Testo integrale con note e bibliografia

1. Sono passati diciotto anni da quando Marco Biagi non è più tra noi, ma la comunità dei giuslavoristi (e, ovviamente, non solo) non ha mai smesso di ricordarlo. E’ un ricordo profondamente sentito, quanto dovuto, alla memoria di uno studioso barbaramente ucciso per le idee in cui credeva; ed è un ricordo che è tenuto costantemente vivo proprio grazie a quelle idee che Marco ci ha lasciato, idee che non potevano e non possono essere spente, e che anzi restano ancora oggi inesauribile punto di riferimento e di stimolo, dal quale il dibattito scientifico non può prescindere.
Perché le idee di Marco Biagi sono ancora così attuali? E’ semplice, lo sono perché Marco non era solo un colto e raffinato giurista; tutti coloro che hanno avuto l’occasione di commemorarlo hanno già ricordato come egli fosse anche un attento osservatore della realtà, dotato di spirito pragmatico, profondo conoscitore – il più bravo, secondo me, della sua generazione – delle esperienze straniere, europee e internazionali, e della comparazione tra sistemi giuridici.
L’attenta osservazione della realtà socio-economica gli consentiva di individuare ed affrontare i problemi nella loro concretezza, senza il filtro di veli ideologici. Il suo pragmatismo lo portava, poi, ad andare oltre la riflessione teorica, alla ricerca di soluzioni giuridiche in grado di incidere nella realtà, mettendo la sua sapienza al servizio delle istituzioni. Infine, l’apertura al confronto con gli altri ordinamenti gli consentiva di intravedere soluzioni senz’altro innovative per il nostro ambiente giuridico, certamente non autoreferenziali o “provinciali”.
2. Non è un caso che, al centro della sua elaborazione, si colloca la prospettiva del mercato del lavoro; così come non è un caso che proprio dall’analisi del mercato del lavoro prendeva le mosse il “libro bianco” dell’ottobre 2001, nella cui stesura Marco ebbe un ruolo di assoluto protagonista e nel quale ha trovato espressione - sotto forma di proposte aperte alla discussione - il suo progetto organico di riforma.
L’attenzione al “mercato” del lavoro non discendeva di certo dal fatto che Marco accedesse all’idea che i lavoratori fossero una “merce”, in realtà, proprio la specificità dell’oggetto (il “lavoro”) di quel particolare mercato evidenzia la sua cruciale dimensione sociale (che non è rinvenibile in alcun altro mercato in cui si svolgono rapporti di puro scambio commerciale, e) dalla cui regolazione deriva la possibilità di concreta ed effettiva tutela della persona, che era l’interesse e l’obiettivo primario della progettualità di Marco.
Del resto, l’uso del termine “mercato” riferito al lavoro è divenuto comune non solo nel linguaggio atecnico, ma negli stessi documenti delle istituzioni europee, al fine di designare convenzionalmente lo specifico complesso di sistemi, strutture e regole attraverso le quali avviene l’incontro tra chi domanda e chi offre lavoro. E, soprattutto, era da quelle istituzioni, alle quali Marco guardava con attenzione (e con le quali aveva avuto importanti occasioni di collaborazione), che proveniva un chiaro e forte invito a fare, di quel mercato, oggetto di interventi riformatori ritenuti necessari.
3. Il progetto di Marco, quindi, prendeva le mosse non da un obiettivo di riduzione delle tutele, come qualcuno ha assurdamente cercato di sostenere, bensì dall’oggettiva constatazione delle inefficienze e delle iniquità del mercato del lavoro, così come questo storicamente si è venuto a realizzare in Italia.
E’ utile, al riguardo, ricordare sommariamente qualche dato per collocare nel giusto contesto quel progetto. All’inizio del 2000, nonostante il tasso di disoccupazione fosse sceso sotto il 10%, il tasso di occupazione (53%) rimaneva il più basso tra tutti i paesi membri dell’Unione e si collocava ben 10 punti percentuali al di sotto della media europea; dati questi particolarmente preoccupanti, perché significa che quasi la metà della popolazione italiana in età lavorativa non riuscita a trovare un lavoro o non stava cercando un lavoro (o, quantomeno, un lavoro regolare); ed è noto che è dall’occupazione complessiva che si misura la ricchezza di un paese (che a sua volta, come è altrettanto noto, è la variabile da cui dipende anche la possibilità di finanziare le politiche sociali).
Si aggiunga, poi, che un’analisi più dettagliata consentiva anche di evidenziare, nell’ambito di quei dati occupazionali, l’esistenza di profondi squilibri e divari legati alle diverse aree territoriali ed al genere e all’età delle persone (in quanto le maggiori criticità erano concentrate nel Mezzogiorno, tra i giovani, gli anziani, e le donne). Insomma, il mercato del lavoro italiano risultava idealmente spaccato a metà, tra gli insiders pienamente protetti, a volte anche con eccessi di rigidità e garanzie (come Gino Giugni avvertiva già in un suo scritto del 1982), e gli outsiders, lasciati ai margini (o del tutto esclusi) dallo Stato sociale. Con riferimento a questi ultimi, del tutto inaccettabili risultavano le dimensioni raggiunte dal lavoro nero (che, secondo le stime dell’epoca, riguardava tre milioni e mezzo di persone: altro record negativo in Europa) e da quello irregolare, con il dilagare delle finte collaborazioni coordinate e continuative utilizzate per mascherare rapporti di lavoro di natura subordinata.
4. In questo contesto, la Commissione Europea aveva rilevato come nel complesso l’Italia non avesse correttamente attuato la Strategia Europea sull’Occupazione prevista dal processo di Lussemburgo e che, tra l’altro, l’utilizzazione nel nostro Paese di forme di lavoro non standard fosse ancora molto bassa. L’Italia veniva, quindi, chiamata a perseguire una riforma delle politiche del lavoro volta a favorire la creazione di una maggiore e migliore occupazione (more jobs e better jobs), e, a questo fine, nell’ambito del metodo del “coordinamento aperto”, era stato assegnato al nostro Paese anche un concreto obiettivo di natura quantitativa e misurabile, che veniva individuata nel conseguimento di un tasso complessivo di occupazione pari al 70% (nella fascia d’età tra 15 e 64 anni).
Marco era pienamente consapevole di come la realizzazione dei risultati attesi dipendesse anche, e soprattutto, da fattori esogeni al mercato del lavoro, dipendenti anzitutto dall’andamento del ciclo economico mondiale e, poi, da strumenti di politica economica, industriale e fiscale. Ma, pur nella consapevolezza dei limiti insiti nella potenzialità degli effetti delle politiche del lavoro, egli prendeva sul serio gli impegni e gli obiettivi fissati dall’Unione Europea, anche perché condivideva la loro intima rilevanza ai fini del progresso delle condizioni di vita delle persone.
Ed allora, poiché il primo concreto obiettivo, come detto, era il traguardo del 70% di occupazione, e poiché la realizzazione di quell’obiettivo richiedeva un aumento della crescita dell’occupazione pari addirittura al triplo della crescita ottenuta nel quinquennio precedente (1995-2000), egli aveva ben chiaro che era assolutamente indispensabile una incisiva opera di modernizzazione del mercato del lavoro che affrontasse, in modo coordinato e con una visione di sistema, su tutti i fattori causa di criticità.
5. Nella organicità del suo disegno, il punto essenziale di partenza era rappresentato da una decisa accelerazione del processo di riforma dei servizi pubblici per l’impiego (la cui inefficienza, e la conseguente illegittimità della posizione di monopolio, era stata certificata dalla Corte di Giustizia già nel 1997) per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Al riguardo, veniva anche avvertita l’esigenza dei necessari investimenti anche “in termini di maggiori competenze e professionalità degli operatori coinvolti” (tema, ancor oggi, di strettissima attualità), e allo stesso tempo si proponeva il rafforzamento della presenza degli operatori privati, ricercando un giusto mix tra comportamenti collaborativi e comportamenti concorrenziali tra i diversi attori del sistema.
Ma, poiché la realizzazione del target occupazionale fissato in sede europea presupponeva, se preso sul serio, non solo l’ambizioso risultato di ridurre il tasso di disoccupazione al minimo livello fisiologico in tutte le aree del Paese, ma addirittura l’ancor più impegnativo risultato di attrarre al lavoro una ulteriore, significativa percentuale di persone che non erano (almeno apparentemente) interessate, gli interventi di riforma non potevano non riguardare anche il profilo dei modelli contrattuali di lavoro flessibile, allo scopo di favorire la creazione ex novo di opportunità lavorative e, soprattutto, l’emersione e la regolarizzazione di attività già esistenti ma svolte nel mondo sommerso.
Non si proponeva affatto una “giungla” di contratti, né, tantomeno, si intendeva realizzare una “precarizzazione” del lavoro. Come detto, Marco partiva dalla considerazione di dati che attestavano come il tasso di flessibilità dei rapporti di lavoro in Italia fosse ben al di sotto della media europea, e comunque egli stesso prevedeva la necessità di sottoporre ad un attento monitoraggio l’effettivo utilizzo nel tempo delle misure prospettate, al fine di rilevare eventuali spinte verso una pericolosa precarizzazione del nostro mercato del lavoro.
Va aggiunto che la vera principale causa del senso di incertezza, che induce precarietà, è da cogliere – prima ancora ed a prescindere dalla modifica dei modelli legali di lavoro – dai già richiamati processi di trasformazione dell’economia e del lavoro. Nel 2010, è stata pubblicata una ricerca sul mercato del lavoro in Lombardia (Dinamicità e sicurezza: i dati del lavoro che cambia, a cura di M. Mezzanzanica), dalla quale risulta che i rapporti di lavoro stipulati a tempo indeterminato, venuti a cessare nel periodo tra il 2004 e il 2009 (e, quindi, in un periodo nemmeno interessato dalle riforme delle tutele applicabili in caso di licenziamento), avevano avuto una durata media di circa 11,5 mesi. E’ vero che la ricerca riguardava la Regione con il mercato del lavoro più dinamico; ma è, comunque, evidente che - tra crisi economiche, innovazioni tecnologiche e debolezze della nostra struttura produttiva - il crepuscolo del secondo “breve” ha portato con sé anche il tramonto del modello sociale basato sulla possibilità di conservare il medesimo posto fisso per tutta la vita lavorativa.
In questa situazione, non considerata da chi confonde il concetto di stabilità giuridica con quello di stabilità di fatto del posto di lavoro, si può cogliere peraltro il senso concreto dell’affermazione, contenuta nell’“executive summary” del “Libro bianco”, secondo cui la vita lavorativa delle persone è destinata ad essere sempre più segnata da fasi diverse, che possono prevedere l’alternanza di lavori ed attività diverse anche di differente natura, periodi di non lavoro, di formazione e di riqualificazione professionale.
6. Quanto alla paventata proliferazione dei modelli legali di lavoro, le proposte di Marco riguardavano prioritariamente interventi su contratti già esistenti, ossia il contratto a tempo determinato, il contratto a tempo parziale e il lavoro interinale, allo scopo di favorirne la diffusione al pari di quella che essi già avevano negli altri paesi europei. A ben guardare, le vere novità riguardavano solo due specifici modelli di rapporti, il lavoro intermittente e il lavoro accessorio, i quali, seppure privi ancora di regolamentazione legale in Italia, erano stati però già sperimentati altrove (in particolare, il lavoro a chiamata in Germania ed Olanda, e il lavoro accessorio in Belgio). Quei due nuovi modelli, peraltro, stanti le loro caratteristiche, non svolgevano una funzione “concorrenziale” rispetto al modello standard (e, quindi, non miravano a produrre un effetto sostitutivo dei rapporti di lavoro a tempo pieno e di durata indeterminata), bensì risultavano particolarmente congegnali proprio per far emergere prestazioni lavorative rese di fatto nell’informalità, se non nell’illegalità.
Tant’è che, se si eccettua la parentesi della XV legislatura, l’utilità dei due nuovi modelli, introdotti dal d.lgs. n. 276 del 2003, è stata riconosciuta da tutte le successive leggi che hanno riguardato il nostro mercato del lavoro (al di là di pur significative varianti di regolamentazione), ed essi sono stati tenuti in vita anche dal cd. decreto “dignità” (d.l. n. 87 del 2018, convertito dalla legge n. 96 del 2018) che pure dichiarava nelle premesse l’obiettivo di “contrastare crescenti fenomeni di precarizzazione in ambito lavorativo”. Come noto, infatti, le tipologie contrattuali nella quali è intervenuto in senso restrittivo tale decreto sono soltanto il lavoro a termine e la somministrazione, e, sia detto per inciso, non sembra che le limitazioni introdotte abbiano favorito la duratura stabilizzazione dei lavoratori interessati.
7. La medesima finalità di contrasto all’occupazione irregolare era alla base anche dell’idea di Marco di identificare e disciplinare la nuova fattispecie contrattuale del lavoro a progetto, idea che, però, non fu compresa da molti. La nuova fattispecie, infatti, non era pensata, come qualcuno sostenne, per favorire la fuga dal lavoro dipendente, bensì, esattamente all’opposto, “per evitare l’utilizzazione delle collaborazioni coordinate e continuative in funzione elusiva e frodatoria della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato”. Ed infatti, le caratteristiche del lavoro a progetto erano senz’altro più restrittive di quelle delle collaborazioni coordinate e continuative, e rientravano chiaramente per loro natura nell’area del vero lavoro autonomo. A ciò si aggiunga che per la nuova fattispecie egli pensava già allora fosse necessario introdurre alcune essenziali forme di garanzia del lavoratore autonomo nei confronti del committente (prima tra tutte l’applicazione del principio di proporzionalità tra il compenso dovuto e la quantità e la qualità del lavoro eseguito).
Come sappiamo nel 2015, il lavoro a progetto è stato soppresso nell’ambito di un disegno di politica legislativa che mira a favorire l’estensione della disciplina del lavoro subordinato a quelle fattispecie aventi caratteristiche ritenute ad esso assimilabili, e ciò mediante la creazione della nuova figura delle “collaborazioni organizzate dal committente” (art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015). Ma, forse, non si è pienamente tenuto conto che, in questo modo, da un lato, sono state fatte risorgere le vecchie collaborazioni coordinate e continuative (sia pure ridisegnate dalla modifica dell’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ.), e, d’altro lato, si corre il rischio di togliere uno specifico riconoscimento formale (e un appropriato regime giuridico differenziato) a prestazioni di lavoro genuinamente autonomo (soprattutto ora che, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1 del d.l. n. 101 del 2019, come convertito dalla legge n. 128 del 2019), la figura delle collaborazioni organizzate non è più caratterizzata dall’elemento della organizzazione “anche dei tempi e del luogo di lavoro”, elemento che appariva il più idoneo a rappresentare il tratto di affinità con il lavoro subordinato).
8. Va ricordato, poi, che le proposte elaborate per realizzare l’incremento occupazionale (more jobs) avrebbero contestualmente inciso, nella progettualità di Marco, anche nel perseguimento dell’altro obiettivo prioritario indicato dalle raccomandazioni europee, ossia il miglioramento della qualità dei lavori (better jobs). Ciò perché, nelle condizioni date, il primo basilare fronte sul quale operare per conseguire un lavoro qualitativamente migliore veniva logicamente individuato nella lotta al sommerso, essendo incontestabile che un’occupazione clandestina e senza regole contraddice in radice l’idea stessa del lavoro di qualità.
Del resto, l’elevazione del contenuto qualitativo del lavoro dipende essenzialmente, a livello generale, dalla capacità di ciascun Paese (di qualsiasi Paese) di acquisire migliori posizioni nella competizione globale dalla quale deriva la distribuzione tra i diversi paesi delle diverse attività di produzione di beni e servizi. In altri termini, il miglioramento complessivo del livello qualitativo dell’occupazione non può che essere determinato dall’incremento delle produzioni nelle quali è più alto il valore aggiunto del lavoro (e, in specie, di quello intellettuale), a scapito delle produzioni basate su operazioni ed attività esclusivamente manuali: è, quindi, una questione di politiche industriali e di risorse idonee a sostenerle, che, a loro volta, sono una variabile dipendente dalla solidità del sistema economico di ciascun Paese e dalla capacità competitiva che esso ha sul mercato globale.
Stando così le cose, ciò che le politiche del lavoro possono fare – lasciando alla politica industriale il compito di favorire la “conquista” di produzioni (e posti di lavoro) complessivamente migliori – è assicurare che tutti abbiano la chance di accedere alle occupazioni disponibili e di poter progredire professionalmente nel corso della vita lavorativa. Nel pensiero di Marco, tutto ciò si traduceva, oltreché - come detto - in un’organizzazione di servizi per l’impiego più efficienti, nella agevolazione delle fasi di transizione tra un lavoro e l’altro mediante lo sviluppo della formazione continua (sostenuta da investimenti pubblici) e una riforma sia degli ammortizzatori sociali che degli incentivi all’occupazione.
Sul versante degli ammortizzatori , la riforma doveva essere disegnata a misura di un mercato del lavoro più flessibile, perché caratterizzato da maggiori flussi di creazione e distruzione di posti di lavoro e da una maggiore incidenza di carriere e percorsi lavorativi irregolari e discontinui nel tempo, ed implicava un’estensione del livello delle tutele minime, in una logica – peraltro – di omogenizzazione dei diversi trattamenti esistenti e tenendo conto dell’esigenza di evitare l’effetto di disincentivo nella ricerca di lavoro che gli strumenti di sostegno del reddito in caso di disoccupazione possono indirettamente determinare.
Sul versante degli incentivi all’assunzione, invece, si prevedeva, da un lato, una maggiore selettività a favore dei soggetti più deboli del mercato del lavoro, e, dall’altro lato, la regolazione di specifici interventi di sostegno diretti a favorire il ricorso al contratto a tempo indeterminato, al fine di contrastare l’insorgere e l’aggravarsi di segmentazioni tra categorie di lavoratori, particolarmente insidiose per donne e giovani.
9. Un capitolo importante della “impalcatura” progettuale, quello sul quale forse si sono indirizzati non solo i maggiori dubbi teorici di parte della dottrina ma anche le più accese critiche di natura ideologica, era rappresentato dalle ipotesi di intervento sulla disciplina del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Marco non sottovalutava affatto l’importanza della difesa di tale modello contrattuale, e anzi ricordava a tutti che esso è “fondamentale per garantire una società attiva basata sulla qualità del lavoro”. Al tempo stesso, egli aveva anche ben chiaro che, per elevare la qualità dell’occupazione complessiva, è necessario stimolare la stabilizzazione dei rapporti di lavoro, dalla quale deriva anche maggiore produttività e maggiore disponibilità delle imprese ad investire nella crescita professionale dei propri collaboratori. Del resto, la sua decisa preferenza per il modello in questione risulta chiara anche solo considerando la previsione, poc’anzi ricordata, della specifica destinazione delle politiche di incentivazione a favore delle assunzioni a tempo indeterminato.
Egli, però, ipotizzava come oggetto di “studio” (si badi: non ancora di proposta) la predisposizione di “nuove forme di incentivazione nell’uso del contratto a tempo indeterminato – con particolare riguardo alla trasformazione del contratto a termine”.
L’ipotesi di studio era, evidentemente, quella di un limitato intervento sull’art. 18 della legge n. 300 del 1970 che prevedesse l’applicabilità di un diverso regime sanzionatorio nei casi di rapporti di lavoro a termine trasformati a tempo indeterminato. L’ipotesi, peraltro, era accompagnata da alcune precisazioni e da una osservazione. Si precisava che non era in discussione il principio della necessaria giustificazione del licenziamento sancito dall’art. 24 della Carta di Nizza, così come non era in discussione il vigente regime applicabile in caso di licenziamento discriminatorio e per altre ragioni di nullità. Si osservava, poi, come l’esperienza comparata offrisse un quadro variegato dei regimi sanzionatori previsti nei paesi europei contro i licenziamenti ingiustificati, dal quale emergeva come l’orientamento prevalente fosse nel senso di non prevedere l’obbligatorietà della reintegrazione.
Si resta, allora, senza parole se il pensiero corre all’idea che Marco possa essere stato privato della sua vita per quella che era la sua ipotesi di studio. E l’oppressione dello sgomento cresce se si pensa che l’ipotesi di studio fu accantonata, ma i processi storici-economici hanno fatto il loro corso; e a distanza di poco più di un decennio ben due diversi Parlamenti e due diversi Governi hanno proceduto ad attuare due riforme ben più incisive delle tutele contro i licenziamenti (legge n. 92 del 2012, art. 1, comma 7, lett. c), della legge n. 183 del 2015 e d. lgs. n. 23 del 2015). Tra l’altro, la seconda di quelle riforme incorpora il limitato intervento modificativo ipotizzato da Marco (cfr. art. 1, comma 2), ma solo come un modesto tassello (quasi marginale) di un ben più ampio processo di superamento della regola generale della reintegrazione.
Del resto, si può discutere degli aspetti legati alla quantificazione della tutela indennitaria alternativa alla reintegrazione, ma il fatto che quest’ultima non sia costituzionalmente imposta è stato confermato più volte anche dal giudice delle leggi (Corte cost. n. 194 del 2018).
8. Ho riproposto una lettura, certamente sommaria ed incompleta, dei temi trattati nel “Libro bianco”, perché, al di là delle valutazioni che se ne possano dare, credo si tratti di un documento che ci consente di cogliere alcuni aspetti semplici, ma fondamentali, per ricordare la figura del Prof. Biagi.
Anzitutto, ci consente di ricordare anche a chi non lo ha conosciuto la sua profonda onestà intellettuale e il suo essere uomo al servizio soltanto delle istituzioni, mai piegato ad interessi di parte e, tantomeno, ai desiderata di questo o quel partito politico.
Il suo progetto di riforma poteva essere oggetto di ampia discussione, come lui stesso auspicava, ma non è a mio avviso contestabile che esso si fondava su una seria analisi dei dati oggettivi relativi al nostro mercato del lavoro, su un uso ragionato della comparazione tra sistemi giuridici e sociali, sulla considerazione di indicazioni provenienti dalle istituzioni europee.
Egli non inseguiva ideali di perfezione utopistica, ma era ispirato alla logica del possibile, che presuppone debba tenersi conto del contesto socio-economico e degli strumenti (pur limitati, in un contesto di scarsità di risorse e di competizione globalizzata tra sistemi giuridici e economici) che sono disponibili da parte delle politiche nazionali. Per questo, egli era anche un innovatore, favorevole a serie sperimentazioni di nuove misure, poiché non accettava l’immobilismo di un Paese che non reagisce di fronte ai problemi di un mercato del lavoro iniquo e indifferente, che detta spesso regole rigide tollerando poi che non vengano rispettate, che promette diritti ai quali di fatto molte persone non possano accedere.
Le sue proposte, coerentemente con le premesse da cui muovevano, avevano un solo obiettivo finale, contribuire a creare le condizioni per un mercato del lavoro più equo ed efficiente, volto a migliorare l’occupazione per quantità e qualità, coniugando flessibilità e sicurezza.
Non a Marco, ma piuttosto alle istituzioni in cui credeva, bisognerebbe ricordare che lo sviluppo di questi due modi di essere della vita contemporanea dovrebbero procedere di pari passo, anche e soprattutto durante i difficili momenti che, ahinoi, ciclicamente la attraversano (dal coronavirus di questi giorni, alle crisi del debito sovrano, delle bolle speculative e delle torri gemelle di ieri).

 

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