testo integrale con note e bibliografia

1. La proposta di legge recante «Disposizioni per l’istituzione del salario minimo» (A.C. 1275) presentata congiuntamente dalle forze politiche di opposizione il 4 luglio 2023 è stata definitivamente cassata da un emendamento di maggioranza approvato in Commissione Lavoro della Camera dei Deputati il 28 novembre 2023. Nella prima settimana di dicembre il testo sarà votato in plenaria. L’operazione compiuta dai partiti vicini al Governo è piuttosto irrituale: il disegno di legge originario è stato interamente sostituito da una serie di principi di delega che hanno ribaltato non tanto le finalità («l’attuazione del diritto di ogni lavoratore e lavoratrice a una retribuzione proporzionata e sufficiente, come sancito dall'articolo 36 della Costituzione», come si legge al primo comma) , quanto le modalità per conseguirle.
L’oramai noto e dibattuto riferimento ai 9 euro lordi da imporsi come «trattamento economico minimo orario stabilito dal contratto collettivo nazionale di lavoro (articolo 2, comma 1 della proposta di legge A.C. 1275) è stato superato dalla definizione «per ciascuna categoria, [de]i contratti collettivi più applicati in riferimento al numero delle imprese e dei dipendenti, al fine di prevedere che il trattamento economico complessivo minimo del contratto maggiormente applicato sia, ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione, la condizione economica minima da riconoscersi ai lavoratori nella stessa categoria» . Non si tratta più di un “salario minimo legale” a cifra fissa e stabilità dal legislatore, bensì di un “trattamento economico complessivo minimo” (o, come ha voluto chiamarlo la maggioranza parlamentare in esplicito richiamo alla Costituzione: “salario equo e dignitoso”) di importo inevitabilmente variabile perché determinato dalla contrattazione collettiva.
La differenza non è di poco conto. Se l’opposizione è da mesi che promuove una soluzione sostitutiva di quanto stabilito nella libera contrattazione e, perciò, in ultima istanza, diffidente verso la capacità delle parti sociali di difendere il potere di acquisto dei lavoratori (si pensi ai ripetuti richiami, seppure sovente poco informati , al contratto collettivo dei servizi fiduciari come paradigma del fallimento dell’autonomia negoziale nel suo discusso ruolo di «autorità salariale»), il testo approvato alla Camera pare confermare la via della responsabilizzazione della contrattazione, tanto da individuare il trattamento economico complessivo minimo da riconoscersi a tutti i lavoratori in quello fissato dal contratto collettivo più applicato nella categoria di riferimento. La modalità di scioglimento dell’intricato nodo del lavoro povero scelta dall’Atto della Camera n. 1275 è la medesima indicata dalla recente giurisprudenza di Cassazione ; il Governo, invece, ha scelto di procedere sul sentiero indicato dalla larga maggioranza delle forze sociali che siedono al CNEL nel documento approvato dallo stesso Parlamentino il 12 ottobre 2023 . Con giornalistica sintesi si può posizionare la proposta della opposizione nell’alveo degli interventi correttivi/intrusivi (dipende dai punti di vista…) della legge sulla contrattazione collettiva e la proposta del Governo sulle orme della affermazione/rassegnazione (come sopra) della/alla piena autonomia della contrattazione collettiva.
Non vi è quindi particolare differenza circa le ragioni dell’azione (il superamento del lavoro povero), bensì sulla considerazione che questo risultato possa essere conseguito in autonomia dalle parti sociali. D’altra parte la stessa direttiva (UE) 2022/2041 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nella Unione europea ha messo sullo stesso piano l’intervento legislativo e quello negoziale.
2. Pur nella complessità della materia trattata, la linearità delle posizioni in campo anticipava il possibile risultato finale della querelle politica: soppressione dell’emendamento di opposizione e piena conferma del vigente funzionamento della contrattazione collettiva, come autorevolmente suggerito dallo stesso CNEL: «si suggerisce pertanto l’adozione di un piano di azione nazionale a sostegno della contrattazione collettiva per superare aree e situazioni di criticità» poiché «un salario minimo già esiste ed è quello dei contratti collettivi che, diversamente da una legge sul salario minimo, tutela tutti i lavoratori di tutti i livelli e non solo i profili professionali più bassi» (…). «Si raccomanda pertanto di congegnare gli interventi in materia in modo tale da evitare sia una deriva giudiziale della retribuzione adeguata che una deriva politica della materia e, pertanto, avviando a soluzione gli snodi problematici che impediscono il virtuoso sviluppo della contrattazione collettiva di qualità. Si raccomanda altresì di garantire il regolare funzionamento della contrattazione collettiva non attraverso interventi legislativi, bensì, attraverso la valorizzazione di accordi interconfederali che, nel rispetto della libertà contrattuale, permettano di determinare a livello settoriale e di categoria il salario giusto, dando piena legittimazione alla pretesa della contrattazione collettiva, se condotta da attori qualificati e realmente rappresentativi, di concorrere alla regolazione del mercato del lavoro» .
Così non è stato. La maggioranza, pur muovendosi nella direzione di massima indicata dal CNEL, ha preferito optare per l’azione legislativa, presentando e approvando l’emendamento a prima firma Rizzetto, costruito attorno al riconoscimento erga omnes del «trattamento economico complessivo minimo» (terminologia tratta dal documento del Consiglio delle parti sociali) del contratto collettivo nazionale più applicato nella categoria di riferimento. Perché l’automatismo individuato possa funzionare, il quinto principio di delega dell’emendamento approvato prevede la costruzione di «strumenti di misurazione che si basino sulla indicazione obbligatoria del codice del contratto collettivo applicato al rapporto nei flussi UNIEMENS, nelle comunicazioni obbligatorie e nelle buste paga, ciò anche al fine del riconoscimento di agevolazioni economiche connesse ai rapporti di lavoro e contributive» .
Il superamento del dibattito sulla rappresentatività («maggiore» per la legislazione antecedente alla fine degli anni Novanta, «comparata» per quella successiva, allora già preoccupata di superare con questa dizione la concorrenza dei c.d. contratti pirata) per il tramite del meccanismo della misurazione della diffusione è stata per qualche anno una ipotesi considerata dalla dottrina, ma sempre ignorata dal legislatore e dalle parti sociali . Qualora la delega al Governo appena approvata fosse esercitata nei tempi fissati (sei mesi), questo diventerebbe invece il criterio per l’individuazione dei contratti collettivi ove sono contenuti i trattamenti retributivi di riferimento. Una novità assoluta per il diritto del lavoro nostrano.
3. Questi, seconda novità rispetto alla proposta della opposizione, non sono da individuarsi nel minimo tabellare (il trattamento economico minimo al quale, con una certa approssimazione, si riferiva la proposta di legge dell’opposizione), bensì nel «trattamento economico minimo complessivo», ossia nella somma di tutte le voci retributive, dirette e indirette, che il contratto collettivo riconosce come obbligatorie per la collettività lavoratori del settore, comprese le prestazioni di welfare contrattuale e i trattamenti differiti o di garanzia. Restano escluse da questo calcolo le componenti accessorie, variabili o riconosciute solo a una parte di lavoratori. Invero la delega non definisce il termine, ma l’utilizzo della medesima espressione coniata dal CNEL rende ragionevole il rimando alla definizione fornita in quella sede.
Se la tenuta giuridica e operativa del nuovo criterio della “maggiore applicazione” è tutta da verificare, anche la tenuta “politica” non è da darsi per scontata: è prevedibile la reazione di molte associazioni datoriali oggi pienamente rappresentative, preoccupate di vedere il loro ruolo indebolito qualora questo originale principio diventasse legge. Non poche sono infatti le sovrapposizioni dei perimetri contrattuali e questa improvvisa e brusca opera di razionalizzazione potrebbe mettere in competizione sistemi contrattuali storicamente molto diversi per logiche e trattamenti. Nel nostro ordinamento, infatti, anche in conseguenza dell’articolo 39 della Costituzione e della sua mancata attuazione, la categoria è identificata dallo stesso contratto collettivo: assai frequenti sono le ripetizioni settoriali, oggi irrilevanti ai fini della tenuta rappresentativa del contratto, poiché questa dipende dalla rappresentatività comparata delle parti sindacali che lo firmano, come ri-chiarito da ultimo dall’articolo 51 del d.lgs. 81/2015. Invero nella quantificazione della rappresentatività dovrebbero essere coinvolte anche le associazioni datoriali, ma mai è stata trovata una soluzione soddisfacente per la loro pesatura, nel difficile equilibrio tra numero di imprese iscritte e numero di dipendenti assunti dalle stesse.
Interviene oggi, a sorpresa, il nuovo criterio della “maggiore applicazione”, che pare trascinare con sé la necessità di un intervento legislativo definitorio del termine “categoria”, operazione assai delicata sotto il profilo della legittimità costituzionale. L’effetto potrebbe essere polarizzante: allorquando la definizione di categoria fosse troppo ampia, ma rigida, diversi contratti rappresentativi secondo i criteri tradizionali potrebbero essere schiacciati sui trattamenti dei contratti più “popolosi” ; viceversa, allorquando si lasciasse spazio di definizione solo ai firmatari dei contratti stessi, è facile prevedere la costruzione di perimetri assai ristretti (i produttori di estintori, i frigoristi, gli ascensoristi etc…) per fissare come riferimenti CCNL che oggi sarebbero ricompresi in un settore più ampio, non “scalabile” da associazioni di rappresentanza minori.
Non si dimentichi, inoltre, la delicatezza politica del passaggio da un criterio di maggiore/comparata rappresentanza che assegna alle forze sindacali l’ultima parola sul riconoscimento della controparte, a un criterio di maggiore applicazione che, al contrario, dipende unicamente dalla scelta del contratto collettivo operata dalla impresa.
Nei prossimi sei mesi il Governo sarà chiamato ad operare tenendo conto della storia del nostro sistema di relazioni industriali, che non merita di essere svenduto “un tanto al chilo”. Nel diritto del lavoro il diavolo si nasconde spesso nei dettagli e la delega in approvazione alla Camera, se maneggiata senza cura, rischia di esplodere tra le mani della politica e delle parti sociali, generando scenari oggi non facilmente immaginabili.

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