Testo integrale con note e bibliografia

1. I temi del lavoro, affrontati in chiave innovativa nel “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile” con il quale nelle riflessioni che seguono ci si pone in un’ottica di dialogo costruttivo, hanno assunto una indubbia specificità durante la pandemia. Alla tradizionale disciplina che si era stratificata nel corso degli anni ed espressione, soprattutto nell’ultimo periodo, di idee volte più ad ottenere consensi che non a definire un quadro progettuale programmatico e coerente, si è, infatti, affiancata una disciplina emergenziale che ha cercato di dare risposte contingenti, secondo una logica fortemente conservatrice dell’esistente. In altri termini, ciò che è emerso non è stata l’esigenza di trovare soluzioni nuove, ma di cambiare il meno possibile. Si è così perpetuato quello scollamento tra diritto e realtà economica, ancor più evidente in un periodo di sostanziale blocco del sistema produttivo, con norme espressione di un mondo e di dinamiche in larga parte superate, con una visione unificante, in presenza, al contrario, di una poliedricità di necessità, senza una prospettiva adeguata e rivolta alle evoluzioni del mercato. Il filo comune è rimasto saldamente ancorato alla tutela nel rapporto del lavoratore subordinato a tempo pieno, con misure di sostegno connotate da una natura prettamente assistenziale, con nessuna o scarsa attenzione alle effettive necessità delle imprese, soprattutto di quelle di medie e di piccole dimensioni che connotano il tessuto produttivo italiano, al di là di enfatiche enunciazioni non seguite da adeguati comportamenti attuativi.
Il confinamento (personalmente preferito al termine di matrice anglofona di lockdown) ha fatto così emergere in maniera prepotente le molteplici criticità di sistema che giacevano irrisolte, come una folata di vento che ha spazzato via le ceneri e scoperto braci ardenti. Problematicità vecchie alle quali si sono unite quelle fisiologiche derivanti dalla situazione pandemica che ne ha inevitabilmente aggiunte di ulteriori. E che non sono state ad oggi, con una seconda fase di contagi in crescita esponenziale, considerate in maniera adeguata
L’esperienza dell’emergenza sanitaria, come ogni situazione di crisi, dietro alle complessità celava non secondarie opportunità che sono state, tuttavia, colte in minima parte e solo dove si sono imposte non come opportunità, ma come scelta necessitata nella enunciata logica di conservare il più possibile l’esistente. Tant’è che dopo una fase di apparente scomparsa del virus, al riemergere delle criticità nulla è sostanzialmente cambiato.
Quella più evidente, sfruttata per necessità e non per scelta, è stata il massiccio ricorso al lavoro da remoto o, meglio, home working, che in comune con il lavoro agile o lo smart working (a loro volta espressione di due fattispecie con alcune diversità di regolamentazione, quanto meno per l’essere il primo disciplinato per legge ed il secondo frutto dell’elaborazione della contrattazione collettiva soprattutto di secondo livello) ha pressoché esclusivamente di essere una prestazione di lavoro svolta al di fuori delle mura dell’impresa o dell’ente.
Che le opportunità fossero imposte e non volute deriva da una doppia considerazione, una rivolta al passato e l’altro alla contemporaneità del confinamento. Se si volge lo sguardo al passato, nel settore privato le imprese che volevano fare ricorso a modalità di esecuzione della prestazione da remoto si erano già attivate in tale direzione, mentre nel settore pubblico la chiara indicazione dettata dalla Legge Madia era rimasta in ampia parte lettera morta, con una considerazione del lavoro da remoto come beneficio da concedere e riconoscere a pochi, secondo una sinergia di fatto tra amministrazioni e organizzazioni sindacali, pur spinti da diverse motivazioni, ma nella comune direzione dell’immobilismo. Se si volge lo sguardo alla contemporaneità del confinamento, risulta una misura imposta nel settore pubblico, che non conosce per i dipendenti un sistema di ammortizzatori sociali, e altamente consigliata nel settore privato, anche per evitare di incorrere in una responsabilità da incompleta o inadeguata attuazione nel concreto dei protocolli concertati che, pure, a livello teorico, dovrebbero fungere (anche) da schermo nei confronti di eventuali azioni in giudizio da parte di lavoratori risultati positivi al virus.
Non vi è stata, invece, la volontà di sfruttare il fattore tempo per provare altre soluzioni, che sarebbero state giustificate dalla contingenza, con possibilità di un loro definitivo superamento nel caso in cui non avessero dato una buona prova o di una loro implementazione nel caso contrario in cui si fossero dimostrate utili. Poiché le affermazioni meritano degli esempi, tra i quali uno davvero emblematico. Nel rispetto delle norme di sicurezza, previa adeguata formazione e con garanzia della retribuzione, sarebbe stato possibile attivare circuiti di maggiore flessibilizzazione in materia di mansioni, consentendo diverse modalità di svolgimento della prestazione, con costi distribuiti tra lo Stato (per la parte che comunque si era obbligato a corrispondere nella forma della cassa integrazione) e l’imprenditore che fruiva della nuova prestazione. Con tutta evidenza il riferimento è al settore dei servizi più che a quelli classici dell’industria manifatturiera. Ma si trattava di una soluzione che avrebbe meritato di essere sperimentata. Si potrebbero, cogliendo pure le suggestioni del Manifesto, portare altri esempi, in materia di politiche attive rigide e non utili a consentire un effettivo incontro tra le mutate esigenze delle imprese e le offerte di lavoro, così come in altri campi, ma si perderebbe di vista l’obiettivo che non è riferito alla descrizione di quello che è stato, ma all’indicazione di quello che potrebbe e dovrebbe essere nel prossimo futuro.
2. Il discorso sulle prospettive non può che essere svolto per punti, in cui lo stile assertivo – lo stesso, peraltro, espresso anche dal Manifesto come proprio nella prima pagina di presentazione– necessariamente sarà preponderante rispetto ad uno più rigorosamente argomentativo, anche per esigenze di sintesi che impongono tale modo di procedere.
Dal punto di vista sistematico il ragionamento non può che procedere tenendo differenziati i settori privato e pubblico e nell’ambito dei due settori tra questioni riferibili alle relazioni sindacali e al rapporto di lavoro. Ciò nella consapevolezza dell’osmosi tra privato e pubblico e tra diritto sindacale e rapporto di lavoro in un circolo a 360 gradi. Ed ancora nella consapevolezza che tutti i ragionamenti e tutte le proposte devono considerare fattori sociali ed economici consolidati, primi fra tutti – come ben evidenziato dal Manifesto (in particolare nei capitoli X e XII) – quello demografico e quello di un mondo globalizzato, e che dietro a tutti gli incentivi europei il motore è costituito da una necessaria rivisitazione della politica dell’ambiente, secondo una spinta di rinnovamento, in cui il tema del lavoro si pone in una posizione senza dubbio qualificata.
La prospettiva è di andare oltre alla contingenza, dovendosi, però, necessariamente partire da essa.
3. Nel settore privato e con riguardo ai profili ascrivibili al diritto sindacale, due sono le tematiche di rilievo, a loro volta intrecciate. La prima attiene al ruolo riferibile ai livelli contrattuali nazionale e aziendale, cui è strettamente legata la problematica della rappresentanza sindacale. La seconda, che riguarda anche il settore pubblico, a sua volta connessa ai temi della rappresentanza sindacale, è la disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Il tema della contrattazione collettiva è ampio e complesso e sconta una doppia problematicità di fondo: il processo di intermediazione, con il ruolo diretto svolto dalla politica nel riconoscere e togliere certi benefici superando il negoziato con le parti sociali, e – come posto condivisibilmente in luce dal Manifesto (p. 52) – la difficoltà delle parti sociali stesse di confrontarsi e di raccogliere le istanze di una realtà sociale sempre più individualizzata.
Se questo è lo sfondo, ciò che si presenta è l’esigenza di ripensare il ruolo dei livelli contrattuali. Si condivide la direzione tracciata dal Manifesto di addivenire ad un contratto nazionale leggero, con la definizione di istituti fondamentali, primo fra tutti quello retributivo e più in generale con un ruolo di coordinamento, lasciando al contratto aziendale il compito di disciplinare nel dettaglio le indicazioni (che sulla scorta di quanto prefigurato nel Manifesto potremmo denominare linee guida) definite a livello nazionale. Resta aperto il problema del coordinamento tra i livelli contrattuali, di cui nulla si dice nel Manifesto, e rispetto al quale pare che non si possa andare oltre ad un’efficacia solo obbligatoria, avendo riguardo sia al profilo oggettivo delle materie, sia quello soggettivo degli attori negoziali. Nell’indicata apertura verso il basso si potrebbe ripensare pure ad una rinnovata centralità del contratto individuale, anche tramite l’istituto della c.d. negoziabilità assistita fino ad oggi rimasto sulla carta.
Tuttavia, perché un contratto nazionale funga da guida occorre che sia un contratto “qualificato”, potendo essere considerato tale solo quello sottoscritto da soggetti sindacali portatori di una certa rappresentanza sindacale; una rappresentanza misurata e non una rappresentatività presunta, tanto più se comparativamente e non maggiormente tale. Ciò sarebbe del tutto funzionale anche a ridimensionare il c.d. dumping contrattuale, oggetto di molteplici critiche, senza che sia stata elaborata alcuna soluzione satisfattiva.
Vi è, dunque, l’esigenza di addivenire ad una legge che, sulla base dell’esperienza del TU sulla rappresentanza del gennaio 2014, fissi regole valide per tutti, superando così la “anomia che si sta trasformando in anarchia” censurata a ragione nel Manifesto (p. 55). L’individuazione dei criteri di misurazione non presenta problemi particolari, essendo quello associativo e quello elettorale, tra loro combinati, una soluzione utile. La problematica che si pone attiene all’individuazione del perimetro di riferimento che, al fine di non violare l’art. 39 della Costituzione, non può essere definito ex lege, ma lasciato alle stesse parti sociali. Una conclusione condivisa dal Manifesto che aggiunge la necessità di adeguare nel tempo gli ambiti contrattuali “tenendo conto dell’evoluzione della realtà produttiva” (p. 58), senza però tracciare con precisione gli ambiti di un possibile intervento eteronomo di verifica rispetto alle scelte compiute dalle parti sociali, con un riferimento a possibili “forme procedurali di raccordo fra le indicazioni delle parti sociali e le determinazioni delle istituzioni competenti (INPS e Ministero del lavoro)”. Senza dubbio la procedimentalizzazione può essere una strada; resta il fatto che presuppone una fase ulteriore di “accordo”, quantomeno sostanziale, con tutte le criticità che da esso derivano. In merito non si può neppure tacere che se il problema della rappresentanza riguarda i sindacati dei lavoratori, ancor più complessa è la questione, solo accennata nel Manifesto, riferita alla parte datoriale, ove si annida ad oggi la questione più complessa.
La definizione del contratto di riferimento, sottoscritto dai sindacati rappresentativi, da un lato, depotenzia la questione della necessità o meno di addivenire per legge ad un salario minimo garantito – soluzione che personalmente non mi entusiasma anche se, in astratto, riferita ai soli ambiti (per la verità molto marginali) privi della copertura di un contratto nazionale – in quanto i giudici avrebbero un contratto cui ancorare il proprio giudizio sulla scorta di una consolidata e condivisibile giurisprudenza. Dall’altro lato, però, amplia la problematica della possibile (e necessaria) estensione generalizzata delle previsioni anche normative in esso contenute. Se si scarta l’idea di modificare la seconda parte dell’art. 39 della Costituzione, rifuggendo da bizzarre interpretazioni e non apparendo esportabile al settore privato la soluzione di una efficacia generalizzata indiretta della contrattazione collettiva, sì da essere efficace erga omnes non ex se, ma in quanto il datore di lavoro è obbligato a darvi applicazione (com’è nel settore pubblico), la soluzione non può che essere ricercata nell’incentivare l’applicazione del contratto dominante, ad esempio con il riconoscimento di alcuni benefici solo ai datori di lavoro che lo applicano. Una soluzione non certo nuova (v., già, l’art. 36 s.l.), ma che potrebbe essere utile allo scopo. In merito, il Manifesto, nel sostenere l’assenza di incompatibilità tra gli strumenti della contrattazione erga omnes e una legge sul salario minimo, afferma che “I salari minimi legali opererebbero, non tanto nei settori privi di contrattazione collettiva, perché formalmente qualche contrattazione è presente in ogni settore; quanto nei settori dove i contratti collettivi esistenti fossero stipulati da organizzazioni non rappresentative, e dove il tasso di applicazione effettivo dei contratti stessi risultasse inferiore a una soglia minima e si traducesse in casi diffusi di sotto salari” (p. 57). In realtà mi pare che la situazione descritta trovi già soluzione nei principi espressi dalla consolidata giurisprudenza, sì da confermare l’idea che l’azione del legislatore possa essere non tanto quella di un intervento diretto, quanto indiretto volto a valorizzare il ruolo delle organizzazioni sindacali rappresentative. Nondimeno il diritto vivente riconosce una tutela più ampia della sola garanzia del salario minimo, con una estensione generalizzata delle previsioni del contratto collettivo proprio partendo da quelle relative alla determinazione del trattamento economico.
Non meno problematica è la questione relativa all’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, non affrontata dal Manifesto e che a mio modo di vedere avrebbe meritato attenzione. La legge n. 146/1990, come modificata e integrata nel 2000, è sicuramente un’ottima legge, che tuttavia sconta il limite di porre sullo stesso piano tutte le organizzazioni sindacali. Di qui la necessità di introdurre delle regole che, nel rispetto dei principi costituzionali, pongano un filtro, a favore dei sindacati qualificabili come maggiormente rappresentativi (e non comparativamente più rappresentativi). L’individuazione dello strumento tecnico non appare di impossibile definizione; l’ostacolo forte è senza dubbio rappresentato dalla necessità di un ampio consenso politico a favore di questa soluzione.
4. La disciplina del rapporto di lavoro presenta innumerevoli ambiti di interesse e le molteplici questioni affrontate dal Manifesto ne sono un’esplicita conferma. La fase precedente la pandemia e la successiva fase emergenziale hanno posto al centro delle riflessioni l’esigenza di tutelare il lavoro, o meglio il prestatore di lavoro, in sé considerato. Si è lungamento discusso sulla permanente attualità della nozione di subordinazione dell’art. 2094 cod.civ., con elemento qualificante dato dall’assoggettamento al potere direttivo, e si è parimenti discusso del concetto di etero-organizzazione di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015 e del suo rapporto con la etero-direzione; si è ancora affrontata la problematica della tutela del lavoratore autonomo e, nelle riflessioni più mature, alla necessità di introdurre un concetto di dipendenza economica riferito non solo al singolo lavoratore, ma anche alle piccole imprese.
Se è vero che, come rilevato dagli Autori del Manifesto, la subordinazione è una “fattispecie in affanno”, le critiche rivolte all’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015 potrebbero risultare vieppiù ingenerose. La norma infatti pone al centro l’esigenza di tutela del prestatore di lavoro, a prescindere dalla qualificazione del rapporto come subordinato, e risulta utile per i casi in cui, pur rimanendo autonomo, esso è sulla soglia della subordinazione. Certo, si pone il problema, non risolto neppure dalla sentenza di Cassazione di inizio anno, di comprendere quali siano le tutele estensibili (a mio parere non quelle riferite alla fase di assunzione e di cessazione del rapporto in quanto se così fosse il rapporto non sarebbe etero-organizzato, ma subordinato); ma il principio è di valore; come di valore sono le riflessioni sul concetto di dipendenza economica.
Tutto ciò porta a individuare come strada percorribile quella della definizione di un sistema a tutele crescenti, ma nel vero senso del termine, individuando un nocciolo duro di tutele riferibile al prestatore di lavoro in sé considerato, a prescindere dalla qualificazione formale del rapporto, e con un crescendo di tutele in ragione dell’effettivo svolgimento del rapporto, sulla scia della nota soluzione dei c.d. dei cerchi concentrici o, nel lessico degli Autori del Manifesto, delle “tutele basiche comuni e [degli] statuti differenziati” (p. 19 ss.). Il problema non è dato dal modello astratto, ma dall’individuazione di ciò che deve essere inserito nei vari cerchi, con una scelta che viaggia sul confine tra tutele del rapporto e nel rapporto e misure di welfare.
5. Altro tema, nel contesto del più generale della digitalizzazione nell’ambito del rapporto, è quello del lavoro da remoto, indebitamente chiamato lavoro agile. Quest’ultimo ha una propria specificità normativa e l’elemento qualificante di essere necessariamente svolto in parte in azienda e in parte fuori. Nel periodo del confinamento ed oggi assistiamo – come già accennato –ad un “fenomeno” diverso, qualificabile come home working.
Sul lavoro da remoto molto si è scritto. Per ridurre all’essenziale un discorso che si amplierebbe troppo mi limito a due considerazioni. La prima attiene al quadro normativo. L’idea forte ed innovativa, che ho sviluppato in uno scritto destinato ai Quaderni di Argomenti di Diritto del Lavoro, dovrebbe essere quella di elaborare un testo che definisca la cornice legislativa della disciplina del lavoro da remoto, rispetto alla quale le forme già conosciute, ed il riferimento è ovviamente alla legge n. 81/2017 sul lavoro agile, si porrebbero in un rapporto di specie e genere. Nell’ambito della cornice sarebbe auspicabile demandare alla contrattazione collettiva la disciplina di dettaglio. Di qui l’esigenza di ripensare il modello di riforma già intrapreso in Parlamento nei mesi scorsi che vorrebbe limitarsi ad una modifica della disciplina sul lavoro agile, con interventi volti a garantire il diritto alla disconnessione del lavoratore, a sua volta funzionale alla tutela della sua salute. Si tratta di un aspetto senza dubbio importante, che dovrebbe trovare il proprio riconoscimento in altro. E si passa così alla seconda considerazione. Il lavoro da remoto (e nel suo ambito il lavoro agile) dovrebbe comportare il passaggio dal tempo di lavoro al risultato del lavoro, sulla base di un necessario coordinamento che deve sussistere tra la parte datoriale ed il lavoratore. Il Manifesto sottolinea il ruolo del tempo come risorsa culturale, sociale e produttiva ed evidenzia l’esigenza dell’affermazione di qualità della vita nel lavoro e non in opposizione al lavoro (p. 29). Il punto è centrale, ma conferma l’esigenza di superare il modello tradizionale e di addivenire ad un effettivo contemperamento dei contrapposti interessi. Ed in questo il patto individuale sottoscritto in sede protetta (e, dunque, garantito con un’assistenza non meramente formale, ma necessariamente sostanziale) potrebbe essere una soluzione ragionevole; senza tuttavia addivenire a ciò che il Manifesto postula come una possibile “nuova causa ‘collaborativa e partecipativa’” del contratto di lavoro (p. 25), peraltro, in una prospettiva più ampia del solo lavoro da remoto.
È poi del tutto evidente che il lavoro a distanza, sia da remoto o lavoro agile, presuppone una nuova organizzazione del lavoro che concerne pure la parte datoriale. Anche perché non tutte le attività sono informatizzabili, con la conseguenza di una necessaria preventiva mappatura di quelle che lo possano essere, in tutto o in parte. Una nuova organizzazione che assume rilievo non solo all’interno dell’azienda, ma anche all’esterno di essa, con l’esigenza di ripensare a tutte le attività economiche che ne sono satelliti, con un riferimento che si rivolge principalmente al tema dei servizi, primi fra tutti quelli di ristorazione e di trasporto.
6. Il tema degli ammortizzatori sociali è tanto ampio quanto problematico, connotato da una specialità di disciplina anche settoriale che richiederebbe un ripensamento generale, alla luce di una semplificazione dell’esistente e, come sottolineato nel Manifesto, con uno sguardo prospettico sul mercato del lavoro del dopo-crisi (p. 60). Se la semplificazione è l’elemento guida, due sono le chiavi che devono essere seguite, in ampia parte, anche se con alcune differenze non banali, esplicitate nel Manifesto.
La prima è di ricondurre gli ammortizzatori – superata questa fase “transitoria” – alla loro funzione della temporaneità in vista della ripresa dell’attività d’impresa. Le obiezioni di ordine formale a questa affermazione potrebbero essere molteplici, dato che nella forma la prospettiva prevalente degli strumenti in essere è rivolta verso la ripresa dell’attività aziendale; ma la sostanza è diversa, con uno scivolamento degli strumenti dalla previdenza all’assistenza. Come rilevato dal Manifesto il sistema degli ammortizzatori sociali “è inefficace perché si esaurisce spesso nella mera erogazione di prestazioni economiche senza favorire l’occupazione e il reinserimento dei lavoratori” (pp. 59-60). Ed allora il passaggio dovrebbe essere verso una chiara demarcazione tra ciò che è previdenza e ciò che è assistenza, con costi di quest’ultima a carico della fiscalità generale e non delle imprese. Per questa via – e si addiviene così alla seconda chiave di lettura – si potrebbe pensare ad un modello universalistico di ammortizzatori, con costi parametrati alle dimensioni dell’impresa secondo un principio di gradualità, e con un controllo ferreo in merito all’utilizzo, non lasciato al solo accordo/controllo sindacale, al fine di evitare che costi di (o meglio possibili perdite riferite a) contingenze di mercato siano poste anche dalle aziende con un alto grado di redditività a carico della collettività.
Nell’ambito dell’ampio capitolo IX del Manifesto dedicato al welfare – non a caso connotato con il titolo interrogativo “Oltre il welfare lavoristico?” – oltremodo condivisibili sono le osservazioni critiche riservate al reddito di cittadinanza, e questo soprattutto a livello di metodo generale ove si afferma che “l’obiettivo di dare sostegno a chi si trova in povertà e non è occupabile va distinto dall’intervento per l’attivazione al lavoro” (p. 65), da cui emerge la già indicata distinzione tra previdenza ed assistenza.
La logica universalistica riemerge nel Manifesto ove si postula una suddivisione del trattamento pensionistico tra trattamento di base, qualificato come prestazione di primo livello, finanziata dal fisco, e trattamento di secondo livello, basato sul sistema contributivo puro. Ad essi si può aggiungere la previdenza complementare, con un confermato ruolo regolativo della contrattazione collettiva, affiancato dall’intervento della fiscalità generalità nel caso in cui la fonte collettiva intendesse prevedere contributi agevolati a favore dei lavoratori più giovani e precari (p. 68 del Manifesto). È evidente che il contesto prefigurato postula un incremento in assoluto della spesa pubblica e in percentuale dell’incidenza della spesa pensionistica rispetto a quella pubblica; aspetti rispetto ai quali il Manifesto evidenzia anche l’opposta esigenza di una riduzione.
7. Con riguardo alle tipologie contrattuali flessibili – e segnatamente per quanto concerne il contratto a tempo determinato –, di cui il Manifesto si occupa nella parte dedicata alla c.d. flexicurity, l’attenuazione temporanea durante la fase pandemica delle rigidità, in precedenza introdotte con il c.d. Decreto Dignità, porta a condividere l’opportunità di una conferma a regime della maggiore flessibilità, quantomeno per il profilo causale dei presupposti richiesti per stipulare il contratto, anche volendo confermare il ridotto termine massimo di 24 mesi, anziché dei 36 originari. Più in generale, dovrebbe essere ripreso quel percorso volto a considerare utili al sistema tutte quelle tipologie contrattuali flessibili – e, più specificatamente, tutte le tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – volte a far emergere sacche di lavoro sommerso. Tipologie che sono purtroppo viste nell’unica prospettiva della creazione di lavoro precario, secondo una logica che continua a far prevalere la tutela nel rapporto piuttosto che la tutela nel mercato, secondo una visione proprietaria del posto di lavoro.
8. Il tema della flessibilità in uscita assume rilievo sia nella prospettiva transitoria della fase pandemica e post-pandemica, sia nella fase successiva.
Quanto agli interventi di carattere temporaneo, il blocco dei licenziamenti, destinato a permanere – quanto meno sino a fine anno – per quelle aziende che non abbiano integralmente usufruito della cassa integrazione, è questione complessa e rappresenta senza dubbio uno dei temi più dibattuti. La premessa per molti versi scontata è che come i posti di lavoro non si creano per legge, tantomeno gli stessi si conservano per legge. Senza dubbio il blocco dei licenziamenti impedisce di fatto alle aziende di procedere ad una riorganizzazione interna. Il che porta a ritenere che il blocco doveva essere accompagnato da una effettiva garanzia di flessibilità funzionale nel corso del rapporto, oltre i limiti dettati dall’art. 2103 cod.civ.
Più in generale, con una visione che volge l’attenzione alla fase post-pandemica, la tematica del licenziamento, de jure condendo, pone una duplice riflessione.
La prima attiene alla definizione delle fattispecie, ovvero dei presupposti causali per l’esercizio del potere di recesso datoriale, da non modificare, ma senza dubbio da specificare. Questo vale sia per il licenziamento disciplinare, ovvero per il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, ove il rilievo generale della nozione di giusta causa meriterebbe alcune specificazioni, per evitare eccessi in ogni senso, con un’azione che oggi è nei fatti lasciata alla sola giurisprudenza e che il Manifesto non vorrebbe cambiare (v. p. 50 ove si parla di “implicita” delega alla giurisprudenza a continuare il proprio lavoro interpretativo); ma lo stesso discorso si presenta anche per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ed in particolare con riguardo alla rilevanza dell’obbligo di repêchage, e sul suo mancato rispetto (o, anche, senza prova del suo rispetto) che, secondo la giurisprudenza maggioritaria, conduce a ravvisare la possibilità di una tutela piena, come se la ragione posta a fondamento del recesso non esistesse. Quanto ai licenziamenti collettivi si condivide il respingimento espresso dal Manifesto di ogni idea che intenda condizionare qualunque forma di aiuto pubblico alle imprese a meccanismi di codeterminazione sindacale sui licenziamenti collettivi in luogo del vigente controllo procedimentale (p. 49).
La seconda attiene al piano delle tutele da riconoscere al dipendente in caso di licenziamento illegittimo. Il doppio sistema previsto in ragione della data di assunzione (art. 18 dello Statuto dei lavoratori o articolo 8 della legge n. 604/1966, per gli assunti prima del 7 marzo 2015; applicazione del D.Lgs. n. 23/2015, per gli assunti dopo tale data) merita, anche alla luce delle pronunce della Corte costituzionale, una correzione – o, come suggerito nel Manifesto, “una ricomposizione e razionalizzazione” (p. 48) – che non può essere quella di optare per l’uno o l’altro sistema, né tantomeno un ritorno alla formulazione dell’art. 18 dello Statuto “pre-Fornero”. In questo senso il Manifesto prevede un articolato sistema che, ferma la condivisibile riaffermazione della tutela reintegratoria piena per il caso di licenziamento discriminatorio, illecito e, più in generale, nullo, per il licenziamento ingiustificato propende, nella sostanza, per l’estensione dell’applicazione dell’art. 18 risultante dalla riforma del 2012 al licenziamento disciplinare, mentre per quello economico postula una tutela solo risarcitoria. Mi pare che sia più congruo ripensare a un testo nuovo che rappresenti la sintesi ragionata, alla luce dei principi espressi dalla Corte Costituzionale, dei due regimi oggi vigenti secondo la logica della effettiva tutela del prestatore di lavoro illegittimamente licenziato (e della coesistente dissuasività di possibili comportamenti datoriali illegittimi), nella consapevolezza della non necessità costituzionale di una tutela in ogni caso reintegratoria (fatti salvi, ovviamente, gli indicati casi di nullità). In particolare non mi convince la volontà di generalizzare l’applicazione della previsione del vigente art. 18 dello Statuto; ed in particolare di quella parte che stabilisce l’applicazione della tutela reintegratoria c.d. debole nel caso di inadempimento assoggettabile a sanzione disciplinare conservativa. Questo perché i contratti collettivi non contengono la tipizzazione di fatti passibili di una sanzione conservativa, ma si riferiscono a fattispecie aperte (e in molti casi indefinite), sì da potersi ricondurre tutti gli inadempimenti nell’ambito di una delle “caselle” definite dal codice disciplinare. L’esito sostanziale è quello di una applicazione estesa della tutela reintegratoria ogni qualvolta non sia ravvisabile una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo. Senza dubbio condivisibile è la conservazione della reintegrazione nel caso di insussistenza del fatto contestato, da intendersi, sulla scorta della consolidata giurisprudenza, come inesistenza del fatto o sua sussistenza, ma senza che sia ravvisabile un inadempimento contrattuale. Da non ripetere è, invece, il richiamo operato dal D.Lgs. n. 23/2015 all’esigenza di una prova diretta in giudizio da parte del dipendente dell’insussistenza di tale fatto, essendo sufficiente che l’accertamento “comunque” ed “in ogni modo” si formi nel corso del procedimento.
9. Un ambito in cui l’azione del legislatore deve essere rivolta non tanto a riformare la disciplina vigente, ma a creare le condizioni affinché quest’ultima si esprima in tutte le sue potenzialità, è quella riferita agli inquadramenti e alle mansioni del lavoratore. Ciò per consentire una piena espressione di tutte le potenzialità sottese alla vigente formulazione dell’art. 2103 cod.civ.
In questo ambito ci troviamo di fronte a una norma nuova e a contratti vecchi; e i contratti vecchi sono non solo quelli sottoscritti prima della novella del 2015 dell’art. 2103 cod.civ., che ha ampliato la flessibilità c.d. orizzontale, ma sono anche quelli sottoscritti successivamente che non hanno colto le opportunità dettate dal nuovo testo normativo riproducendo le rigidità del passato. Il Manifesto coglie senza dubbio nel segno ove sottolinea come l’autonomia collettiva non sia riuscita ad assolvere il compito affidatole “con il risultato di lasciare intaccati sistemi di inquadramento che risalgono ormai ad anni remoti” (p. 32), non riuscendo, però nella non semplice opera di definire possibili azioni volte a superare tale criticità.
10. La breve notazione del punto precedente costituisce premessa della necessità di unire una nuova disciplina contrattuale degli inquadramenti ad una rinnovata centralità della formazione del lavoratore, nella logica della “flexicurity interna all’impresa” caldeggiata nel Manifesto (p. 45). Si tratta di un profilo molte volte evocato, ma pochissime volte approfondito. La formazione del lavoratore, ancorché qualificabile come diritto solo in alcuni ambiti limitati (si pensi primo fra tutti a quello della sicurezza sul lavoro), rappresenta un’indubbia leva di incentivazione e di opportunità per il singolo dipendente e per l’impresa. Nel Manifesto si afferma la necessità di “un pieno riconoscimento del diritto alla formazione all’interno del rapporto di lavoro”, non solo da parte della contrattazione collettiva, ma anche per opera della legge (p. 33 e 34). Posta la scontata, e scolastica, considerazione per cui il lavoratore deve essere adeguatamente formato per svolgere i compiti assegnati – e che risulta esplicitata dalla vigente formulazione dell’art. 2103 cod.civ. per il caso di mutamento di mansioni – il ruolo della formazione dovrebbe essere affermato con maggior forza dalla contrattazione collettiva. La fonte collettiva nel ridefinire gli inquadramenti dovrebbe, però, allargare le maglie, ampliando l’ambito della prestazione esigibile, tramite l’adeguata garanzia della conservazione della retribuzione. Ciò permetterebbe anche di rafforzare lo stesso contratto a tempo indeterminato, dato che il datore sarebbe incentivato al ricorso allo stesso nella garanzia di una flessibilità gestionale.
Quanto detto dimostra come l’accezione solo negativa del concetto di flessibilità è miope e non tiene conto del contesto complessivo. Del pari l’idea di ispirazione sindacale, indicata dal Manifesto come interessante, “di considerare le imprese che non formano come soggetti che producono esternalità negative come il CO2, e che pertanto vanno tassate, con ciò orientandosi verso un vero ecosistema 4.0.” (p. 34) perde di vista la logica dell’incentivazione che rappresenta la via maestra da seguire in una prospettiva di piena condivisione di valori.
11. Quanto alle tutele da riconoscere ai lavoratori con riferimento alle politiche dei controlli e ai potenziali comportamenti discriminatori di cui possono essere destinatari, il Manifesto sottolinea in maniera del tutto condivisibile l’impossibilità di distinguere nettamente tra strumenti di lavoro e di controllo, espressione di una logica del tutto superata (p. 39); del pari evidenzia la sussistenza di nuove frontiere della tutela della dignità dato il “numero impressionante di informazioni personali spontaneamente elargite” idonee a diventare “le basi di incontrollabili operazioni di profilazione” (p. 40). Qui il problema sembra essere non tanto (o non solo) quello della limitazione delle forme di controllo e delle modalità di acquisizione di informazioni, quanto quello della utilizzabilità delle rispettive risultanze sul piano del rapporto di lavoro nel rispetto di un equilibrato bilanciamento delle posizioni delle parti. Legata alle questioni appena evidenziate vi è la visione complementare della tutela delle norme inderogabili di legge e di contratto collettivo e di quelle antidiscriminatorie (pp. 41 e 42). Se è vero, come evidenziato nel Manifesto, che la tutela antidiscriminatoria arriva anche in aree vuote di diritti (p. 41), occorre conservare un’interpretazione rigorosa per evitare che la mera contrapposizione possa essere considerata quale illegittima discriminazione, tanto sul piano individuale quanto su quello dei rapporti sindacali, ferma la condivisa esigenza di superare ogni gap di genere in una logica propositiva.
12. Un tema di indubbia rilevanza – ed è l’ultimo che si esplicita con riguardo al settore privato – è quello relativo all’obbligo datoriale di sicurezza. Senza dubbio centrale durante la fase pandemica, il tema assume un proprio rilievo nella prospettiva della fase post-pandemica. La sfida è quella di rileggere l’obbligo di sicurezza in chiave di sostenibilità ambientale. L’affermazione è “forte”, in quanto si includono in esso tutti gli aspetti relativi alla prevenzione di incendi o disastri che abbiano un impatto sulla comunità e sull’ambiente esterno. È indubbio che questa prospettiva comporti una dilatazione dell’obbligo di sicurezza in capo al datore; ed è del pari indubbio che in base alla disciplina vigente si tratti di una dilazione in potenza non controllabile. Non per nulla, gli stessi Autori del Manifesto considerano “prematura, anche se interessante” una rilettura dell’art. 2087 c.c. in chiave di sostenibilità ambientale (p. 37). Sempre sul piano generale è, però del pari indubbia la possibile conflittualità tra l’interesse all’occupazione e quello alla salute non tanto (e non solo) degli stessi lavoratori, ma dell’intera collettività.
Il discorso per poter essere compiutamente svolto nel dettaglio richiederebbe un numero di pagine incompatibile con la necessaria sintesi di questo scritto. È però indubbio che gli stimoli di riflessione siano molteplici, con l’esigenza di politiche pubbliche di supporto esterno all’implementazione di tali processi e con la spendita di risorse pubbliche volte ad incentivare i processi di riconversione ove necessari. Una prospettiva che sul piano del rapporto di lavoro implica la disponibilità anche di una possibile riconversione del personale, ancora una volta secondo la logica di formazione e flessibilità in precedenza evocata.
13. Alcune considerazioni devono essere sinteticamente svolte anche per il lavoro del settore pubblico, senza entrare nelle problematiche di carattere più generale, quali il tema delle semplificazioni, senza dubbio indispensabili e non solo opportune, anche per i riflessi nei confronti del settore privato; della necessaria riorganizzazione delle amministrazioni, aspetto periodicamente affermato, alla cui ampia enunciazione sono risultate inversamente proporzionali le modifiche concretamente assunte. Non colgo neppure le osservazioni critiche relative al vigente testo del Titolo V della Costituzione, se non per osservare che tra il ritorno ad una visione centralista ed una difesa ad oltranza della vigente disciplina, si potrebbe forse pensare ad alcuni aggiustamenti “chirurgici” sulla scorta delle criticità mostrate dall’applicazione concreta delle norme e di quanto affermato dalla Corte Costituzionale.
Una considerazione ad ampio raggio deve essere, però, premessa in ragione della sua diretta ricaduta anche sullo svolgimento del rapporto del lavoro. Si tratta della tematica, originariamente sviluppatasi in sanità e poi estesasi in tutte le amministrazioni, della c.d. amministrazione difensiva. Si tratta della “paura”, non solo della difficoltà o della incapacità, di assumere decisioni, tanto più se innovative ed in discontinuità con quelle assunte fino a quel momento. Ciò impedisce di progredire, comporta uno stallo gestionale e, “quando va bene”, “solo” un gravissimo ritardo. Quel binomio che si voleva virtuoso tra autonomia e responsabilità, caratterizzante il ruolo della dirigenza pubblica, si è nei fatti curvato e i profili di responsabilità hanno assunto una prevalenza rispetto a quelli di autonomia; e questo, per la verità, non solo per colpa del quadro normativo o della politica, di regola indicati come i grandi colpevoli.
Come evidenziato nel Manifesto “l’egemonia della cultura dell’etica pubblica, come strumento di efficientizzazione” affermatasi nell’ultimo decennio “non ha certo giovato a processi di autoriforma virtuosa” (p. 78 del Manifesto). L’ampia produzione di norme, nate nell’ambito della c.d. legislazione volta a contrastare i fenomeni corruttivi, nella sostanza ha bloccato i processi decisionali. Fermo il necessario rigore nella valutazione dei comportamenti, c’è il grande tema della scusabilità dei comportamenti in presenza di certe condizioni, con una considerazione delle condotte che deve avvenire riportando le lancette al momento della decisione, senza una lettura con gli occhi del presente, senza dubbio più facile, ma anche potenzialmente distorta.
Occorre poi considerare il ruolo del pubblico e del privato negli ambiti in cui entrambi insistono. Posta l’indubbia diversità delle finalità d’azione dei soggetti pubblici e privati, sul piano del rapporto di lavoro vi è l’esigenza di addivenire, per quanto possibile, ovvero nel rispetto dei vincoli desumibili dalla Costituzione, ad una effettiva convergenza di disciplina. Diversamente la minor rigidità del privato – ed in alcuni casi anche le maggiori disponibilità economiche – pongono il settore pubblico in una posizione di indubbia difficoltà per quanto concerne sia l’approvvigionamento sia la gestione del personale e, dunque, alla fine per quanto concerne l’esercizio dell’attività.
Se da un lato vi è l’esigenza di addivenire a regole per quanto possibili comuni tra pubblico e privato nei settori in cui l’attività svolta sia la medesima, dall’altro lato vi è l’esigenza di superare la ormai consolidata tendenza volta a considerare le pubbliche amministrazioni come un monolite indistinto, guardando invece alle specificità ed alle differenze ad esse riferibili. Di qui un’esigenza di considerare tale profilo in sede normativa, senza che ciò si traduca in un’indebita ed ingiustificata proliferazione di leggi particolari.
Nondimeno, pure la scelta operata negli ultimi anni da un numero non esiguo di enti pubblici di esternalizzare molteplici servizi nella logica del contenimento dei costi e del miglioramento dei servizi non pare aver dato nei fatti una buona prova. Anche a voler concedere che vi possa essere stato un contenimento dei costi, a mio avviso tutto da dimostrare, attesa l’esigenza di considerare non solo quelli diretti, ma altresì quelli indiretti, è del pari tutto da dimostrare che vi sia stato un miglioramento dei servizi. E soprattutto sul versante del rapporto di lavoro il sistema non ha di fatto migliorato le condizioni di lavoro dei lavoratori impiegati dagli appaltatori, nonostante la garanzia delle c.d. clausole sociali da inserire nei capitolati. Qui una via da considerare potrebbe essere un ritorno al passato, un passo indietro, ma non secondo la logica pura della reinternalizzazione, bensì accompagnandola con misure volte a garantire flessibilità nell’utilizzo del personale addetto a tali servizi, nel senso di rendere possibile la rotazione della prestazione su varie posizioni per il completamento del debito orario. Questo nel caso in cui il servizio reinternalizzato debba essere svolto solo per alcuni giorni della settimana, o in alcuni periodi dell’anno. Con tutta evidenza quanto proposto non ha nulla a che vedere con il paventato (e non condiviso) possibile ritorno ad uno Stato padrone; non si tratta’, infatti, di una gestione diretta di imprese, bensì di servizi tipici di una pubblica amministrazione.
Sul piano sindacale/retributivo l’obiettivo, nella consapevolezza di non aprire la via per un indebito incremento della spesa pubblica, è però duplice. Da un lato, vi è la necessità di prendere atto, prescindendo da inutili speculazioni politico/partitiche, del diverso costo della vita nelle varie parti della penisola, che si scontra con un trattamento economico dei dipendenti pubblici sostanzialmente omogeneo su tutto il territorio nazionale e con l’impossibilità generalizzata per la contrattazione di secondo livello di incrementare significativamente le retribuzioni. Dall’altro lato, ed in stretta connessione con quanto appena posto in luce, vi è l’esigenza di premiare sul piano economico il personale delle amministrazione più virtuose, con una più libera facoltà di utilizzazione delle risorse acquisite quale frutto diretto dell’attività svolta dall’ente. Una leva salariale che non può essere scissa dal tema della valutazione del personale, rilevante come leva di incentivazione non solo economica, ma anche per quanto concerne l’attribuzione degli incarichi di responsabilità anche al personale non dirigenziale. Peraltro, la tematica della valutazione richiederebbe anch’essa un’approfondita riflessione dato che oggi in una valutazione di costi e benefici i primi paiono prevalere sui secondi; e questo, ancora una volta, non per la esclusiva responsabilità delle norme, ma per responsabilità degli attori in un generale contesto di scarse risorse.
Sul piano della disciplina del rapporto di lavoro ferma l’indicata opportunità di addivenire ad una disciplina omogenea (nell’ovvio rispetto dei principi costituzionali) in quei settori in cui privato e pubblico insistono, secondo una logica che non può essere della concorrenza, ma dell’integrazione, la problematica più urgente è quella attinente l’approvvigionamento di personale.
Tra i principi costituzionali da rispettare vi è quello dell’accesso per concorso alle pubbliche amministrazioni. Tre sono i profili su cui occorre riflettere. Il primo attiene alla fase della programmazione del personale, ovvero all’individuazione del fabbisogno generale, avendo riguardo sia al dato quantitativo sia a quello qualitativo. Sotto questo profilo, la riforma del 2017 ha senza dubbio introdotto importanti novità, delle quali va indubbiamente apprezzata la direzione intrapresa verso una programmazione meno vincolata nel rispetto del budget di spesa. Se la ratio era evidente, tradottasi in una riscrittura delle norme specificamente riferite alla programmazione, nondimeno, nel testo normativo, permangono alcune disposizioni incoerenti. Il secondo, più volte segnalato, ma rimasto “lettera morta”, attiene all’introduzione effettiva dell’apprendistato nel lavoro pubblico, ad oggi bloccato dalla mancata emanazione di un decreto volto a definire le modalità di attuazione nel pubblico impiego, indicato come più complesso di ciò che in realtà non sia. Il terzo – il più importante – attiene al tema dei saperi necessari alla pubblica amministrazione e alle modalità del loro accertamento. È condiviso che il focus debba spostarsi dalle conoscenze alle competenze; queste ultime costituiscono ciò che “serve” nel corso del rapporto, costituendone le conoscenze il presupposto. Ciò comporta un necessario ripensamento delle prove concorsuali, del diverse range of expertise che deve essere presente nelle commissioni e, finanche, alle modalità centralizzate ed unificanti dei concorsi.
14. Gli ambiti su cui ragionare e confrontarsi nel prossimo futuro sono molteplici e sollecitano una riflessione ad ampio raggio, come emerge e trova conferma dalla lettura complessiva del Manifesto. In premessa i suoi Autori esprimono l’opinione per cui “i valori tradizionali del diritto del lavoro non necessitino di uno stravolgimento, bensì di un adattamento e di una modernizzazione che li rendano più adeguati alle condizioni e ai bisogni del tempo che stiamo attraversando” (p. 9). Ciò in un’accezione ampia di diritto del welfare, comprensivo del reddito di cittadinanza o di forme equipollenti, ove “il diritto del lavoro deve assolvere ad una funzione di sostegno economico e possibilmente di redistribuzione” (sempre p. 9). Alla fine della lettura pare che vi sia nell’ambito del Manifesto uno spostamento marcato di attenzione verso le politiche di welfare, senza dubbio condivisibile, ma in parte in contrasto con le premesse in ragione dell’apparente valore assorbente. Ma questo è emblematico di un mondo che cambia in cui il diritto del lavoro ha assunto anche la nuova funzione di tutela e di promozione professionale del lavoratore. Certo è che vi è l’esigenza di un cambio di passo che non si può realizzare con il congelamento dell’esistente o con il recupero di modelli ormai superati. Bisogna avere chiara la direzione verso cui andare, supportando e non ostacolando i processi di cambiamenti. Se per qualcuno il nuovo fa paura è perché con tutta probabilità non ha piena contezza del presente.

 

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