Testo integrale con note e bibliografia

Considerazioni generali sul piano del metodo

Scriveva Gino Giugni che il diritto del lavoro non è il commento tecnico di questa o quella legge nazionale, ma un campo fertile di esperienze e rinnovamento della cultura giuridica e in fondo della intera società (G. GIUGNI, Diritto del lavoro. Voce per una enciclopedia, in Lavoro, legge, contratti, il Mulino, 1989, pp. 251-252). Chi condivide questa impostazione della nostra materia non può non apprezzare il Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile proposto da Bruno Caruso, Riccardo Del Punta e Tiziano Treu. Ed in effetti, ogni tentativo di mettere a sistema e attualizzare una concezione globale delle funzioni del diritto del lavoro non solo va accolto e salutato con favore, ma va apprezzato senza riserve per il solo fatto di essere stato compiuto quale che sia poi la valutazione di merito delle singole proposte o soluzioni avanzate.

Lo sforzo degli autori diventa tanto più apprezzabile, sempre sul piano del metodo e delle finalità, se si considera che molti dei complessi problemi con cui la dottrina giuslavorista si confronta da anni sono tra loro intrecciati e si compenetrano con problematiche socio-economiche e direi anche filosofiche di respiro più ampio, che travalicano gli stretti confini del nostro settore disciplinare. Nonostante numerosi e recenti studi monografici abbiano compiuto notevoli passi in avanti nella direzione di modernizzare strumenti e tecniche di tutela del diritto del lavoro, si avvertiva forte il bisogno di una lettura d’insieme sui problemi del lavoro. Solo questo tipo di analisi consente infatti di elaborare visioni e risposte di sistema adeguate ad un contesto economico e sociale in cui la idea stessa di lavoro è profondamente mutata rispetto a quella in cui le categorie fondamentali della nostra materia sono state edificate, molte delle quali – ed è questo un assunto che gli autori mettono bene in evidenza – “non sono più adatte ad interpretare le nuove realtà del lavoro e delle imprese” (p. 3). La missione tradizionale del diritto del lavoro (tutelare il contraente debole) non si è certamente esaurita, dunque, ma occorre oggi ampliarla per cogliere una realtà del lavoro sempre più differenziata e per rispondere a nuovi bisogni e interessi dei lavoratori. Si tratta di premesse pienamente condivisibili e da coltivare in modo anche più “deciso” di quanto proposto, almeno con riferimento ad alcuni punti che si affronteranno brevemente a seguire.

Se la consapevolezza sul lavoro che cambia è il presupposto indefettibile per la elaborazione delle idee più dirompenti veicolate dal Manifesto, tra le quali spicca una concezione collaborativa del rapporto e del contratto di lavoro, la prospettiva dello sviluppo sostenibile si rivela particolarmente feconda per svolgere una operazione culturale e scientifica della portata di quella di cui si discute. In primo luogo, perché ci aiuta a collocare i processi economici e sociali legati al lavoro nell’ambito di un approccio di sistema che incorpori valori di altra natura, ma comunque con un forte contenuto di socialità, come ad esempio quelli legati al pilastro ambientale dello sviluppo o alle implicazioni socio-economiche dei cambiamenti demografici, all’interno di un equilibrio dinamico rispetto al quale il tutto non è la mera somma delle singole parti che lo compongono. In secondo luogo, l’idea di sviluppo sostenibile suggerisce di adottare una visione di lungo termine, che superi il breve-terminismo dominante nell’analisi e soprattutto nella progettazione delle politiche del lavoro.

Questa prospettiva, che bene viene esemplificata dall’agenda 2030 delle Nazioni Unite a più riprese richiamata nel Manifesto, implica un incessante dialogo tra valori e (quindi) tra interessi meritevoli di tutela, posti in una relazione non più necessariamente conflittuale, ma collaborativa, nella misura in cui ciascuno di essi contribuisce alla sostenibilità del sistema nel suo complesso. Da qui anche la piena e convinta integrazione della razionalità economica nel discorso giuslavoristico e il definitivo (tentativo di) superamento di una concezione della impresa declinata sempre e comunque in termini oppositivi se non come disvalore rispetto alla razionalità giuridica.

Va peraltro rilevato che il percorso di universalizzazione dei fini e delle tecniche di tutela che il Manifesto suggerisce, nella peculiare prospettiva di una piena valorizzazione del lavoratore come persona, potrà essere anche tortuoso, come pure molte delle idee proposte potranno rivelarsi di difficile attualizzazione. Ma tralasciando per ora questo aspetto comunque rilevante, e lasciando sullo sfondo tematiche settoriali che non è possibile indagare in questa sede, vale la pena evidenziare come nel delineare il passaggio dal selettivo all’universale, il Manifesto lasci intravedere ampi spazi di continuità rispetto ai fini tradizionali della materia e altrettanti profili di complementarietà tra tecniche di tutela classiche, che guardano al lavoratore come contraente debole, e nuove frontiere di promozione dello sviluppo della persona nel lavoro e nella società nel suo complesso, che trovano negli approcci della capabilities e dello sviluppo sostenibile il campo prediletto di declinazione.

Si tratta di un dato epistemologico di significativo rilievo su cui a nostro avviso si possono aprire preziosi margini di dialogo con una parte consistente della dottrina giuslavoristica che continua a manifestare forti resistenze verso i processi di modernizzazione del diritto del lavoro, delle sue narrative di fondo e delle relative tecniche di tutela. In questa direzione, particolarmente apprezzabile è il proposito degli autori di alimentare ricerche collettive e non solo individuali sulle questioni sollevate: problemi complessi, necessitano risposte complesse, che possono essere elaborate solo collettivamente, con adeguata massa critica anche e soprattutto attraverso la contaminazione delle diverse competenze e sensibilità culturali. Si tratta a nostro avviso di una suggestione di metodo da rivolgere in particolare alle giovani generazioni di studiosi e alle Scuole di dottorato (che spesso oggi sono delle mere aggregazioni disciplinari di facciata dove poi ognuno continua a coltivare il suo piccolo orticello) e che, tuttavia, dovrebbe essere raccolta e trovare riscontri anche sul piano istituzionale, con particolare riferimento sia ai dottorati innovativi sia in relazione a tutte quelle procedure di valutazione a cui, a diversi fini, come ricercatori siamo sottoposti le quali, allo stato, disincentivano anziché valorizzare gli apporti collettivi e multidisciplinari alla ricerca.

Pienamente condivisibili, anche in questa prospettiva, sono poi le considerazioni sulla auspicabile evoluzione della disciplina in senso critico ma anche di maggiore apertura (p. 17 e ss.) sia sul fronte dei rapporti con l’economia, sia su quello dei rapporti con altre discipline (scienze sociali), senza trascurare l’importanza del confronto con altre branche del diritto (dal diritto commerciale al diritto pubblico) e di una adeguata valorizzazione dello studio del diritto vivente non solo giurisprudenziale (come da tradizione) ma anche di quello contrattual-collettivo che io amo ricondurre al metodo del diritto delle relazioni industriali.

Di fianco al valore e alle opportunità ora messe in evidenza, il Manifesto presenta due limiti di cui gli autori sono pienamente consapevoli e che peraltro ci sembrano connaturati ad ogni approccio olistico allo studio dei fenomeni sociali. Il primo è dato dal fatto che “il diavolo sta nei dettagli”. La complessità di molte delle idee e visioni proposte affiora non solo e non tanto dal tentativo di immaginare i percorsi per una loro concreta attualizzazione, in un contesto dove nuove opportunità di sviluppo coesistono con fenomeni di drammatica involuzione economica e sociale, quanto nel momento in cui il lettore, come è normale che sia, ceda alla tentazione di precisare alcune opzioni interpretative di dettaglio sulle quali è comprensibile che possano più facilmente insorgere divergenze di veduta (vedi infra). Il secondo limite rappresenta il rovescio della medaglia del primo. Riguarda il fatto che, negli approcci olistici, il sistema di riferimento è sempre a sua volta parte di un sistema più ampio, all’interno del quale si intrecciano altri sistemi tra loro interagenti. Il limite, insomma, è il cielo; e per quanto si possa volare altissimo, la prospettiva di analisi del diritto del lavoro non potrà mai essere sufficientemente ampia da abbracciare la pienezza del sistema nella sua interezza. Ragione per cui la vocazione multidisciplinare che il Manifesto già esprime rispetto ad altre branche del diritto e delle scienze sociali, potrebbe essere ulteriormente arricchita da una discussione dei relativi contenuti con colleghi di altre discipline, anche quelle più apparentemente distanti.

Veniamo ora all’analisi di dettaglio delle due tesi a nostro avviso centrali del Manifesto, che toccano trasversalmente gran parte degli assi tematici affrontati dagli autori: la prima relativa ai livelli e alle tecniche di tutela della persona al lavoro; la seconda riguardante il ruolo centrale assegnato all’autonomia collettiva.

 

I due livelli di tutela

Nella visione proposta dagli Autori, che attualizza la riflessione di Supiot sui cerchi concentrici di tutela, il diritto del lavoro deve proteggere i lavoratori operando su due livelli.

Il primo livello è quello della tutela del lavoratore - in particolare subordinato, ma non solo ormai - dalla disparità di potere contrattuale inerente alla relazione di lavoro e dai rischi della mercificazione e dello sfruttamento; ma non solo, si estende anche alla garanzia di sostegno economico e possibilmente alla funzione di redistribuzione delle ricchezza per contrastare vecchie e nuove disuguaglianze. Obiettivo del diritto del lavoro (condiviso con le istituzioni del welfare) è, in questa dimensione, prendersi cura di tutte le situazioni di vulnerabilità.

Il secondo livello è quello di una protezione proattiva e capacitante, finalizzata a consentire al lavoratore di sviluppare la propria dotazione di risorse professionali e personali (nell’orizzonte valoriale tracciato dall’approccio delle capabilities), di cui il diritto alla formazione rappresenta una chiara esemplificazione.

Sul fronte delle tutele basiche, gli Autori propongono di dare attuazione alla idea, emersa in fase di progettazione della Legge 24 giugno 1997, n. 196 di uno Statuto dei lavori. Il secondo livello di protezione (quella proattiva e capacitante) è declinato nella proposta di un “nuovo” contratto di lavoro subordinato che enfatizzi la presenza di rilevanti interessi comuni tra le parti, spingendo a comportamenti cooperativi, e si traduca nel riconoscimento al lavoratore, accanto ai classici diritti, di diritti di nuovo conio nella sfera della formazione, della informazione, della partecipazione. Ciò, però, unitamente ad un impegno altrettanto fermo in direzione dell’universalismo delle protezioni di welfare e anche delle tutele proattive per rispondere alle sfide poste dai mercati transizionali e tutelare le “carriere laterali”.

Sembra però da questa proposta emergano dunque non solo due livelli di protezione, ma anche un (persistente) dualismo tra subordinati e lavoratori che sperimentano carriere laterali. Apprezzabile il riconoscimento dei nessi, delle interazioni e dei collegamenti esistenti, proprio nell’ottica dei mercati transizionali, tra politiche attive, politiche passive, istituti di welfare pubblico, e regolazione del rapporto di lavoro, che ritorna anche nel capitolo dedicato alla rilettura del paradigma della flexicurity come proposta in grado di valorizzare le istituzioni del mercato del lavoro, non in contrapposizione con la regolazione del rapporto di lavoro, ma in una virtuosa circolarità tra i due poli (p. 46).

La prospettiva non sembra però coltivata fino in fondo, nel senso di un riconoscimento e di una analisi delle profonde ricadute dell’emergere dei mercati transizionali del lavoro sulla regolazione del lavoro, a partire dal superamento della contrapposizione tra mercati interni e mercati esterni del lavoro e dalla necessità di porre al centro della riflessione le transizioni occupazionali e non più gli status. Acquisizioni che dovrebbero spingere il giurista del lavoro a interrogarsi prima di tutto sulle regole di struttura e di funzionamento dei mercati del lavoro (da cui dipendono l’istituzione e l’istituzionalizzazione di specifici mercati, la possibilità per i lavoratori di accedervi e muoversi al loro interno in condizioni di trasparenza e sicurezza), che davvero interessano, trasversalmente, tutti i lavoratori.

Ciò consentirebbe, tra le altre cose, di offrire anche una lettura più adeguata ai tempi rispetto al tema, pur affrontato nel Manifesto, delle persistenti disuguaglianze di genere. Riconosciuto il problema, invero, gli autori non entrano nel merito di analisi puntuali o proposte specifiche, riconoscendo peraltro come la legislazione italiana sulla parità di genere sia adeguata ai più alti livelli. Non viene in particolare evidenziato come la questione di genere possa e debba essere declinata, dibattuta e affrontata alla luce dei problemi affrontati nel testo, avendo, come riconosciuto dagli Autori, una valenza trasversale e una importanza cruciale per il futuro stesso del lavoro. Sul filo dei ragionamenti proposti nel Manifesto, meriterebbe ad esempio maggiore attenzione il dato della profonda e continua intersezione tra transizioni biografiche e lavorative, che come noto (in un trend costante, esacerbato dalla pandemia) influenza in particolare il rapporto tra donne e lavoro. Dato che suggerisce un ripensamento dei confini del diritto del lavoro e forse del concetto stesso di lavoro, non solo attraverso il riconoscimento di ogni fase della vita prioritariamente dedicata alla cura dei figli e familiari non autosufficienti come meritevole di tutele, ma anche con una efficace regolazione del mercato formale del lavoro di cura ed una adeguata valorizzazione delle professionalità in esso coinvolte.

 

Rivitalizzare soggetti e azioni collettive

La consapevolezza dell’emergere di bisogni e interessi dei lavoratori diversi da quelli tradizionali, e del loro manifestarsi non solo sul piano individuale (come lascerebbero supporre i processi di frammentazione e differenziazione del lavoro più volte richiamati) ma anche sul piano collettivo, è centrale, nel Manifesto, e sollecita una serie di proposte sul rinnovamento della rappresentanza (cfr. §VII). Va peraltro rilevato che molti dei processi di modernizzazione del diritto del lavoro suggeriti dal Manifesto hanno già trovato importanti spazi di concretizzazione nell’ambito della contrattazione collettiva aziendale, come a più riprese enfatizzato dagli Autori. A testimoniarlo, le numerose intese ad alto impatto innovativo siglate da aziende e sindacati nell’ultimo decennio. Intese che vanno ben oltre la difesa ad oltranza dello status quo e dei posti di lavoro esistenti.

Superata l’epoca della contesa industriale, si registra la crescente diffusione di un nuovo approccio alle relazioni industriali incentrato sul reciproco impegno delle parti a garantire insieme produttività e tutela dei bisogni sociali per fornire risposte di respiro non più solo aziendale, ma per l’intera comunità. Parliamo di un patrimonio contrattuale, soprattutto di livello aziendale e ancora territoriale, ancora poco conosciuto ma di indubbia ricchezza, che può davvero rappresentare un punto di riferimento per l’attuale dibattito sulla riforma del nostro mercato del lavoro nella prospettiva dello sviluppo sostenibile delle aziende e dei territori. In questa area non vedremmo male la formulazione di una proposta verso il legislatore volta a garantire la piena e trasparente conoscibilità di questo esteso e ricco diritto che nasce dai sistemi di relazioni industriali, per esempio attraverso l’obbligo di deposito per la sua valenza a fini di legge.

Non si arriva, tuttavia, fino a riconsiderare l’opportunità di aprire un dibattito, prima che sulle finalità e sulle forme organizzative della rappresentanza, sulla sua stessa natura, a partire da un riesame della categoria giuridica di interesse collettivo, che ne rappresenta la sostanza. Ipotesi, questa, che sarebbe giustificata non solo (e non tanto) dall’emergere di interessi nuovi espressi da gruppi di lavoratori (certamente in espansione) quali i lavoratori autonomi di terza generazione o i gig-workers (che non a caso si orientano verso forme di aggregazione diverse da quella sindacale); né dalla pur cruciale esigenza di proteggere i lavoratori da vecchie e nuove forme di precarietà e vulnerabilità; quanto dall’emergere di una serie di bisogni comuni ad una ben più ampia fetta di lavoratori, quelli che esercitano nel corso delle proprie carriere una professione di contenuto prevalentemente intellettuale in varie forme giuridiche, transitando dal lavoro autonomo a quello subordinato, ad altre forme di attività, esprimendo tuttavia continuativamente un interesse collettivo alla valorizzazione della loro professionalità.

In questo senso, non solo per leggere i nuovi volti del lavoro, ma per tutelare ogni forma di lavoro in considerazione dell’accresciuto peso del bagaglio di conoscenze e competenze e di un loro costante aggiornamento in ogni ambito, pare opportuno andare anche oltre le proposte degli estensori del Manifesto fino a raggiungere il cuore della nozione di interesse collettivo per farle inglobare il tema della valorizzazione e del riconoscimento della professionalità, come viatico per un rinnovamento profondo della natura e delle finalità del sindacato, e dunque delle sue forme organizzative, delle sue strategie, e dei suoi strumenti.

Ora, sappiamo bene almeno dai tempi di Sombart che, contrariamente a quanto riteneva Marx, l’economia non è il nostro destino. Questo nel senso che l’economia non costituisce un processo naturale, ma è sempre stata – e tale rimarrà per l’avvenire – una creazione culturale scaturita dalla libera decisione degli uomini. Nella sua essenza, l’assetto della economia è quindi un problema non di scienza ma di volontà. Ed è allora compito del giurista del lavoro riconoscere e valorizzare questa volontà che, come abbiamo imparato dalla lezione di Gino Giugni, emerge in termini normativi non solo nell’ambito dell’ordinamento statuale, ma anche di quello intersindacale secondo espressioni di razionalità giuridica decisamente più aderenti alla realtà dei fenomeni che si intendono disciplinare (consapevole che lo spunto meriterebbe maggiore approfondimento, rinvio sul punto a M. Tiraboschi, L’emergenza sanitaria da Covid-19 tra codici ATECO e sistemi di relazioni industriali: una questione di metodo, in D. Garofalo, M. Tiraboschi, V. Filì, F. Seghezzi, Welfare e lavoro nella emergenza epidemiologica. Contributo sulla nuova questione sociale, vol. V, ADAPT University Press, 2020).

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