TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. La «riproposizione della persona nel lavoro», che per Bruno Trentin è stata una delle più importanti conseguenze della fine del fordismo, sollecita il diritto del lavoro ad un ripensamento della disciplina. Questa riflessione può essere svolta, evidentemente, in diverse maniere. Il libro di Michele Tiraboschi , scritto nel solco della proposta di Marco Biagi, compie una scelta teorica particolarmente interessante, quella di cogliere l’occasione per avanzare l’idea di un «diritto promozionale».
La proposta, non semplice, ha la chiarezza e la responsabilità di prendere atto dell’ irreversibile novità intervenuta nei rapporti tra persona e lavoro, nell’impresa e nel mercato. Una svolta resa ancora più evidente dalla rivoluzione digitale, e che apre il diritto del lavoro ad un piano diverso da quello della mera «difesa» e della mera «tutela» della persona che lavora.
La ricerca di nuovi strumenti del diritto presuppone il convincimento culturale della loro necessità, cioè del fatto che quella «riproposizione» ponga davvero al «discorso giuslavoristico» l’esigenza di un ripensamento complessivo della fisionomia della disciplina. Su questo aspetto ampiamente trattato dal libro si concentrerà il presente intervento.
Tiraboschi delinea sin dall’inizio i limiti sociali entro cui a suo giudizio deve svolgersi il ragionamento. Sinteticamente essi consistono nel riconoscimento di uno spazio autonomo del rapporto tra persona e lavoro rispetto alle strutture economiche e proprietarie in cui esso accade (anche secondo l’ispirazione di P. Levi); nella salvaguardia dell’indipendenza sostanziale della dialettica lavoro/mercato dallo Stato; nella fine del ‘movimento operaio’ quale espressione di una classe (A. Touraine); nel peso della globalizzazione ai fini dell’effettualità dei diritti nazionali del lavoro; nella crescente separazione tra lavoro e cittadinanza (R. Dahrendorf). In altre parole, che le nuove condizioni in cui il lavoro si svolge sono contrassegnate da una accentuata individualizzazione delle attività e da una crisi dei tradizionali valori lavoristici, condizioni che sollevano una sfida non semplice all’universalità del diritto. È precisamente in questa cornice che Tiraboschi intende sviluppare il diritto del lavoro «promozionale»3.
A questo fine è indispensabile che anche il diritto del lavoro, e non solo gli imprenditori, o i manager e il lavoro con i suoi rappresentanti, escano dalla cultura fordista. Solo così è possibile elaborare un paradigma del diritto che non intenda semplicemente supplire e compensare l’inferiorità di potere e la debolezza del lavoro subalterno nei rapporti contrattuali fordisti; non perché questa inferiorità non esista, ma perché ora il diritto può essere «promozionale» dell’ attività autonoma della persona sempre più richiesta nei processi di lavoro. Il fordismo nega la persona nel lavoro, le rivoluzioni informatica e digitale la richiedono. Il diritto non ha più la sola e prioritaria necessità di colmare (come può) una assenza o regolare una negazione: può promuovere una presenza. Come?
Tiraboschi intende rispondere a questo interrogativo a partire dal significato storico del diritto del lavoro, al fine di sottolinearne determinati elementi. Innanzitutto, socialmente che cosa rappresenta questo diritto? Parafrasando Franz L. Neumann, Tiraboschi dichiara che il «principio fondativo» del diritto del lavoro è quello secondo cui «il lavoro non può essere inteso soltanto nei termini di un contratto di scambio, e chi presta lavoro soltanto come una merce»; per cui il diritto
«accanto alla «tutela del contraente debole» ha «altre e non meno complesse finalità», quali la
«pacificazione sociale, la regolamentazione della concorrenza tra le imprese, la mobilità della manodopera, la promozione della occupazione, la redistribuzione della ricchezza creata». In una parola il diritto del lavoro può essere soggetto attivo nella costruzione e regolazione del mercato in tutte le sue forme. Certo, a partire dal lavoro, cui quindi viene riconosciuta la forza oggettiva di essere alla base dei rapporti sociali, che esso è in grado di condizionare, insieme alla società che li prevede, attraverso gli elementi che caratterizzano le relazioni di lavoro,. Di nuovo, quindi, anche includendo queste finalità, il significato del diritto del lavoro e del proprio spazio di azione, rimanda alla questione da cui siamo partiti, quella del rapporto tra persona e lavoro. E’ in questo nesso che va ricercato, anche attraverso un ragionamento storico, il significato del diritto e la possibilità di un suo rinnovamento.

2. La rivoluzione francese mette formalmente in crisi il rapporto tradizionale di lavoro subordinato («servile»). La nuova uguaglianza formale dei contraenti nel mercato del lavoro, la base del contratto, in cui le persone del datore e del lavoratore vengono sancite nella loro eguale autonomia, viene negata nel rapporto di lavoro subordinato richiesto dall’economia, e con essa negata la persona stessa nel lavoro, nel cui svolgimento viene prevista una prestazione personalmente astratta (impersonale). E’ evidente che il prezzo è innanzitutto umano, relativamente ad ogni valutazione economica. Su questi aspetti Immanuel Kant, all’indomani della Rivoluzione francese, nel 1797 (Metafisica dei costumi), è il primo ad avere le idee molto chiare. Egli ritiene che nella società in cui tutti i cittadini sono formalmente uguali, il contratto di lavoro subalterno, che permette al datore di comandare il prestatore d’opera, negando l’ autonomia del lavoratore, nega anche la persona di questi, sancita dal contratto di lavoro; allora, dal punto di vista della persona, cioè della irrinunciabile autonomia dell’individuo, il contratto di lavoro è intrinsecamente contraddittorio, non ha validità perché nega il suo stesso fondamento (l’autonomia personale), e quindi, in nome della persona, secondo Kant, che sostiene il primato dell’etica sui rapporti sociali di lavoro, il contratto deve essere rifiutato. Sullo stesso punto interviene Georg W.F. Hegel, che nelle Lezioni di filosofia del diritto (1817-18) formula una proposta per disincagliare il ragionamento di Kant, introducendo una distinzione forte tra persona e prestazione che permetta il lavoro industriale, togliendo al lavoro il valore di rappresentare la persona nel tempo di esecuzione. Di fatto è la rivoluzione industriale che ha disincagliato il ragionamento di Kant, creando il lavoro senza qualità asservito alla macchina, che Hegel concettualizza e che Marx, ridefinendo il servizio alienato di Hegel come merce forza-lavoro, criticherà, rovesciando il significato della distinzione, che in Hegel è pensata per attestare la salvaguardia della persona nei nuovi rapporti di lavoro e in Marx per una nuova ricomposizione della persona in un lavoro fondato sulla persona dopo l’instaurazione di nuovi rapporti sociali di lavoro7.
Storicamente, il diritto del lavoro, cui la democrazia formale ha delegato la gestione della contraddizione – irrisolvibile – non è andato oltre i termini posti da Kant, Hegel e Marx - testimoni e protagonisti della rivoluzione francese e di quella industriale. Ma questo, mi sembra, non è stata la debolezza del diritto, che non poteva regolare ciò che la rivoluzione industriale aveva distrutto: l’unità di persona e lavoro. É stata invece la forza del diritto essere riuscito, regolandola, a tenere aperta la contraddizione tra il contratto del lavoro subordinato e la persona che lavora, contribuendo ad impedire che tale contraddizione si richiudesse a danno del lavoro, determinando un danno irreversibile per la democrazia. Non solo, il diritto del lavoro ha anche saputo - come dimostra Tiraboschi - rafforzare il significato della eguaglianza formale, superando lo sterile discorso della contraddizione tra formale e sostanziale, e invece trovando nella difesa e nello sviluppo dei diritti formali della società uscita dalla rivoluzione del’89 la base e la sponda indispensabile per la conquista di nuovi diritti in una società delle differenze prodotte dalla libertà.

3. Ma oggi, come si è detto il lavoro ha di nuovo necessità della persona del lavoratore e non solo della erogazione di un tempo di lavoro astratto (prestazione misurata in base all’orario), e quindi il diritto ha l’occasione di andare oltre i termini con cui dovettero misurarsi Kant, Hegel e Marx. In altre parole, se il diritto del lavoro sorge, nella società degli stessi diritti per tutti, in conseguenza della separazione tra la persona e le sue prestazioni per conciliare la democrazia formale con la necessità economica del lavoro subordinato, il fatto che sotto la spinta dell’innovazione l’impresa abbia bisogno del coinvolgimento della persona e quindi dell’ unità, nel lavoro, della persona e delle sue abilità, tutto questo costituisce oggettivamente un elemento di crisi delle ragioni iniziali ed ispiratrici del diritto. Che dal prioritario rinvenimento dei meccanismi giuridici per salvaguardare la persona negata, ora deve pensare le possibilità di regolare le diverse responsabilità tra persone ugualmente e concretamente presenti nel lavoro e nel mercato, al fine del successo dei processi produttivi e della regolazione del conflitto sociale oltre il confronto redistributivo, base del contratto per il posto di lavoro fordista. E quindi, come in più punti del libro Tiraboschi segnala, il discorso giuslavorista deve occuparsi anche dell’impresa, che non è più unilateralmente e semplicemente il lato più forte del conflitto. Il fatto che l’impresa e il lavoro abbiano, ciascuno dal proprio punto di vista, e la necessità del riconoscimento di una responsabilità, e il riconoscimento di una riproposizione della persona nel lavoro subalterno, è la nuova forma in cui si pone la contraddizione originariamente colta da Kant, e che ora stabilisce il piano, «promozionale», su cui deve intervenire il diritto. Con la consapevolezza della difficoltà di questa linea culturale. Il tasso di maggiore libertà nel lavoro richiesto, in linea di principio e in linea di efficienza, dalla «riproposizione della persona nel lavoro», non è un traguardo semplice, in un contesto, ad esempio come quello italiano, che non è ancora riuscito a liberarsi dalle forme di discriminazione, denunciate nel 2018 dal 42% dei dipendenti8. Come non semplice sarà la trasformazione del comando e della direzione in leadership, largamente richiesta dalla recente cultura manageriale.

4. Il libro di Tiraboschi contribuisce significativamente a portare il diritto del lavoro in questa direzione. Lo fa direttamente e indirettamente. Indirettamente sottolineando l’obsolescenza di determinati contenuti e temi della disciplina, direttamente portando la discussione sulle questioni emergenti. Più precisamente, muovendosi secondo l’idea, formulata in base all’unità della persona, che «il lavoro non è una merce», e quindi, intervenendo nella contraddizione che abbiamo ricordato espressa dall’autore come «tensione tra “lavoro-oggetto” e “lavoro-soggetto”, attraverso le questioni centrali della «stabilità del posto di lavoro», del «mercato del lavoro», della «sfida del reddito di cittadinanza», del «lavoro caratterizzato per debolezza, precarietà e fragilità», del «lavoro senza mercato», per arrivare infine a «tratteggiare una nuova ontologia del lavoro» in grado di contribuire ad una ridescrizione del «paradigma fondativo» della disciplina all’altezza delle trasformazioni che il lavoro sta subendo.
Passo direttamente al tema dell’ «ontologia del lavoro», che rappresenta la parte più impegnativa e interessante del libro, per poi finire con alcune note tracciate anche sulla base delle
«considerazioni conclusive» dell’autore. Lo scopo della riflessione, valido non solo per il giurista, è quello «di studiare e progettare il lavoro indipendentemente dalla sua qualificazione contrattuale», senza «negare la persistente importanza e vitalità del lavoro salariato e della corrispondente normativa e tutela»9. A questo fine Tiraboschi, parte dal «lavoro senza mercato», cioè dal lavoro svolto « per soddisfare interessi non economici, propri o altrui, come lavoro formativo, socialmente utile, volontariato»; un lavoro da non intendersi come attività estranee alla dimensione economica, ma come una prestazione finalizzata alla creazione di valori d’uso stabiliti in maniera autonoma dal mercato, ancorché aventi un valore economico e richiedenti prestazioni professionali che possono essere compensate.
Proviamo a ripensare la contraddizione di Kant da questo punto di vista. L’aporia che Kant vede tra persona e lavoro subordinato non si ripropone nel «lavoro senza mercato» nella misura in cui il contratto non preveda una erogazione della prestazione indipendentemente dalla partecipazione del lavoratore alla definizione delle finalità della produzione. Nel «lavoro senza mercato» questo è possibile perché il contratto è stabilito in base alle concrete finalità produttive e non sulla base di un’offerta di lavoro che deve accettare astrattamente tali finalità di cui è informata solo genericamente. In altre parole, il «lavoro senza mercato» reintroduce nella produzione la persona attraverso la conoscenza cui questa perviene, con la conseguente realizzazione informata, delle finalità produttive stabilite nel contratto. Cioè attraverso un mutamento del mercato stesso, nei termini di una ricomposizione a questo livello di persona e lavoro, senza prevedere un rifiuto del lavoro capitalistico. In questo modo Tiraboschi riesce a coniugare le tesi di Karl Polanyi sul carattere costruttivo del mercato con molte analisi di Stefano Zamagni sul «terzo settore».
Ritengo che questa maniera di ragionare, almeno nella misura in cui il contratto preveda la partecipazione di tutti i contraenti alla scelta e alla definizione delle finalità economiche, sia condivisibile e di grande rilievo per la costruzione di un nuovo profilo e la definizione di un nuovo valore del lavoro dipendente, del lavoro autonomo e del lavoro imprenditoriale. Il ragionamento ci pone di fronte ad uno scenario inedito e aperto a imprevedibili e positivi sbocchi per l’affermazione e la crescita della persona nel lavoro. Infatti, socialmente, esso apre un doppio scenario in cui la persona è riproposta, dall’ innovazione, nella produzione e, dalla responsabilità, nel mercato. E se a questo punto di una ‘fine’ del lavoro si dovesse parlare, essa non potrebbe che essere la fine del lavoro
«servile», come lo chiama Kant, o «coercitivo» e «subalterno», come lo chiama Marx; oppure la ‘fine’ dell’isolamento competitivo del lavoro autonomo; o la ‘fine’ dello spirito di dominio unilaterale (sull’uomo e sull’ambiente) nell’attività imprenditoriale.

5. Tuttavia perché la fine del fordismo conduca alle altre ‘fini’ ricordate, ovvero perché il
«lavoro senza mercato» non rappresenti un mercato parallelo, minoritario e senza o scarsi effetti sul mercato del plusvalore, occorre porre anche un altro problema. Perché niente impedisce, almeno in linea di principio, che i valori d’uso del «lavoro senza mercato» possano un giorno essere colonizzati dal lavoro del mercato e trasformati in meri valori di scambio. Abbiamo sottolineato l’originalità e l’importanza del ragionamento che parte da un mutamento del mercato per determinare un mutamento nel lavoro. Ma abbiamo anche sottolineato che questo mutamento, che parte dal ‘che cosa’ e del ‘per chi’ si produce, non determina, di per sé, un mutamento del ‘come’ si produce, anche se il mutamento del mercato crea importanti premesse per questo aspetto. Le quali abbiamo sintetizzato nel concetto di partecipazione alla conoscenza e definizione delle finalità produttive sin dalla stesura del contratto di lavoro. In altre parole, a partire solo dal mercato non mutiamo l’organizzazione della produzione, ma soltanto alcune, ancorché essenziali, premesse. Il Novecento ci ha insegnato, ad esempio, che il taylorismo è stato implementato con le forme più diverse di mercato, e che solo l’ideologia poteva distinguere, ad esempio, tra stakanovismo e supersfruttamento. Occorre quindi pensare che cosa deve cambiare nel lavoro stesso, e non solo nel mercato, perché il lavoro sia effettivamente autorealizzazione della persona. Cioè, di che cosa occorra garantire la presenza nell’attività di trasformazione materiale e immateriale in cui consiste il lavoro perché esso sia prima di tutto espressione della persona che lavora, e non di una determinata sovrastruttura sociale e culturale impegnata ad utilizzare dall’esterno i risultati del lavoro. E qui non si tratta di inventare niente, perché le principali forme della nostra cultura che di questo problema si sono occupate nel Novecento - cristiane, liberali e marxiste - hanno già da sempre nominato tale elemento: libertà, la libertà nel lavoro. Salvo poi, tutte quante, per diverse ragioni e in diverse modalità, arrendersi di fronte alla apparente impossibilità di attuare la libertà nel lavoro, rimandata, nel migliore dei casi, a un ‘secondo’ momento. Ebbene, la «riproposizione della persona nel lavoro» pone tutti di fronte alla possibilità di una scelta attuale.

6. Se per libertà intendiamo, come ad esempio Simone Weil ci ha insegnato 10 , non una indefinita disposizione di obiettivi e opportunità, ma la conquista di maggiore autonomia rispetto a determinati limiti, la libertà nel lavoro, a cominciare da quello salariato, è probabilmente il modello più compiuto di libertà umana. E per questo anche l’obiettivo più importante e irrinunciabile, base e educazione per le altre forme di libertà, a cominciare da quelle sociali e politiche. Il tema della libertà è ben presente nella ricerca di una nuova «idea», «statuto epistemologico»» o «ontologia», del lavoro di Tiraboschi, che egli coniuga come «libertà del lavoro» che permette il pieno sviluppo della persona11 . In questo senso l’autore precisa la propria posizione dichiarando di non ritenere più sostenibili le distinzioni tra labor, work e action (praxis) di Hanna Arendt, la quale ribadendo l’esistenza di un solco tra le attività produttive e quelle discorsive, in cui soltanto si realizzerebbe la libertà dell’essere umano, impedisce di valorizzare la presenza della persona, sia nelle numerose forme del «lavoro senza mercato» che Tiraboshi descrive, sia nel lavoro della doppia rivoluzione informatica e digitale, il lavoro della conoscenza e lavoro 4.0.del punta 186 Del resto già B. Trentin nella Città del lavoro (1997) notava che le distinzioni della Arendt non erano più sostenibili e che le differenze che essa poneva, alla luce del lavoro della conoscenza, si stavano rapidamente
«assottigliando». Ma cosa ancora più interessante cui perviene il ragionamento di Tiraboschi è che le trasformazioni che il lavoro sta attraversando, come le forme di lavoro nella Smart Factory o quelle rubricabili come «senza mercato», tendano a presentarsi come «azione»: «l’azione come attività nella quale l’uomo rivela se stesso […] spesso distinta dal lavoro in senso economicista […] Ma il lavoro contemporaneo […] contiene in sé i semi dell’ azione più che dell’ opera. Siano essi la dimensione relazionale […], lo scambio di formazione ed esperienza di vita […], l’altruismo del lavoro del terzo settore […]; ma anche i lavori più creativi dell’universo 4.0 […] e forse anche molti dei lavori meno esecutivi che oggi risultano accessibili a un’ampia parte della forza lavoro […] al punto di mettere in discussione figure centrali del fordismo come i quadri direttivi e la stessa categoria dei dirigenti»12.
L’azione è la forma di attività - praxis - che Aristotele contrappone a quello del lavoro manuale
– poiesis –, contribuendo alla determinazione delle contrapposizioni che stanno alla base della nostra civiltà: quelle tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra fabbricazione e discorso, tra esecutività e creatività, utilità e disinteresse, sottomissione e responsabilità, economico e morale, ecc.; contrapposizioni, cui sono sempre state associate forme di esclusione sociale, che il nuovo lavoro sempre più intellettuale e consistente in «atti linguistici performativi»13 contribuisce in maniera determinante a superare.

7. Nelle conclusioni Tiraboschi intende chiarire e approfondire ulteriormente quali possano essere, per il diritto, le conseguenze del rilievo della persona e dell’ idea di libertà che ha elaborato per le attività lavorative. Innanzitutto sottolinea che occorre mettere a fuoco un essenziale spostamento di accento, cioè di priorità in termini di rilievo, accaduto, sia nel mercato del lavoro, sia nei processi produttivi: quello «dal posto di lavoro al worplace within»14, cioè dal «posto» all’insieme di conoscenze, dall’occupazione all’ «occupabilità», alla conoscenza e capacità che costituiscono la soggettività della persona che lavora, la sua «professionalità». Una declinazione della «riproposizione della persona nel lavoro» per cui, potremmo dire, la questione dell’ occupazione è sempre meno separabile da quella della qualità del lavoro; ovvero, che ricerca di un’occupazione e scelta del lavoro sulla base delle proprie capacità, e del loro aggiornamento e incremento, sono sempre meno separabili - anche se il lavoro scelto non costituisce ancora una possibilità alla portata della maggioranza delle persone. Un piano, quello della persona e della sua professionalità, su cui si giocano le tre forme della libertà che Tiraboschi connette al lavoro: «la libertà nel lavoro, la libertà dal (peso/alienazione) lavoro e, più di tutto, la libertà del lavoro»15.
La professionalità richiama il tema della formazione di cui Tiraboschi analizza criticamente le diverse forme in cui è stata realizzata nel nostro paese, sottolineando l’esigenza che essa non sia semplicemente professionale e legata alle esigenza più immediate delle attività, ma sappia, invece, coniugare queste esigenze con quelle della crescita della persona, realizzando professionalità ampie ed aperte, «ruoli» e non mansioni, secondo la distinzione di Butera16. A loro volta, le tre forme di libertà citate richiamano sia il tema della professionalità, che Tiraboschi approfondisce, sia quello dei contenuti del contratto. Quest’ultimo mette in gioco, secondo Riccardo Del punta che Tiraboschi cita17, due elementi: la «collaborazione con l’impresa» e la «collaborazione nella impresa», aperta alla subordinazione. E in effetti formazione, professionalità, collaborazione e subordinazione appaiono le essenziali dimensioni in cui si giocano le forme della libertà della persona che lavora, a cui aggiungerei la classica tesi liberal democratica delle chances (R. Dahrendorf) ovvero delle «uguali opportunità» (B. Trentin).
Secondo lo schema delle libertà proposto da Tiraboschi, la «libertà dal lavoro» è il rifiuto del lavoro faticoso e senza autorealizzazione, che in ultima analisi coincide con la mossa di Paul Lafargue nei confronti del lavoro industriale sostituibile dalla macchina e svolto al servizio della macchina, un rifiuto che in genere approda all’impossibile salto dalla schiavitù salariale alla libertà del tempo di non lavoro (ozio). Le altre due libertà aprono allo scenario postfordista relativo, sia allo spazio del mercato, sia a quello della produzione. Due dimensioni sempre più intersecate, che le AI e i big data tendono quasi a unificare nella Smart Factory, ma che le differenti responsabilità legate alla proprietà o meno dei mezzi di produzione, e i diversi statuti del consumatore e del produttore, non permettono di ignorare. In questo senso direi che Tiraboschi attribuisce la libertà «del» lavoro principalmente al mercato, mentre quella «nel» lavoro riguarda la produzione del plusvalore e incontra i contenuti del contratto ricordati. Ovvero, entrambe le libertà si basano, come mette bene in evidenza l’autore, sulla professionalità, sulla sua appartenenza alla persona e sulla autonomia e mobilità (flessibilità) rispetto al posto di lavoro. Mentre la seconda consiste nelle modalità in cui tale professionalità viene esercitata nel posto di lavoro, nelle essenziali forme della collaborazione e della subalternità. Se la professionalità rappresenta, come scrive Tiraboschi, l’ambito su cui orientare e focalizzare la riflessione dei prossimi anni sulle funzioni del diritto del lavoro»18, appare indispensabile – specie nell’attuale situazione di trasformazione e di polarizzazione del lavoro – sia una riflessione giuslavoristica «promozionale» sulle chances ai fini della formazione non semplicemente professionale, sia sulle forme di partecipazione del lavoro nei processi produttivi ed economici delle imprese.

8. Per un lettore di formazione marxista come il sottoscritto il libro di Tiraboschi, molto ricco di riferimenti e aperto al confronto, aiuta a comprendere l’importanza dei nuovi spazi che le attuali trasformazioni hanno dischiuso sul piano in cui accade il contratto tra datore e lavoratore, il piano dell’ aporia di Kant, come ho cercato di delineare. Un piano su cui il diritto si è a lungo e positivamente confrontato producendo, soprattutto in Europa, un immane corpus, che ora viene strappato alla mera, ancorché fondamentale, dimensione del conflitto sul piano della libertà e della uguaglianza formali, determinando, sia dal punto di vista della professionalità, sia da quello delle stesse forme di lavoro e di modelli di ‘non-business’, nuove forme di libertà del lavoro nel mercato19. Al punto che nella nostra condizione risulta decisivo per il progresso delle persone, della produzione della ricchezza e della democrazia riuscire a coniugare la crescente liberta nel mercato con quella nel lavoro resa possibile dalle trasformazioni tecnologiche e organizzative, senza cui appare difficile poter parlare di libertà del lavoro.

 

 

 

 

 

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