione di una soglia minima oraria non derogabile (in peius) dalla stessa contrattazione collettiva, la posizione del Governo, all’esito del passaggio consultivo davanti al CNEL, si è concretizzata in un emendamento soppressivo del minimo legale orario universale, e recante una delega legislativa finalizzata a ricondurre la retribuzione “giusta ed equa” - intesa come la “condizione economica minima da riconoscersi ai lavoratori” - al “trattamento economico complessivo minimo” previsto, “per ciascuna categoria”, dai “contratti collettivi più applicati in riferimento al numero delle imprese e dei dipendenti”.

Abbiamo già avuto modo di esprimere, su questa stessa rivista, un motivato dissenso rispetto alla prime proposte legislative avanzate in materia, e soprattutto sulla stessa necessità od opportunità di introdurre un minimo salariale per legge.

Avevamo, in particolare, rilevato l’inconsistenza della tesi secondo cui esisterebbero vaste aree di inapplicabilità (non di disapplicazione, che è problema diverso, riconducibile all’effettività e non all’efficacia) dei minimi tabellari dei contratti collettivi, dovendosi invece riconoscere la loro copertura totale, dovuta allo stesso art. 36 Cost.: infatti, proprio in virtù di tale precetto costituzionale, non esistono rapporti di lavoro che non siano coperti dal minimo tabellare di un qualche contratto collettivo individuabile, secondo un noto schema esegetico, a stregua di quel galleggiante relitto corporativo che è l’art. 2070 cod. civ..

2. A un certo punto il dibattito si è spostato, però, su un terreno più insidioso: quello della individuazione della fonte e del contenuto dell’equa retribuzione costituzionale.

Ciò è accaduto quando nel “fronte” del minimo legale è confluita la corrente favorevole creata da alcune iniziative giudiziarie che hanno impresso al dibattito un cambio radicale di prospettiva.

Per un verso, è stato incisivamente affermato ciò che era ab initio pacifico nella giurisprudenza di legittimità, senza che, per decenni, fosse necessario ribadirlo, e cioè che solo sul piano presuntivo o di tipicità sociale la retribuzione equa coincide con il minimo tabellare del ccnl, restando pur sempre imputabile al giudice il dovere di sindacare, con mezzi di raffronto oggettivi, anche di tipo statistico ed econometrico, la effettiva sufficienza del minimo tabellare stabilito dal ccnl.

Per altro verso, sulla scia di vicende non solo giuslavoristiche, che hanno riguardato specifici settori dell’economia e della contrattazione collettiva (quali, ad esempio, i servizi fiduciari, di vigilanza e pulizia, per lo più allocati in società cooperative), e discostandosi da una inveterata prassi di self-restraint rispetto all’autonomia collettiva, è accaduto che molti giudici di merito abbiano negato la congruità con l’art. 36 Cost., dei minimi tabellari stabiliti da ccnl stipulati da sindacati della cui rappresentatività “maggiore” o “comparativamente maggiore” (quali che siano il significato e la dimostrabilità probatoria di tali qualità soggettive) non si può dubitare.

Dimodoché viene meno il diffuso argomento che riconduce prevalentemente se non esclusivamente al fenomeno dei cdd. “contratti pirata” la previsione di salari significativamente inferiori a quelli stabiliti dai ccnl “ortodossi”, quando non addirittura collocati sotto la soglia di povertà (cd. working poors); con l’ulteriore conseguenza che anche l’invocazione di una riforma legale della rappresentanza e/o della rappresentatività sindacale e della contrattazione collettiva appare rimedio inidoneo, oltre che suscettibile di complicare oltremodo la vicenda del salario minimo, aggiungendovi anche i problemi progettuali e di impostazione concettuale, che gravitano sulla ipotizzata riforma (legale) delle relazioni industriali. Non sembra né necessario né opportuno, immettere la tematica del salario minimo nella complessa e annosa problematica della riforma della rappresentanza.

3. Molteplici sono i punti di vista e le sfaccettature con cui i due segnalati approcci sono stati e si possono ulteriormente declinare, ma anziché ripercorrere sentieri già tracciati (anche in questa rivista) riteniamo utile evidenziare un ulteriore profilo analitico rimasto finora in ombra, e solo sfiorato da qualche autore (per esempio e soprattutto, da Michele Tiraboschi nel noto focus Adapt del 13 giugno 2023): si tratta di interrogarsi sulla legittimità costituzionale di una norma legale che imponga, quale retribuzione “equa” (o e/o “giusta”, o comunque costituzionalmente dovuta), quella coincidente, non già - come accaduto fino a ieri - con quel “minimo tabellare” che l’accordo tra Confindustria, CGIL, CISL e UIL del 28 febbraio 2018 recante “contenuti e indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva” ha ribattezzato “trattamento economico minimo” (TEM: v. art. 5.H); bensì dal “trattamento economico complessivo” (TEC), costituito, sempre secondo la citata intesa interconfederale, dalla sommatoria tra il predetto trattamento economico minimo e “tutti quei trattamenti economici ... che il contratto collettivo nazionale di categoria qualificherà come ‘comuni a tutti i lavoratori del settore, a prescindere dal livello di contrattazione a cui il contratto collettivo nazionale di categoria ne affiderà la disciplina”.

Si consideri che nel TEM sono “da ricomprendere, fra gli altri, anche le eventuali forme di welfare”.

Ora, è ben nota la ragione per cui la retribuzione costituzionalmente dovuta ai lavoratori cui non si applichi un contratto collettivo fu ab origine individuata dai giudici in quello che oggi si denomina trattamento economico minimo, e non nel(l’odierno) trattamento economico complessivo: la ragione sta in ciò, che l’applicazione pressoché integrale della parte economica del contratto collettivo si sarebbe potuta giustificare solo nell’ambito di una sostanziale estensione erga omnes dei suoi effetti, in violazione dell’art. 39 della Costituzione.

Né si dica che il precetto costituzionale non limita la retribuzione equa al solo minimo tabellare previsto dai ccnl, e dunque non impedisce di adottare come riferimento parametrico un ambito retributivo più ampio, fino a comprendere il trattamento economico complessivo.

Si consideri, infatti, che l’operazione giurisprudenziale sopra ricordata ha trovato e trova nell’autonomia collettiva - e non nella legge - la sponda indispensabile per attuare l’art. 36 Cost. in maniera non sindacalmente invasiva: a ben vedere, la ragione dell’esistenza generalizzata, nei contratti collettivi di categoria, di una voce retributiva denominata “minimo tabellare”, o “paga base”, o “trattamento economico minimo”, sta proprio a testimoniare la volontà dell’autonomia collettiva di “dialogare” direttamente col precetto costituzionale, senza confondere il problema della retribuzione equa con quello dell’efficacia erga omnes del contratto collettivo; come pure di determinare liberamente (ai sensi del 1° comma della Costituzione) la struttura e l’articolazione della contrattazione collettiva.

Sicché l’imposizione ex lege dell’applicazione ai rapporti di lavoro dell’ampio coacervo di voci retributive ricompreso nel “trattamento economico complessivo” (che, in sostanza, esclude solo i compensi variabili) implicherebbe anche una limitazione dell’autonomia collettiva sindacabile sotto il profilo della compressione della libertà sindacale.

Ciò si rivela esemplificativamente e con particolare evidenza ove si consideri che nel “trattamento economico complessivo” (e non nel “trattamento economico minimo”) l’autonomia collettiva ricomprende una materia, quale il welfare aziendale, che è per sua natura estranea alla retribuzione, consistendo in una forma di welfare contrattuale.

Del resto, la problematicità del punto qui in discussione trapela dalla stessa incertezza semantica dell’espressione che l’emendamento governativo utilizza per definire il parametro dell’equa retribuzione: il sintagma “trattamento economico complessivo minimo”, infatti, o è una sorta di crasi irrisolta del “trattamento economico complessivo” e del “trattamento economico minimo”, ovvero è la mera e superflua precisazione che il parametro in questione è inderogabile in peggio, ma sempre derogabile in meglio.

In effetti - ma si tratta di considerazione non diffusa - , la Costituzione non conosce una retribuzione minima, ma una retribuzione equa, che diventa minima solo per il suo porsi come inderogabile in peggio dalla contrattazione collettiva.

Approfondendo la questione, si potrebbe osservare che la limitazione, fino ad oggi indiscussa, dell’equa retribuzione, alla paga base contrattuale, si spiega alla luce del fatto che la contrattazione collettiva, dialogando - s’è detto - con la giurisprudenza costituzionale, costantemente contempla una specifica, ma fondamentale, voce retributiva che si qualifica inequivocabilmente come spettanza basica a fronte di una prestazione che sia espressione di una certa professionalità e resa indipendentemente da particolari circostanze di luogo, tempo o modalità.

Ciò rafforza l’idea che alla legge possa essere rimessa non già la determinazione dell’equa retribuzione, bensì un minimo inderogabile in peius dalla contrattazione collettiva, purché calibrato in maniera da non generare gli effetti distorsivi evidenziati anche su questa rivista dagli economisti.

Tale approccio si qualificherebbe in termini di pieno rispetto dell’autonomia collettiva, perché, pure in presenza del minimo inderogabile legale, la retribuzione equa resterebbe fissata dalla contrattazione collettiva - salva la sua correzione in caso di insufficienza.

4. Denota una certa confusione sistematica altresì quella che ai più e a caldo è apparsa come la novità più importante dell’emendamento governativo alla pdl AC 1275/2023: ivi si propone, infatti, di sostituire il classico, ma abusato e ad oggi non risolutivo riferimento alla maggiore rappresentatività dei soggetti stipulanti i contratti collettivi cui attingere l’equa retribuzione, con l’inedito - ma forse eccessivamente “prassista” - riferimento ai “contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati in riferimento al numero delle imprese e dei dipendenti”: così trasferendosi la selezione dal piano dei soggetti a quello de(lla diffusione de)i contratti.

A tale proposito ci limitiamo in questa sede a esprimere perplessità non tanto sul piano della concreta praticabilità del meccanismo selettivo, che dovrebbe essere agevolata dall’accordo di collaborazione tra CNEL e INPS finalizzato al censimento dei CCNL e alla certificazione del numero delle aziende che li applicano e dei lavoratori il cui rapporto di lavoro è regolato da tali contratti: potendosi semmai su questo piano obiettare che l’obbligo di comunicazione del ccnl applicato non implica né presuppone l’obbligo di applicare un contratto collettivo.

Piuttosto, ci sembra che la suggerita sostituzione del meccanismo selettivo del contratto collettivo cui attingere la giusta retribuzione, non superi l’obiezione radicale contro cui sembra essersi recentemente infranto il dogma dell’autorità salariale della contrattazione collettiva: ossia la concreta possibilità - fino a poco tempo fa considerata un ossimoro - che anche la retribuzione stabilita dai contratti collettivi (quali e quanto applicati essi siano) possa essere insufficiente ex art. 36 Cost..

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